domenica 31 dicembre 2017

Prepararsi Con Prudenza. In Niger E In Libia. E In Iran.

Buona fine anno, e  buon nuovo inizio. 
Brevi riflessioni, da "non-esperto", su alcune questioni di politica estera che si stanno imponendo alla nostra attenzione di questi giorni.

Non è semplice valutare quanto sta succedendo in Iran; la linea di demarcazione fra conservatori e progressisti non è di facile lettura in una realtà come quella, e in uno scenario così in movimento, tanto che queste proteste sembrano essere nate sotto un segno politico ultraconservatore, per poi "sfuggire di mano".

Quel che forse si può azzardare in ogni caso è che se si dovesse estendere la protesta l'Iran potrebbe avere maggiori difficoltà a gestire il suo ruolo internazionale, teoricamente in questo periodo in via di affermazione. Non è una sorpresa (le tensioni sotto la superficie non sono una novità nella storia recente del paese), ma di questi tempi è il caso di sottolinearlo perché il nuovo protagonismo di Teheran sembra non avere il "respiro lungo" che sarebbe necessario. 

Se sono moti di "libertà" (ma la situazione non è mai chiarissima, e dobbiamo essere massimamente prudenti), la comunità internazionale dovrebbe far sentire la sua voce; ma sempre con uno sguardo al dopo, alle possibili conseguenze di un regime in difficoltà.

Comunque situazione molto interessante e stimolante: delicata e da approfondire, senza farsi incantare da "teologie/filosofie della storia improvvisate", ma senza timore di agire, per vie ufficiali o più nascoste, se e quando necessario.

La regola è sempre quella, in politica estera, almeno per chi come noi non è propriamente una superpotenza militare ed economica: cadere sempre in piedi, giocare su più tavoli, scegliere e lanciarsi se necessario, ma mai abbandonarsi. Difendere il proprio onore, se ha senso la parola (in politica ha un senso particolare, diciamo), ma senza perdere inutilmente soldi e vite umane.

Vale per l'Iran, ma vale ancora di più per altre partite che interessano l'Italia: Niger e Libia in primis, collegate forse più di quanto appare.

Cosa andiamo a fare in Niger? E sarà veramente una missione "no-combat" come sembra esser stata delineata? e quali i rapporti con la Francia in questo scenario? Otteniamo qualcosa in cambio del nostro sforzo in Niger, magari sul fronte libico, che sta presentando criticità sempre maggiori (prepariamoci a qualche spallata pesante...)?

E' un cambio di prospettiva "radicale", per l'Italia, che tenta di giocare una partita più "europea" (si vedano le riflessioni di Pasotti più sotto)? Ma è possibile cambiare realmente la politica estera di un paese?
Potrebbe essere, ma io mi augurerei anche qui un po' più di "cinismo" da parte nostra, se vogliamo anche come cittadini osservatori: dobbiamo essere capaci di non rimanere soli, se per caso la situazione libica in particolare dovesse peggiorare. Dobbiamo essere capaci di coniugare - ancora - europeismo non di maniera e atlantismo; sì, atlantismo. Con la nostra diplomazia originale, con la doppiezza inevitabile che ci connota, comunque. Al di là dei risultati elettorali, che non potranno cambiare la nostra posizione nel Mediterraneo, e le nostre necessità.

Se faremo l'Europa unita anche in politica estera, la dobbiamo fare con piena consapevolezza dei costi che ci saranno e che peseranno su tutti noi; e senza dimenticare che sarà sempre un'Europa delle nazioni, degli Stati: con tutte le contraddizioni inevitabili di questa strana architettura, che dovrebbe rendere più coerenti interessi spesso contrapposti. 

Prepariamoci con prudenza. 
Buona fine anno, e  buon nuovo inizio.

Francesco Maria Mariotti

(Chi scrive è dipendente del Consiglio regionale della Lombardia; naturalmente le opinioni di questo post sono espresse a titolo puramente personale)


***

"(...) Se da un lato l’operazione nel Sahel rappresenterà un test per le capacità della tanto sbandierata difesa europea, dall'altro vedrà inevitabilmente confrontarsi interessi ed egemonie.

I francesi  ”giocano in casa” non solo perché il G-5 Sahel è composto da ex colonie di Parigi ma perché dall'intervento contro i jihadisti in Malì nel 2012 la Francia ha mantenuto una consistente presenza militare nella regione combattendo non senza perdite i gruppi jihadisti.


L’esperienza acquisita e la presenza di basi in tutte le aree strategiche, inclusa quella prioritaria per l’Italia nel deserto tra Niger e Libia, rendono quasi certo che l’operazione con quartier generale a Sévaré (Mali) e comandi tattici in Niger e Mauritania sarà guidata dai francesi.

Grazie ai contingenti europei, Parigi potrà ridurre l’attuale esposizione nell’operazione Barkhane (4mila militari con 30 velivoli e 500 veicoli) sostenuta in questi anni anche grazie al supporto finanziario e logistico statunitense.

Gli Usa conducono già da tempo nel Sahel missioni in gran parte segrete impiegando aerei spia, droni, forze speciali e contractors basati in Burkina Faso e Niger con basi a Ouagadougou, Niamey e Agadez. (...)

La Germania ha già donato un centinaio di veicoli alle forze del Niger (le cui risorse minerarie oggi sfruttate per lo più da francesi e cinesi, potrebbero far gola a Berlino) e potrebbe assegnare alla nuova alleanza il contingente attualmente presente in Malì sotto la bandiera dell’Onu o nuove truppe considerato che Berlino ha una propria base logistica all’aeroporto di Niamey (dove sono presenti anche una base americana e una francese. 

Quale ruolo per l’Italia

 Il ruolo dell’Italia (più volte chiesto dal Niger negli anni scorsi come Analisi Difesa raccontò nel reportage Roccaforte Niger)  dipenderà dalla determinazione di questo e del prossimo governo a inviare un contingente significativo in Niger e soprattutto ad autorizzarne l’impiego in combattimento oltre che per addestrare le forze nigerine. Attività quest’ultima che comincerà tra poche settimane come ha detto il premier Paolo Gentiloni che ha collegato la missione al ritiro di forze oggi in Iraq. (...) 

Una missione senza senso?

 In termini strategici vale poi la pena chiedersi se un simile dispiegamento abbia attualmente un senso, soprattutto se effettuato in condizioni di subalternità rispetto ai francesi che continuano ad essere (dal 2011) i più importanti competitor dell’Italia rispetto alla situazione in Libia.

La missione in Niger rischia infatti di rivelarsi utile a ridurre l’impegno e i costi di Parigi nell’operazione Barkhane senza però scalfirne la leadership di Parigi nel Sahel mentre circa il contrasto ai flussi migratori illegali non va dimenticato che i trafficanti potrebbero optare per rotte alternative, aggirando il dispositivo militare italiano grazie alle le piste desertiche che attraversano il confine algerino per poi sconfinare in Libia a sud di Ghat, area in cui da alcuni mesi è stata registrata la presenza di miliziani dello Stato Islamico.

In fin dei conti per bloccare i flussi migratori illegali l’arma più efficace (e la meno costosa) in mano all’Italia è rappresentata dai respingimenti sulle coste libiche dei migranti soccorsi in mare in cooperazione con la Guardia costiera di Tripoli.

Si tratta dell’unica azione che scoraggerebbe le partenze da tutta l’Africa garantendo che nessun immigrato illegale potrà mai raggiungere i porti italiani.  In altre parole non ha alcun senso inviare truppe e mezzi per bloccare il confine tra Libia e Niger se poi le navi militari italiane ed europee continueranno a sbarcare in Italia i clandestini riusciti a salpare dalle coste libiche."


"(...) Sorge allora la domanda: dove erano gli attentissimi controllori della France-Afrique quando milioni di euro e di dollari dell’assistenza internazionale elargiti a questi capofila del sottosviluppo sparivano nelle tasche dei clan di potere, dei presidenti, dei loro portaborse, benedetti dall'unzione di Parigi? Non è questo sottosviluppo scandalosamente permanente, e non nei tempi preistorici della terza repubblica ma nell'evo di Mitterrand, Chirac, Sarkozy, che ha spinto centinaia di migliaia di disperati che sentono la fame tutti i giorni a mettersi in marcia verso il Mediterraneo e Lampedusa? Non vibra nell'aria una fastidiosa domanda? Ahimè, la Francia ha inventato i diritti umani, ma si è dimenticata di aggiungervi l’anticolonialismo. 

E poi: i francesi hanno affidato il potere in Niger e in Mali ai neri, sudditi di cui apprezzavano la supinità all’epoca del colonialismo. Le popolazioni tuareg del Nord si erano mostrate invece perennemente ribelli. Già: dividere per imperare. Perché non hanno impedito che negli anni della indipendenza questi loro alleati, a colpi di emarginazione, disoccupazione, colonizzazione etnica e in qualche caso violenza, facessero guerra permanente ai tuareg? Fino a indurli a arruolarsi nel fanatismo jihadista, diventandone micidiali discepoli? Sono quelli che ci spareranno addosso, nel vecchio pittoresco fortino della Légion… La Francia non ce la fa più, da sola e con pochi denari, a far argine al vasto wagnerismo salafita. Per questo vengono utili i soldati degli alleati europei? 

Erano domande che si potevano porre alla Francia, perché no? in sede europea quando è spuntata la richiesta di dare una mano laggiù: siamo o non siamo amici e tra amici non si parla con franchezza e non con avvilimento adulatorio? Non era forse il momento di chieder conto di questa loro politica imperiale, sudicia e redditizia, in Africa? Prima di fornire nuovi avalli pericolosi: non solo con la disattenzione di questi anni ma anche con bandiere e guerrieri? Pretender qualche seppur tardiva abolizione coloniale, affinché anche in questa parte del mondo l’Europa tutta non diventi sinonimo generico di sfruttamento, arroganza e intrusione. Buona e gratuita propaganda per il troglodismo jihadista."


"(...) Eppure sembra proprio questa la strada scelta dal governo Gentiloni: un cambio di linea sottaciuto come da stile del personaggio ma quasi rivoluzionario nella tradizione italiana post conflitto mondiale, un atto di realismo in un momento in cui è venuta a mancare la sponda del liberalismo internazionale americano anche solo nella sciagurata declinazione isolazionista di Barak Obama. Con una America che pensa a se stessa, che sceglie manicheisticamente amici e nemici in una votazione Onu su Gerusalemme Capitale forse voluta più da Washington (per contrastarla e per definirsi) che dagli arabi (costretti a sostenerla), gli spazi per la tradizionale diplomazia militare atlantica italiana si sono ridotti al minimo. Con il Quai d’Orsay invece abbiamo una marea di dossier aperti che riguardano in Libia la rottura tra Tripolitania amica (se ben pagata) e Cirenaica russofrancese (...)


"(...) Haftar s’è costruito un ruolo via via crescente, creando i presupposti per emendare alcuni aspetti del Lpa. Il maresciallo di campo s’è preso credibilità con le armi e col sostegno diplomatico russo (soprattutto), per questo molti governi occidentali – tra cui quello italiano, particolarmente coinvolto nella soluzione della crisi – lo hanno iniziato a trattare come un pezzo imprenscindibile per chiudere il puzzle. Il delegato Onu Gassam Salamé ha cercato negli ultimi mesi di modificare l’accordo del 2015, anche inserendo aspetti a lui favorevoli, ma non si è arrivati a un punto di incontro. D’altronde la deadline del 17 si stava avvicinando, e lo stesso Haftar ha dichiarato: “Le forze armate libiche (chiama così la milizia che comanda, ndr) non saranno mai sotto la guida di alcun corpo non eletto (riferendosi al Gna, ndr), ma risponderanno sempre agli ordini del popolo libico”, ed è un chiaro messaggio sul fallimento di Serraj,  un invito a lasciare. Ora Serraj e il suo zoppo Gna sono sotto la proroga temporanea del supporto onusiano ed europeo (qualche giorno fa anche gli Stati Uniti hanno ribadito la fiducia in Serraj, sebbene pure Washington abbia intavolato dialoghi anche con Haftar). Ma il punto attuale è lo stallo, perché nessuno dei due centri di potere può prevaricare l’altro. Salamé ha così proposto nuove elezioni (da tenersi già in primavera?). Serraj non ha più forza (se non dopo un mandato popolare) ma “il suo rivale basato a Tobruk è ancora più disperato. Entrambi i governi hanno poco da offrire per alleviare la miseria quotidiana delle persone che dovrebbero servire, e non è chiaro se Haftar accetterà le elezioni nella Libia orientale, che controlla”, scrive su Al Monitor l’accademico libico Mustafa Fetouri. Fetouri sostiene che l’idea di Salamé di usare le elezioni come elemento di stabilizzazione in questa fase in cui la crisi non vede sbocchi può essere buona, “ma tenere le elezioni in tali circostanze è una grande scommessa”: in Libia c’è una crisi di sicurezza (l’esplosione all’oleodotto è un ultimo passaggio, qualche giorno fa, per esempio, è stato rapito e ucciso da ignoti il sindaco di Misurata), il sud del paese è un territorio ancora senza legge dove le forze costiere non si allungano e comandano gruppi etnici locali (da poco riavvicinati sotto egida Onu), manca una costituzione, manca l’attività politica democratica."


"(...) L’Arabia Saudita non è in grado di condurre direttamente una guerra contro l’Iran e nel caso accadesse può farlo soltanto con il decisivo sostegno americano. E questo nonostante le spese di Riad per la difesa siano state nel 2016 di circa 64 miliardi di dollari e quelle iraniane di 12. Anche i dati dell’economia sono nettamente a favore dei sauditi che vantano un Pil di 650 miliardi di dollari mentre gli iraniani intorno ai 400 miliardi di dollari. Per non parlare della produzione petrolifera: quella saudita è più che doppia rispetto a quella iraniana. Il confronto tra le due economie può diventare ulteriormente penalizzante per l’Iran se gli americani decidessero di imporre nuove sanzioni a Teheran.

I dati sulla potenza militare pendono dal lato iraniano per numero di soldati e in alcuni settori, ma i sauditi possono contare su un arsenale tecnologicamente più avanzato. Eppure i sauditi, che pure godono dell’appoggio aereo degli americani, non riescono neppure a battere la resistenza degli Houthi sciiti zayditi dello Yemen che di recente non solo hanno lanciato un missile vicino a Riad, con il probabile aiuto degli Hezbollah libanesi come addestratori, ma hanno sanguinosamente sfidato Riyadh facendo fuori immediatamente l’ex alleato ed ex presidente Abdullah Saleh quando ha annunciato di volere aprire negoziati con l’Arabia Saudita.

La guerra tra Riad e Teheran resta quindi sempre una guerra per procura e si potrebbe dire anche per fortuna: basti pensare a cosa potrebbe significare in termini di rifornimenti petroliferi sui mercati vedere in fiamme i terminal del Golfo.  (...)

Dopo la guerra irachena nel Golfo per l’occupazione del Kuwait, i rapporti tra i due paesi erano migliorati durante la presidenza di Hashemi Rafsanjani ma le tensioni sono riesplose con la caduta di Saddam nel 2003 e l’occupazione americana dell’Iraq. Questo è stato vissuto dai sauditi come un tradimento degli americani che hanno assegnato il potere alla maggioranza sciita emarginando i sunniti che prima controllavano la Mesopotamia ed enormi risorse energetiche. È stato così che l’Iran ha esteso la sua influenza tra gli sciiti dell’Iraq mettendo in agitazione il fronte sunnita e i sauditi che hanno sostenuto al Qaeda, il Califfato, Jabhat al-Nusra e altri gruppi jihadisti in funzione anti-iraniana e anti-Assad.

L’idea dei sauditi era quella di spezzare la cosiddetta Mezzaluna sciita tra Teheran-Baghdad-Damasco e gli Hezbollah libanesi: un asse strategico che dall’arco del Golfo, attraverso la Mesopotamia, arriva fino al Mediterraneo.

Questo è il motivo strategico per cui gli iraniani considerano le loro frontiere reali mille chilometri più avanti rispetto a quelle ufficiali sullo Shatt el-Arab, come ha del resto dichiarato pubblicamente il generale Qassem Soleimani

La guerra in Siria e la campagna saudita in Yemen contro gli Houthi sciiti sono gli ultimi due capitoli del faccia a faccia tra iraniani e sauditi. In Siria l’Iran vuole mantenere al potere Assad e ora, dopo l’intervento militare della Russia, ha accentuato la sua presenza con l’esercito regolare e i Pasdaran, le Guardie della Rivoluzione. Riad continua a insistere perché Assad venga sbalzato dal potere ma di fatto, insieme alla Turchia e al fronte sunnita, ha perso questa guerra mentre non riesce a vincere neppure quella nel “cortile di casa”, in Yemen, una sorta di Vietnam arabo.

Per questo lo scontro si è fatto ancora più acceso: vincerà non solo chi ha più risorse, tenuta e alleati ma chi saprà attuare la strategia più sofisticata e lungimirante."


"(...) Alcuni (ma non tutti) sostengono che le proteste del primo giorno siano state organizzate dagli ultraconservatori, cioè quelli che fanno riferimento alla Guida suprema iraniana, Ali Khamenei, l’autorità politica e religiosa più importante del paese. L’obiettivo, dicono alcuni analisti e giornalisti, sarebbe stato quello di indebolire il governo di Rouhani, da sempre in competizione con lo schieramento di Khamenei. Non ci sono prove certe che dimostrino questa tesi, ma Mashhad è una città dove gli ultraconservatori sono molto forti: dove per esempio è molto popolare Ibrahim Raesi, il candidato conservatore che fu battuto da Rouhani alle ultime elezioni presidenziali, a maggio, e che in passato accusò il governo di avere fallito nel mantenere le sue promesse di ripresa economica. Al di là di come sia iniziata tutta questa storia, nel giro di un giorno è andata fuori controllo. Le proteste si sono diffuse in tutto l’Iran e sono diventate qualcosa di diverso da semplici rivendicazioni economiche. Si sono cominciati a sentire slogan contro l’intero sistema della teocrazia islamica in vigore in Iran dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, e contro le decisioni delle élite politiche sia in politica interna che in politica estera. Per esempio si è urlato contro l’appoggio dell’Iran al gruppo estremista sciita Hezbollah e al presidente siriano Bashar al Assad. A Isfahan, città dell’Iran centrale conosciuta per il suo famoso “ponte dei 33 archi“, si sono sentiti i manifestanti urlare direttamente il nome di Khamenei, una cosa piuttosto inusuale. (...)


"Dopo due giorni di decise proteste contro il carovita in diverse città iraniane, oggi nel centro del Paese, a Doraud, nella provincia di Loerstan, si sono registrate le prime vittime: secondo quanto riferiscono fonti locali, almeno sei persone sono state uccise e diverse altre ferite quando la Guardia Repubblicana ha sparato per disperdere una manifestazion e; mentre a Teheran alcune centinaia di studenti sono scesi nelle vie intorno all’università unendosi alle contestazioni e nelle strade del Paese sono state attaccate banche e bruciati ritratti della guida suprema Ali Khamenei. Finora gli arresti hanno riguardato una cinquantina di persone. La Casa Bianca è intervenuta e ha avvertito le autorità di Teheran: «Attenti, il mondo vi sta guardando, gli iraniani ne hanno abbastanza della corruzione del regime e della dissipazione della ricchezza nazionale per finanziare il terrorismo». (...)


"(...) Sui social network sono rimbalzate le immagini delle proteste, registrate anche nelle città di Mashaad, Neyshabur, Kamshmar, Shahrud, Rasht, Tabriz e Isfahan. Secondo quanto filtrato su Telegram e Instagram, i manifestanti scandivano slogan contro il presidente Hassan Rohani o "Indipendenza, libertà, repubblica iraniana". Tra gli slogan anche quelli che sembravano inni in memoria dell'ultimo Scià di Persia, Mohamed Reza Pahlevi, rovesciato nel 1979 dalla rivoluzione islamica guidata dall'ayatollah Khomeini. Tra gli slogan più scanditi quelli contro il clero sciita, accusato di condurre una vita agiata e non in empatia con i problemi reali della società: "La nazione mendica, mentre il clero vive come Dio". Slogan anche contro le spese del regime per alcuni Paesi della regione mentre la popolazione attraversa difficoltà economiche. (...)


"(...) Borzou Daragahi, giornalista di BuzzFeed esperto di Iran, ha scritto che gli slogan che sono stati cantati ieri nelle piazze iraniane sono stati molto simili a quelli delle grandi manifestazioni del 2009, quando il regime di Teheran si trovò a dover affrontare il cosiddetto “movimento dell’Onda Verde”, organizzato dai riformisti iraniani dopo l’elezione a presidente di Mahmud Ahmadinejad. Quelle del 2009 furono le proteste più importanti e significative nella storia recente dell’Iran e furono seguite da una reazione repressiva da parte dello stato. (...)"


"(...) È difficile dire se oggi quall’aiuto ai rivoltosi arriverà, certo è che gli Stati Uniti hanno subito pubblicamente appoggiato la protesta contro gli ayatollah, in un gesto senza precedenti dai toni di Reagan. È lecito dunque pensare che nel caso in cui l’insurrezione prendesse piede gli Stati Uniti potrebbero assistere apertamente e concretamente i rivoltosi. Perché? Perché oggi l’espansione militare iraniana mette in pericolo gli interessi americani, sauditi e israeliani ed un cambio di regime è sicuramente più augurabile di una guerra classica nel Golfo, sia in termini di costi di vite umane sia banalmente in termini di budget, senza contare il rischio politico interno per un presidente che fatica a prendere in mano pienamente le redini del potere.
Eliminare i vertici dello stato iraniano potrebbe essere l’aiuto concreto degli americani alla nuova Rivoluzione iraniana, se e quando mai essa dovesse deflagrare. I metodi usati in altri luoghi del Medioriente (Siria, Libia, Egitto) non sono funzionali allo scenario iraniano, oltre ad essersi dimostrati fallaci ove già impiegati.
Anche per questo motivo è un errore paragonare i moti di piazza dell’opposizione iraniana alle primavere arabe. In tutte le cosiddette “primavere” la motivazione religiosa ed anti-laicista era un pilastro della rivolta, qui invece assistiamo allo scenario opposto, dove gli oppositori protestano per cercare di abbattere un sistema di potere politico-religioso che già controlla un intero paese.
L’attenzione del governo iraniano affinché la rivolta non diventi insurrezione è massima. Le forze di sicurezza hanno finora evitato di impiegare le armi e non fornire nessun martire alla piazza.
Nessuno oggi può sapere cosa accadrà in terra di Persia, ma di una cosa siamo sicuri: non sarà una primavera araba e nessuno degli attori stranieri che dovesse un domani intervenire attuerà l’obamiano motto del “Leading from Behind”.
Le dittature governano con il pugno di ferro, hanno potere di vita e di morte, ma ciclicamente (se non evolvono in una forma di governo più condivisa) sono destinate ad implodere nel caos e nel sangue.
L’Iran di oggi è un paese che può evolvere verso una forma di governo non teocratica oppure implodere per mano delle folle.(...)

giovedì 28 settembre 2017

Catalogna, Spagna, Europa

Il tema più interessante di questi giorni, visto sul lungo periodo, mi pare quello relativo a Spagna e Catalogna, e alla richiesta di indipendenza di quest'ultima rispetto a Madrid.

Quasi d'istinto, dopo la fine della Jugoslavia e viste le tensioni che in questo momento percorrono l'Europa, devo dire che mi sembra quasi assurdo pensare a un distacco elaborato in termini "indipendentistici"; ancor di più considerando il fatto che stiamo in qualche modo riscoprendo lo Stato come protagonista (assai acciaccato per la verità) dell'azione internazionale ed economica. 

Certo, questa riscoperta sa molto di "illusione" (vd. questo post del 2013), ma in un momento così delicato anche la sola percezione di una comunità coesa può essere fondamentale, per evitare di scivolare in situazioni inaccettabili e rischiose; e d'altro canto l'Europa è ancora creatura politica "acerba" per poter garantire al suo interno quel rimescolamento pacifico di confini che forse si potrebbe pensare positivo, in un mondo ideale.

Sicuramente la sfida delle autonomie "regionali" (intese in senso lato) è da raccogliere (per chi pensasse a facili paragoni, comunque, mi pare difficile collegare le vicende di Spagna e Italia, in questo senso), ma non sono accettabili scelte unilaterali. Forse la Spagna poteva fare di più prima in termini di ascolto? reagire in termini meno pesanti ora? Difficile dirlo. Le ragioni della legittimità politica e giuridica mi paiono per ora tutte a favore di Madrid.

Per farsi un'idea, segnalo alcuni articoli che mi sono sembrati ricchi di informazioni e considerazioni utili.
Buona lettura

Francesco Maria Mariotti

(Chi scrive è dipendente del Consiglio regionale della Lombardia; naturalmente le opinioni di questo post sono espresse a titolo puramente personale)

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"Il País ha elencato e smentito 10 falsi miti sul referendum per l’indipendenza della Catalogna che dovrebbe tenersi domenica 1 ottobre: per esempio che la Spagna rubi i soldi dei catalani, i quali sarebbero più ricchi stando da soli, oppure che la Catalogna indipendente entrerà automaticamente nell’Unione Europea. Il País – che finora ha preso una posizione nettamente contraria al referendum, e vale la pena tenerlo a mente – ha selezionato questi falsi miti dagli slogan e dalla retorica politica usati dai leader indipendentisti catalani negli ultimi anni: alcuni si possono considerare falsi miti non perché c’è la certezza che non si realizzeranno mai, ma perché non c’è certezza che si realizzeranno, come invece sostengono i favorevoli all’indipendenza. Inoltre, questi non sono naturalmente gli unici argomenti dei favorevoli all’indipendenza della Catalogna. (...)

Gli indipendentisti sostengono che i quasi 40 anni di autogoverno – ovvero la decentralizzazione del potere disegnata con la Costituzione del 1978 – siano stati un fallimento; dicono che oggigiorno sarebbe in corso un nuovo processo di centralizzazione del potere, e che quindi l’autonomia debba essere trasformata in indipendenza.
Il País sostiene che non sia corretto parlare di fallimento. Nel 1979, un anno dopo l’adozione della Costituzione, fu adottato un nuovo Statuto di Autonomia della Catalogna che tra le altre cose stabilì «un sistema di autogoverno senza precedenti nella storia della Spagna»: fu recuperata la lingua catalana, il cui uso era stato vietato durante il franchismo, si fecero passi avanti sulla corresponsabilità fiscale e si ridistribuirono le competenze tra stato e comunità autonoma. Nel 2006 fu approvato un nuovo Statuto di Autonomia, che dava ulteriori poteri alla Catalogna, anche se poi molte sue parti furono dichiarate incostituzionali dal Tribunale costituzionale spagnolo con una sentenza molto contestata. Il País sostiene che nonostante quella sentenza, e nonostante le diverse leggi centralizzatrici introdotte dal Partito Popolare del primo ministro Mariano Rajoy dal 2012 a oggi, il grande livello di autogoverno delle comunità autonome spagnole sia una cosa ormai consolidata: migliorabile, ma comunque notevole se comparato con altri stati del mondo. (...)

Come scrive il País, non c’è ragione di pensare che la Spagna non sia uno stato democratico. In Spagna esistono lo stato di diritto e la separazione dei poteri; il paese fa parte di tutte le convenzioni internazionali sul rispetto dei diritti umani e le libertà politiche delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea; Freedom House ha dato un punteggio di 95/100 al rispetto dei diritti civili e politici in Spagna, lo stesso dato attribuito alla Germania. Né il governo catalano né uno dei gruppi indipendentisti della regione hanno mai fatto ricorso a tribunali internazionali per denunciare delle violazioni dei diritti, né tantomeno lo stato spagnolo è mai stato condannato per questo tipo di violazioni. (...)"




"(...) All’interno della Costituzione spagnola non esistono margini per tale cammino, e vista l’impossibilità di stabilire un dialogo “alla scozzese” o “alla québecoise” con il governo di Madrid, in mano al PP, partito con una concezione centralista dell’organizzazione dello Stato, gli indipendentisti catalani, divenuti via via più numerosi da uno zoccolo duro del 15 – 20% dell’elettorato negli anni della transizione democratica al quasi 50% di oggi, hanno cercato di definire un altro cammino: quello dell’autodeterminazione.

Da qui che la convocazione del referendum da parte della maggioranza indipendentista nel Parlament (les Corts) e la conseguente legge di secessione in caso di vittoria del sì siano state legittimamente annullate dalla Corte Costituzionale. È come se un comune o regione italiana dichiarasse unilateralmente la propria indipendenza: sarebbe atto giuridicamente nullo.

Per antipatico che sembri, e pur biasimando l’inerzia di un governo spagnolo che non ha messo in essere negli ultimi anni alcuna iniziativa di dialogo con i fautori dell’indipendenza, che non hanno mai usato metodi violenti nel difendere le loro idee, l’intervento delle forze dell’ordine di questi giorni è legale (con una riserva sui modi ed eventuali eccessi, che vanno valutati nello specifico), non è una violazione della democrazia come sostengono alcuni osservatori disattenti o di parte.

Si sarebbe dovuto evitare d’arrivare a questo punto di rottura? Assolutamente sì: i due governi, spagnolo e catalano, hanno completamente fallito politicamente.(...)

Il diritto all’autodeterminazione è riconosciuto dal diritto internazionale in caso di occupazione militare da parte di paese straniero, di esistenza di un sistema coloniale e dell’uso della violenza da parte delle forze occupanti. Di fatto, l’autodeterminazione è categoria giuridica nata col processo di decolonizzazione e definita in quell’ambito. Gli indipendentisti catalani fanno un solo esempio, quello del Kosovo, ma è oggettivamente forzato vista la situazione bellica prodottasi in quel caso (per inciso, la Spagna è tra i paesi dell’UE che non ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo per paura a eventuali usi strumentali di tale precedente).
In tutta onestà, è impossibile sostenere che condizioni paragonabili al caso del Kosovo si diano nella Catalogna di oggi.(...)

Il tema dell’eventuale adesione all’UE, presentata all’inizio dal fronte indipendentista come automatica (lasciamo la Spagna e rimaniamo nell’UE) rimane teorico al momento attuale, anche perché persino in caso di raggiunta indipendenza, la Catalogna dovrà richiedere l’adesione all’UE come nuovo membro, processo che richiede l’unanimità degli Stati Membri attuali. L’assenso del governo di Madrid rimarrebbe comunque indispensabile.
Anche un eventuale divorzio richiederà molti accordi specifici sui temi legati alla separazione, come la ripartizione dei beni pubblici, il pacchetto finanziario d’uscita, le regole sulla doppia cittadinanza.
Siamo comunque molto lontani da quel momento. Adesso è il momento della concitazione e dell’estremismo."​



"(...) Il nazionalismo catalano è un movimento complesso che alberga al suo interno anime diverse, moderate e radicali, laiche e cattoliche. La storia insegna che si è radicalizzato ogni qualvolta il governo di Madrid si è opposto alle sue richieste o ha cercato di reprimerlo. È un movimento democratico ed europeista che dal 2010 ha conosciuto una torsione populista e indipendentista, fino a quel momento opzione largamente minoritaria. Anche dopo il 2010 l’indipendentismo non ha mai ottenuto la maggioranza nel voto dei catalani, mentre nel 2015 l’ha conquistata in termini di seggi, fatto che ha consentito la formazione di un governo di coalizione che non ha altri punti in comune al di fuori del progetto indipendentista. La decisione di indire il referendum, e le modalità con le quali vi si è giunti, hanno inferto un grave vulnus alla Costituzione, intollerabile in uno Stato di diritto. Ma da qualunque punto la si guardi, non si può non riconoscere che la richiesta d’indipendenza costituisce un problema politico, da affrontare politicamente. Così fece la Corte Suprema del Canada nel 1998 che, di fronte al secessionismo del nazionalismo francofono, emise una sentenza nella quale si affermava che il Quebec non avrebbe potuto, anche in presenza di un chiaro risultato referendario, procedere alla secessione, ma allo stesso tempo che il governo non poteva rimanere indifferente davanti alla chiara espressione di una volontà secessionista. Da qui la necessità di avviare negoziati che ne fissassero le condizioni. Alla sentenza seguì una legge del Parlamento (Clarity Act) che stabilì di affidare alla Camera dei Comuni la determinazione dei quorum (di partecipazione e di voto) necessari a rendere valido il risultato del referendum. Forse non è un caso che laddove si è votato, più volte nel Quebec e più recentemente in Scozia, non sia stato il voto secessionista a prevalere.



L’ostinazione con cui Rajoy ha rifiutato ogni negoziato riflette una peculiare e diffusa cultura politica nella quale la mediazione (intesa nella versione nobile, di dialogo e approdo a soluzioni attraverso compromessi) non trova tradizionalmente posto. La recente politica spagnola offre al riguardo vari esempi: il rifiuto di avvicinare ai Paesi baschi i detenuti dell’Eta e di costruire percorsi per il loro reinserimento nella vita civile anche dopo la sconfitta dell’organizzazione terroristica; il fatto che non si sia mai approdati a governi di coalizione neppure di fronte alla crisi economica e dopo due elezioni che non hanno dato a nessun partito la maggioranza per governare; il «no è no» del segretario del Psoe, Pedro Sánchez, all’astensione sul governo Rajoy. Una rigidità di principi a cui non sempre corrisponde analoga fermezza sul piano etico, come i casi di corruzione hanno abbondantemente dimostrato.

Le forzature della legalità democratica da parte dell’indipendentismo e la rigidità di Madrid hanno confezionato una situazione che nessuno sa come andrà a finire. Quel che è sicuro è che non finirà l’1 ottobre e che dopo sarà peggio."


"(...) L’onda autonomistica si è gonfiata ed è giunta a un livello al quale sembra difficile fermarla. Il governo centrale ha prima chiesto e ottenuto una sentenza della Corte Costituzionale che dichiara illegale il referendum catalano predisposto per il 1 ottobre. Poi, è intervenuto perquisendo uffici, addirittura arrestando alcune delle autorità catalane, annunciando il blocco del trasferimento di fondi da Madrid a Barcellona. Mariano Rajoy, esponente del Partito popolare e Presidente del governo spagnolo (di minoranza poiché ha bisogno dei voti di altri partiti), vuole fermamente mantenere l’unitarietà della Spagna. Al tempo stesso, teme il contagio di una vittoria degli indipendentisti catalani su altre regioni del paese: le Canarie, la Galizia, i Paesi Baschi, l’Andalusia. Non è detto che gli indipendentisti catalani vincano. Infatti, la Catalogna ha, proprio grazie alle opportunità che offre, attratto molti immigranti dal resto della Spagna che il catalano probabilmente non l’hanno imparato, la cui storia e cultura sono sicuramente non-catalane, che non possono avere l’orgoglio dei catalani da sempre o da qualche generazione. Però, Rajoy e probabilmente con lui il resto della Spagna preferirebbero non correre il rischio di una sconfitta dalle conseguenze imprevedibili, ma neppure di una vittoria, che sarebbe comunque alquanto risicata, di coloro che desiderano rimanere con la Spagna. (...)"

domenica 27 agosto 2017

Testi Utili (Barca, Letta, Kissinger, Fischer)

Alcune citazioni da letture sparse; importanti, anche se in alcuni casi datate, per capire errori e difficoltà di oggi. Nella politica economica e sociale del nostro Paese, e nella politica estera (non solo del nostro Paese).

Francesco Maria Mariotti

"(...) Le riforme non sono state scontate nelle aspettative e, quindi, nei comportamenti degli operatori. Al tempo stesso esse appaiono incomplete. (...) La soluzione del paradosso sembra, allora, risiedere nel fatto che alle riforme non si è associata la condivisione su quale ne fosse lo scopo. È mancato, è la tesi, un sistema di convincimenti e di valori condivisi che consentisse di interpretare in maniera sostanzialmente univoca il cambiamento perseguito; un modello condiviso della società italiana, del suo capitalismo, e quindi della finalità delle riforme. L'attuazione, allora, è avvenuta senza unitarietà di intenti e senza consenso culturale e politico. Le condizioni prospettate dalle riforme non si sono in larga misura realizzate; le aspettative non sono in larga misura cambiate. (...) Da un lato, stavano i 《giacobini》, dall'altra, i 《conservatori》.

I giacobini ci raccontavano la visione di un'Italia da normalizzare, fondata sull'idea che esista un modello unico di capitalismo, (...) I conservatori ci narravano la storia di un'Italia anormale, secondo cui il decentramento e la specializzazione del nostro sistema produttivo, la natura profondamente radicata nei territori delle nostre competenze,  la storia e la cultura del paese, richiederebbero forme diffuse di tutela e protezione dagli impulsi concorrenziali e modalità di governo rivolte a questo scopo. (...)

Il combinato disposto delle due visioni ha concorso alla scarsa efficacia del processo istituzionale.  Giacobinismo e conservatorismo si sono combattuti, validandosi reciprocamente.  Il risultato è stato uno solo: togliere al processo di riforma la base di un convincimento condiviso; togliere ai soggetti privati e pubblici che dovevano attuarlo l'incentivo, e poi anche la passione, per dargli corpo. (...) È venuta a mancare la leva delle aspettative anticipatorie ed è, viceversa,  subentrato nei soggetti privati e pubblici un atteggiamento attendista, che ha eroso l'efficacia delle riforme o la loro stessa attuazione. (...)"

Fabrizio Barca, Italia frenata. Paradossi e lezioni della politica per lo sviluppo, Donzelli, 2006, pp.50-54

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(...) Se l'Italia vuole raggiungere e superare in competitività i suoi partner e concorrenti,  il concetto di comunità deve diventare l'obiettivo e al tempo stesso il metodo. I valori comunitari non sono più, se visti con lo sguardo lungo, quel vincolo alla competitività del sistema che spesso risuona nei toni di chi pensa che basti la politica delle mani libere sempre e comunque per garantire il successo economico del sistema Italia. Non è così. La comunità è condizione decisiva per la competitività di un sistema.

La competitività non è infatti un obiettivo astratto fatto di cifre e performance. Se sono realmente importanti i criteri che abbiamo definito dell'"ambiente favorevole", questi ultimi richiamano tutti un profondo senso della comunità,  fatto di valori condivisi e di forte senso dell'interesse generale. 

Perché questi sentimenti pervadono il sistema, sono necessarie alcune condizioni. Bisogna che ci siano solide istituzioni per rendere possibile la partecipazione e la condivisione delle scelte. Oggi, per essere solide, queste istituzioni devono garantire la coesistenza della rappresentatività e dell'efficacia decisionale. (...)"

Enrico Letta, La comunità competitiva. L'Italia, le libertà economiche e il modello sociale europeo. Donzelli, 2001, pp. 21-22

"(...) Quando si parla di riforme, si evocano immediatamente tempi lunghi e processi a più fasi. Non si può credere  che le riforme consistano solo nello scrivere norme. È l'applicazione dei disegni riformatori il momento più insidioso. Essa richiede costanza e determinazione. Soprattutto, i due momenti, teoria e prassi, hanno protagonisti spesso diversi, a causa dei frequenti cambi di governo che tradizionalmente caratterizzano la vicenda italiana. È allora importante che si crei, su molte riforme fatte o in corso, un clima di continuità che prescinda dalle asprezza dello scontro politico ed eviti il rischio, tipico della storia del nostro Paese, di prassi che svuotano, nei fatti, le leggi. In competizione, come oggi siamo, non possiamo più permetterci simili incoerenze. (...)"

Enrico Letta, La comunità competitiva. L'Italia, le libertà economiche e il modello sociale europeo, 2001, Donzelli,  pp. 18-19

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(...) Le difficili scelta della decisione politica sono sempre solitarie. Dove, in un mondo di social network onnipresenti, l'individuo può trovare lo spazio per sviluppare la fermezza necessaria per prendere decisioni che, per definizione, non possono essere basate sul consenso? L'adagio secondo il quale i profeti non vengono riconosciuti dai loro contemporanei è vero in quanto essi operano al di là della concezione corrente;  il che è proprio ciò che ne fa dei profeti. Nella nostra epoca potrebbe non esserci più il 《tempo tecnico》per la profezia. La ricerca della trasparenza e della connettività in tutti gli aspetti dell'esistenza,  distruggendo la dimensione privata, inibisce lo sviluppo di personalità dotate della forza di prendere decisioni solitarie. (...)

La portata globale e la velocità della comunicazione minano la distinzione tra sconvolgimenti interni e internazionali, e tra i leader e le richieste immediate dei gruppi più numerosi. (...)

La tentazione di andare incontro alle richieste della moltitudine che si rispecchia nella comunicazione digitale può prevalere sul discernimento necessario per tracciare una rotta complessa, in armonia con gli obiettivi a lungo termine. La distinzione fra informazione, conoscenza e saggezza si indebolisce. (...)

Se la vecchia diplomazia a volte mancava di offrire sostegno a forze politiche moralmente degne, la nuova diplomazia rischia interventi indiscriminati,  privi di connessione con la strategia. Proclama assoluti morali davanti a un pubblico globale prima che sia divenuto possibile valutare le intenzioni a lungo termine dei protagonisti, le loro prospettive di successo o la loro capacità di dar corso a una politica di lungo termine. (...)

L'ordine non dovrebbe avere la precedenza sulla libertà,  ma l'affermazione della libertà dovrebbe essere innalzata dal livello di umore al rango di strategia. (...)"

Henry Kissinger, Ordine mondiale, Oscar Mondadori, 2015, pp. 349 - 355


"(...) L'Europa, che per lungo tempo si è considerata l'attore decisivo sulla scena mondiale,  rischia nel XXI secolo di diventare una potenza che recita soltanto nei teatri di provincia. Presa in sé, questa tendenza non è nulla di cui si possa lamentare. L'ascesa e il declino di grandi potenze non è una vicenda insolita nella storia e la grandezza non è in sé un valore degno di essere perseguito, però questo declino, sostanzialmente auto-prodotto e fondato su una debolezza "colpevole", è destinato ad avere gravi conseguenze per lo status politico ed economico degli europei. Visti dall'esterno, gli europei oggi sono ricchi, vecchi e deboli,  e questa è una combinazione che in un mondo inquieto e crudele di rampanti affamati non promette sicurezza e tranquillità. Se gli europei non dovessero essere in grado di organizzarsi in modo nuovo e di difendere i loro interessi, non passerà molto tempo e le potenze mondiali del XXI secolo tenteranno di trascinare l'Europa nelle loro rispettive sfere di influenza e di interesse. (...)"

Joschka Fischer, Se l'Europa fallisce?, Ledizioni, 2015, p.106