giovedì 8 gennaio 2015

La Guerra Strana Che Non Deve Travolgerci

Quanto è cambiata la società israeliana col terrorismo? «Siamo diventati più forti ed elastici e uniti». Zeruya Shalev, scrittrice israeliana.(intervista a Repubblica del 23 luglio 2005)

Quando andai in Israele, qualche anno fa, per un viaggio di conoscenza e solidarietà con quella società colpita dal terrorismo, un padre di famiglia (un italiano trasferitosi da qualche anno lì) ci sorprese con una battuta che poi scoprii essere un po' diffusa: "Per la verità, facciamo più morti noi sulle strade - con la nostra imperizia come automobilisti - che non il terrorismo con le stragi".
Era probabilmente il tentativo di esorcizzare la paura e l'angoscia, ma al tempo stesso diceva forse qualcosa di vero.

Naturalmente non si può sottovalutare quanto successo ieri a Parigi, ma è necessario mantenere la calma nel momento in cui si analizzano i fattori dell'evento. Questa è una guerra molto "strana", se proprio vogliamo chiamarla guerra e vedere un unico disegno che unisce tutti i punti. Bisogna fare attenzione, però, perché unendo punti troppo lontani fra loro rischiamo di vedere un Nemico Gigante e terrificante, quando magari sono tanti, piccoli, e non così forti.

Questo possibile errore di prospettiva - uno dei tanti che si rischiano in questa strana guerra "frammentata" e con più "scenari" -  può elevare l'allarme oltre il necessario e - soprattutto - far sbagliare le risposte. Che devono essere dure, sicuramente, ma precise. Il che significa - per esempio - che è sbagliato attaccare genericamente l'Islam, ma è altresì pericoloso - se le indagini confermeranno questa matrice - "rimuovere" la "connotazione" religiosa e fondamentalista, parlando semplicemente di "terrorismo" in modo troppo generico. 

Già in Afghanistan e in Iraq, e per certi aspetti in Libia, stiamo pagando i prezzi di un eccesso di azione e di un'analisi approssimativa; un comprensibile e necessario tentativo di "concretizzare" il nemico (magari facendolo incarnare in uno stato, o collegandolo a potenze considerate nemiche, fu il succo del tentativo "neocon") può portare a sbagliare mira, peso della reazione, azioni seguenti, e via così dicendo.

Ieri non c'è stato un nuovo 11 settembre. Sono state uccise 12 persone. Una tragedia infinita, perché infinita è ogni persona, ma limitata nei numeri. L'attacco simbolico è stato gravissimo, naturalmente, ma oggi lavoriamo e viviamo abbastanza normalmente. Sono stati correttamente attivati tutti i "sensori", e alzati i livelli di allarme; ma - per ora, e spero di non essere smentito - possiamo camminare abbastanza tranquillamente sulle nostre strade. Speriamo continui così. Ma se deve essere diverso, deve esserlo solo se strettamente necessarioe nella misura strettamente indispensabile. Per terroristi sparsi, almeno tali sembrano fino ad ora, non vale la pena - ed è totalmente inutile - attivare troppe difese; rischieremmo di soffocare senza guadagnarci nulla.

Soprattutto, non possiamo far decidere ai terroristi (quanti e quali che siano) come dobbiamo vivere la nostra vita, i nostri piaceri e i nostri affanni quotidiani. Certo, dobbiamo aver presente che non tutto è difendibile, che non tutto è prevedibile (troppo facile dire oggi che bisognava proteggere meglio la sede di quel giornale...). Dobbiamo essere duttili: forti ed elastici al tempo stesso, come diceva la scrittrice israeliana che ho richiamato all'inizio.

Pochi giorni dopo l'11 settembre, Tommaso Padoa Schioppa scrisse un articolo molto bello sul Corriere della Sera in cui invitava ad evitare "l'insidia di due tentazioni, due forme di evasione dalla realtà, ugualmente pericolose: l' indifferenza nel quotidiano e lo sconvolgimento del quotidiano.". Ve lo ripropongo qui sotto, perché mi pare che in questo difficile equilibrio ci sia la traccia giusta di come affrontare questa sfida, e forse tante altre.

"Non abbiate paura", disse un Papa anni fa, affrontando un gigante politico che terrorizzava il suo popolo. Ebbe ragione.

Non dobbiamo avere paura neanche oggi. E avremo ragione.

Francesco Maria Mariotti

Parte della risposta ai tragici fatti dell' 11 settembre dev' essere un intrepido e assorto ritorno al quotidiano operare, alla fiducia a scuola e in Borsa, alle normali conversazioni in casa e in ufficio. La capacità di liberarsi dalla minaccia del terrore che ha improvvisamente colpito il mondo dipenderà anche da come ciascuno, nel mondo, vivrà questo ritorno. Ciascuno nel mondo, perché miliardi di persone di tutte le età hanno visto le immagini del disastro, centinaia di milioni conoscono New York e ne hanno visitato le torri. In quello stesso martedì di settembre, nei minuti e nelle ore che seguirono l' attacco, in innumerevoli sedi pubbliche e private, dentro e fuori gli Stati Uniti, ci si riunì sgomenti, non sapendo che fare. Si decise che «il lavoro continua», business as usual. Per i più non era insensibilità, ma bisogno di una norma sicura, dunque di normalità. Lavoro, abitudini, normalità hanno subìto l' urto di eventi orridi e discriminanti che ognuno ricorderà per sempre. Sappiamo, stiamo poco per volta capendo, che quegli eventi porteranno cambiamenti anche nel vivere quotidiano. Né il prevalere del terrore né la sua sconfitta lascerebbero immutate le nostre abitudini. Tanto meno le lascerà immutate la lotta contro il terrore, di cui ora non conosciamo né i tempi né l' esito. Del vivere quotidiano, della normalità, l' attacco terroristico è stato ferita e tradimento. Normale era la giornata di lavoro cui si accingevano le migliaia di persone che sono morte. Normale era la vita in cui i terroristi si erano mimetizzati per anni in attesa del giorno dell' attacco. «Normali», si disse mesi fa, erano Omar ed Erika prima e dopo l' uccisione di mamma e fratello. Il quotidiano è fatto di abitudini lente a cambiare. In ciò sta il suo valore, perché in-corpora saggezza e civiltà sedimentate a lungo, entrate nelle fibre di ciascuno. Le abitudini sono e danno forza. Ai bambini danno fiducia; agli adulti libertà. Il lavoro è necessità e fatica; ma è anche sicurezza e riflessione. Nel ritorno al quotidiano vi sono consolazione e sostegno, ma anche difesa e riaffermazione della saggezza e della civiltà. Il ritorno al quotidiano diventerà una risposta intrepida se sapremo evitare l' insidia di due tentazioni, due forme di evasione dalla realtà, ugualmente pericolose: l' indifferenza nel quotidiano e lo sconvolgimento del quotidiano.(...)

Un gradino sopra si muovono cellule strutturate e con ramificazioni. Sono però categorie fluide, a volte si mescolano: possiamo avere due individui senza rapporti gerarchici con un movimento ma che sono disciplinati e con alle spalle un training. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a episodi diversi: a Bruxelles un militante ha impiegato un AK nell’assalto al museo ebraico, a Ottawa il terrorista era dotato di un fucile da caccia, stessa cosa nella presa d’ostaggi a Sydney e a New York un uomo affascinato dall’Isis si è lanciato con un’ascia contro la polizia. Ora c’è stata la sparatoria di Parigi, di livello superiore.

Quando nelle prossime ore molti di noi potrebbero essere tentati dall'intolleranza verso i “barbuti col caftano” che sempre di più incontriamo nelle nostre città, cerchiamo di ricordarci che anche il coraggioso Selvedan Baganovic è un “barbuto col caftano”, che però predica un Islam tollerante e pacifico. E chiediamoci quanti del miliardo e trecento milioni di musulmani che popolano il pianeta si sentono rappresentati dai sicari di Parigi o dai tagliagole di al Baghdadi o, meglio ancora, proviamo a chiederlo direttamente a loro: e probabilmente scopriremo che, nella lotta contro il terrorismo islamista, proprio la gran parte dei musulmani sono i nostri migliori e naturali alleati.
di Vittorio Emanuele Parsi - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/VRtlEL

Il risultato della strage sarà rendere più o meno frequenti gli episodi di autocensura? Il 7 gennaio è stata data una dimostrazione pratica di quello che può accadere a scherzare sulla religione. È possibile che con un moto d’orgoglio l’opinione pubblica mondiale si scuota di dosso le sue paure e decida di non accettare più limiti alla libertà di espressione. Ma è altrettanto possibile il contrario. Se per me è facile ignorare il timore per la mia incolumità, per altri colleghi – molto più in prima linea di me – non è così semplice. Il mondo non è fatto di eroi, ma di persone normali, con le loro debolezze ed incertezze che forse oggi più che ieri decideranno che è meglio non rischiare la vita per un disegno o per una critica corrosiva. A quel punto non ci vorrà molto (come ha notato Giovanni Fontana, sono bastate poche ore in alcuni casi) perché una grossa fetta di coloro che oggi scrivono #JeSuisCharlie comincino a chiedersi perché quello che non si può fare nei confronti dell’islam lo si può fare nei confronti del cristianesimo. Già oggi esistono molti musulmani e cristiani che condannano la violenza, ma allo stesso tempo sostengono la necessità di mettere limiti alla critica della religione. Non è impossibile immaginare in un futuro prossimo un politico che proponga di introdurre delle leggi contro il vilipendio della religione trovandosi così tra le mani tanto i voti degli estremisti islamici quanto di quelli cristiani. Sarebbe un mondo meno libero, che poi alla fine è esattamente quello che vogliono i terroristi.

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