martedì 3 giugno 2014

"Non seguirai la maggioranza per agire male" (lettura di "Principî e voti", di Gustavo Zagrebelsky)

In un momento storico in cui l'Italia sembra aver deciso di affidarsi (ancora!?) a un uomo solo al comando, e in cui "streaming" e "diretta" diventano i sostitutivi della rappresentanza (in questo - e forse anche in altro: nell'accettare per esempio il voto palese, in Parlamento, sulle richieste della magistratura - Grillo ha ottenuto una vera e storica vittoria, al di là delle percentuali delle Europee) è interessante riprendere in mano un testo non nuovissimo di uno di quei "professoroni", così additati all'opinione pubblica da alcuni esponenti di area governativa.
 
Leggere "Principî e voti" di Gustavo Zagrebelsky (Giulio Einaudi editore, 2005), anche nella sua "inattualità", a distanza di anni dalla uscita, impone - per così dire - una pausa di riflessione, invitandoci  a entrare nei luoghi, nei tempi e nei modi in cui opera quella particolarissima istituzione  - di cui l'autore è stato membro e presidente - che è la Corte Costituzionale. 

La "pausa di riflessione" non è solo un richiamo alla lettura; possiamo anche utilizzare questa espressione per dire la diversa dinamica che il dibattito e la decisione della Corte hanno - o dovrebbero avere, secondo il presidente emerito - rispetto al tempo presente, alle emergenze che la politica impone, o che alla politica stessa vengono imposte da mass-media, opinione pubblica e via così dicendo.
 
La distanza dall'esterno nei "processi" intentati davanti alla Corte è un percorso che da fisico si fa spirituale: il rito della "chiusura" del tavolo, aperto a ferro di cavallo durante le udienze, mentre diventa "quadrato, anzi cerchio (la figura che meglio regge il peso)" (p.13) quando i giudici si ritirano in camera di consiglio, segna quel processo di "messa a fuoco", appunto "presa di distanza", "sospensione del giudizio", che sono passaggi essenziali perché i giudici possano far valere - anche di fronte a se stessi - come unico criterio la fedeltà alla Costituzione.
 
E' questo il fulcro del breve e denso saggio di Zagrebelsky: la fedeltà alla sola Costituzione, di fronte a tutte le possibili "appartenenze altre", che inevitabilmente si fanno presenti alla coscienza e nel vissuto dei giudici; coscienza e vissuti che vengono vagliati di fronte a se stessi, e di fronte agli altri colleghi ("Ogni camera di consiglio, per nove anni, è perciò un esame, particolarmente severo nei primi tempi, quando prende forma la considerazione che accompagnerà il giudice, per tutta la durata della carica. Il passato conta solo per il nostro foro interno, per il giudizio che ciascuno di noi ha su se stesso, non per gli altri giudici che partecipano al collegio.", pp.63-64).

L'autonomia di giudizio - anche di fronte a proprie precedenti posizioni - sembra essere quasi - il paragone è azzardato, ma forse l'autore consentirebbe - il punto di arrivo di un percorso di ascesi, di continua negazione di sé. ("La camera di consiglio, oltre che un luogo fisico, è quindi anche e soprattutto un luogo spirituale: lo spazio di quella unità che di quindici fa uno", p.9). L'attenzione che Zagrebelsky porta ad alcuni dettagli procedurali, penso per esempio all'attenzione rivolta al problema delle dimissioni (pp.64-66, non a caso inserite in un capitolo dal titolo "Amor di sé"), servono a ribadire questo processo, questa attenzione che non è solo formale.

Il giudice deve saper prendere le distanze anche da quella "parti" di identità che sono più forti, come ad esempio l'appartenza religiosa, o etnica, o analoghe, "normalmente considerate naturali o, addirittura, virtuose: quelle che originano da cause interiori che non derivano da altri che da noi stessi"(p.93). Partendo dalla citazione della dissenting opinion del giudice Frankfurter in una causa in cui la Corte Suprema americana dichiarò l'obbligo scolastico del saluto alla bandiera come contrario alla libertà di coscienza (rovesciando un precedente orientamento), l'autore enuclea e cala nella realtà italiana la frase "noi giudici non siamo né ebrei, né cattolici, né agnostici" (pp.93-97), ribadendo la nettezza di una scelta laica che non può avere compromessi.

Ma come si giustifica politicamente una realtà così particolare, anche dal punto di vista della formazione, come la Corte? Qui Zagrebelsky offre un contributo che può servire - io credo - anche alle nostre discussioni quotidiane, richiamando la distinzione fra pactum societatis e pactum subiectionis (pp.25-26, poi ripresa in seguito più volte).
 
Il pactum societatis è il patto per cui si supera il conflitto interno alla comunità, si mette al bando la guerra civile, e si  dichiarano i valori che legano una società, quel minimo comune denominatore che fa sì che una collettività stia insieme, anche nel rispetto di alcuni valori fondamentali; il pactum subiectionis è la scelta di sottomettersi a un governo - a una maggioranza, in democrazia - al fine di poter arrivare a decisioni concrete e operative e regolare la vita della comunità. Il secondo è vincolato al primo, dipende dal primo.

Ma la politica che "regge" - diciamo così - il secondo patto valendosi del principio di maggioranza può ribellarsi al primo patto, attaccando - anche subdolamente - i valori che ci uniscono. Ed è di fronte a questi attacchi che il giudice costituzionale deve comunque saper continuare nella sua missione, educato - anche dalla forme dei riti, che oggi a volte non conosciamo o comprendiamo - a quella distanza che permette la chiarezza di giudizio e la libertà di giudizio. 

Quella distanza che fa sì che il giudice possa obbedire al monito divino "Non seguirai la maggioranza per agire male" (Es 23.2, riportato a p. 118): e, a conferma della centralità di questo monito, il titolo di uno dei capitoli fondamentali del libro (quello in cui vengono presentati i due pacta) è "Non tutto può mettersi ai voti".  

Non tutto può mettersi ai voti, e nessuna maggioranza può farci accettare ciò che è male. Questi i due pilastri della dignità del giudice costituzionale, e che andrebbero meglio compresi da tutti, proprio oggi.

Certo, alcuni toni e richiami del libro si possono più o meno condividere, e a volte il testo può apparire eccessivamente "severo", o "timoroso" e prudente rispetto ai cambiamenti che di volta in volta si sono proposti intorno al funzionamento della Corte, o alla sua composizione; ma il messaggio di Zagrebelsky appare comunque forte e attuale, e foriero di nuove riflessioni. 

Proprio quando appare urgente il momento della decisione, proprio quando troppo spesso ci si richiama facilmente al Carl Schmitt che caratterizza la politica con la dicotomia amico-nemico (si legga la nota 9 a p.38, dove si denuncia la banalità di siffatta estensione di un concetto bellico a tutta l'attività politica), ecco che allora deve essere più forte la attenzione al pactum societatis che ci lega, deve essere più forte il richiamo a ciò che ci unisce, rispetto a ciò che ci divide.  
 
Non certo per mantenere tutto uguale a se stesso, ma perché nella fretta del cambiamento non si perdano di vista i legami che ci dicono ciò che siamo come collettività. Al di là dei leader e delle urgenze -  mediatiche o reali - del momento.

Francesco Maria Mariotti

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