martedì 7 ottobre 2014

Diritti Di "Famiglie" Tra Legge e Coscienza: Un Primo Passo Da Fare, Una Riflessione Da Proseguire

Premessa

Comunque la si pensi sulla questione omosessualità, matrimonio omosessuale, genitorialità "allargata" (non solo omosessuale), in Italia c'è libertà di pensiero e di manifestazione, e dunque le Sentinelle In Piedi devono poter manifestare senza problemi. Fare delle contromanifestazioni è naturalmente teoricamente possibile (purché pacifiche), anche se a mio avviso denota più debolezza che non forza dei contromanifestanti; purtroppo però in Italia manifestare e contromanifestare sono stati più il primo passo verso qualcosa di orribile, che non "sana competizione democratica"​; per questo non mi piacciono né le manifestazioni delle Sentinelle (in cui mi pare ci sia un eccesso di preoccupazione per alcuni possibili cambiamenti normativi) né le contromanifestazioni, tanto più se si arriva a estremi poco consoni a un dibattito democratico.

Parte 1: Un Primo Passo Da Fare
Comunque, al di là delle manifestazioni: io credo che a livello politico e giuridico sia necessario legiferare almeno sul riconoscimento delle unioni gay, perché due persone dello stesso sesso che condividano un percorso di vita devono poterlo fare senza impedimenti particolari o ipocrisie: se un uomo è la persona più importante per un altro uomo (o una donna per una donna), deve poter essere riconosciuto come tale in quelle situazioni in cui la presenza del compagno/a è necessaria (in ospedale, in carcere, qualsivoglia altra situazione).

Per questo mi pare che la proposta che fece quasi un paio di anni fa l'avvocato Carlo Rimini, docente alla Statale di Milano, sia ancora attuale e meritevole di considerazione, almeno per cominciare a fare un primo passo non più procrastinabile. Rimini propose infatti (la Stampa del 27/12/2012)  l'approvazione del seguente unico articolo di legge: "Il matrimonio può essere celebrato solo fra persone di sesso diverso. Due persone dello stesso sesso possono contrarre una unione civile. Le condizioni necessarie per contrarre una unione civile sono le medesime indicate dalla legge per il matrimonio. Le persone che hanno celebrato una unione civile hanno gli stessi diritti e i medesimi doveri che derivano dal matrimonio. Alle persone che hanno contratto una unione civile non si applicano le norme relative all'adozione di minorenni".

Con tale approvazione si risolverebbero diversi problemi (pur dovendo precisare - mi pare - come venga "celebrata" l'unione, in termini di "ritualità giuridica"): la proposta ha infatti il merito di segnare un minimo comune denominatore su cui si potrebbe trovare d'accordo anche chi per motivi di fede o filosofici non accetti la piena equiparazione dell'affetto omosessuale rispetto a quello eterosessuale.
Viene però "messo da parte" il problema dell'adozione, ancora troppo divisivo. Su questi temi la riflessione è da proseguire, tentando però di non costruire steccati o costringere le persone a una falsa scelta fra "modernizzatori superlaici" e "omofobi/bigotti".

Io ho svariati dubbi a proposito, e voglio provare a condividerli, perché spero siano uno stimolo alla riflessione, e magari un aiuto a dibattere. Tali dubbi pertengono più al tipo di "retoriche messe in campo" e che a volte capita di dover ascoltare/leggere, e non necessariamente impediscono di valutare positivamente una eventuale deliberazione legislativa, che ha una "ratio" autonoma. 

Parte 2: Una Riflessione da Proseguire
Vediamo se mi riesce di spiegare meglio, andando per punti (naturalmente le opinioni che esprimo sono solo mie, l'eventuale utilizzo di citazioni a supporto non significa coinvolgere gli autori delle citazioni nelle mie convinzioni):

1. quasi a premessa (e un po' mi ripeto): la legge non è una indicazione morale; serve anche a (principalmente a?) regolare rapporti giuridici, spesso "vestendo" di "forma giuridica" rapporti che già si danno nella società (che ha una vita autonoma rispetto allo Stato). Una legge sulle unioni omosessuali ricade in questo ambito, e in questo senso non credo si possano fare obiezioni di altro tipo. Prima ancora che "giusta" o "sbagliata", una legge di questo tipo - lo si diceva poc'anzi - è necessaria per regolare situazioni di fatto già esistenti, tutelare i soggetti più deboli di una coppia, tutelare questi affetti rispetto alle situazioni in cui in qualche modo viene a rilievo la "coppia".

2. è lo stesso per il caso delle adozioni? sì e no, mi pare. Sì, visto che esistono già coppie omosessuali con figli, spesso "ereditati" - diciamo così - da precedenti relazioni. No, se la legge dovesse "aprire" alla possibilità di adozione di figli di altre coppie, abbandonati o simili. Sotto questo aspetto, è comprensibile, mi pare, che si abbia qualche titubanza nell'assimilare la famiglia omosessuale adottiva a una famiglia eterosessuale. E' una titubanza ingiustificata da un punto di vista razionale? può darsi, ma è il caso di andare un po' più a fondo. Provo a fare un passo "di lato":

3. Uomo e donna sono diversi? io credo di sì; mi pare ci sia una differenza ineliminabile fra i sessi, che a volte noi tutti sperimentiamo - anche nel rapporto di coppia eterosessuale - come "incomunicabilità", e a volte "mistero". In questo senso, mi pare che sia difficile, forse impossibile, equiparare totalmente amore omosessuale e amore eterosessuale. In realtà qui opero una semplificazione abnorme, perché forse di "amori" ne esistono tanti quante sono le persone che respirano in questo mondo; purtroppo però per riflettere su cosa succede "al di fuori della nostra coscienza" è inevitabile utilizzare queste "categorie" così generali. Non si discute la sincerità o la bellezza di un amore fra uomo e uomo, o fra donna e donna. Però mi pare "non vera" l'affermazione - che a volte ricorre in alcuni dibattiti - che "tutti gli amori si equivalgono", o "l'importante è il sentimento". Ulteriore precisazione: questo non vuol dire "c'è un amore di serie A e c'è un amore di serie B". Vuol dire solo: non rendiamo tutto uguale, quando uguale non è.

4. Forse qui il punto che per me è di maggiore difficoltà; mi pare cioè che per uno scopo ritenuto giusto (allargare i diritti di famiglia anche alle coppie omosessuali) si "stiracchi" la realtà, si dica qualcosa di non corretto. In questo senso alcune delle perplessità di parte cattolica a me pare non siano da sottovalutare. Anche non condividendo l'impostazione della morale cattolica in ambito sessuale, mi pare che si possa condividere il timore di una "banalizzazione" della questione.

5. Quanto detto - del rischio di una banalizzazione - vale solo per l'adozione omosessuale? A ben vedere, il discorso può essere allargato anche ad altre situazioni di "genitorialità allargata"; penso per esempio alla fecondazione eterologa, anche con coppie eterosessuali. Anche in questo caso mi è capitato spesso di sentire o leggere - da parte di chi difendeva la scelta della fecondazione - frasi del tipo "la famiglia è un prodotto sociale", quasi come a dire "è un'invenzione", "è una costruzione". Il che è giusto e sbagliato assieme. Giustissimo se pensiamo a quanto effettivamente il "modello" di famiglia sia legato alle condizioni sociali e anche politiche di una data comunità. Sbagliato, se pensiamo che il senso della famiglia sia totalmente artificiale

6. Per dirla in breve, nasciamo comunque da un uomo e da una donna. Possiamo non conoscere l'uomo e la donna che ci hanno generati, possiamo non conoscere di chi era il seme, di chi era l'ovulo; possiamo "occultarli" legalmente; possiamo "rinominarli" nell'adozione. Ma la radice rimane quella, mi pare. Da uomo e donna siamo nati, nasciamo. E "famiglia" mi pare sia il più semplice "rispecchiamento" di questa origine nelle figure del padre e della madre, del padre maschio e della madre femmina. Ineliminabili, anche quando non ci sono. Ineliminiabili, anche quando odiosi. Anche nel dolore del vuoto, se c'è vuoto in una delle due presenze, o in ambedue. Vuoto che nessuna altra presenza può sostituire. Non lo diciamo dal punto di vista della serenità della persona del figlio, che grazie a chi lo cresce, e grazie alla sua propria forza, può superare anche dolori o mancanze forti. Lo diciamo dal punto di vista della radice della persona, dal punto di vista della sua origine, che è parte importante del suo modo di essere al mondo.

7. Questo vuol dire che non dovremmo accettare allora nessuna adozione, o nessuna donazione del seme? O insomma, nessun tipo di genitorialità "altra" rispetto a quella "naturale" (e quindi "artificiale" in senso lato)? no, qui non si vuol fare discorsi di questo tipo; tanto più in un momento storico in cui pare crescere l'infertilità maschile, e vari altri fattori - come lo spostamento in avanti dell'età della maternità per le donne che lavorano - rendono forse inevitabile l'utilizzo di tecniche per andare incontro alla genitorialità; in questo senso anche il legislatore deve essere prudente nel non proibire se non quando sia strettamente necessario, e nel lasciare che nella società si creino anche le condizioni per una genitorialità diffusa e consapevole. Non lo dico dunque perché pensi che si debba regolare in un senso piuttosto che in un altro; ma, di nuovo: perché non si dica con troppa facilità che "è tutto la stessa cosa", che "non è importante da chi nasci, ma chi ti educa", che "due genitori uomini sono la stessa cosa di un uomo e di una donna, sono solo famiglie diverse".

8. Aggiungo: nessuna legge può alleviare dal dolore di non avere figli, nessuna legge può "risolvere" l'impossibilità di provare talune esperienze. Certo, la tecnica medica può aiutare a "curare" il problema, quando è di un certo tipo, e in questo senso è la benvenuta. Ma questo non può significare far finta che sia vero ciò che non è: un uomo e un uomo non potranno avere figli attraverso il loro rapporto sessuale; e così la donna e la donna. Questa è un'impossibilità che definirei - con qualche trepidazione - "assoluta", almeno finché il processo di cambiamento naturale in cui siamo sempre immersi non porterà a un altro "tipo" di essere umano. E questa è una impossibilità diversa da quella che la medicina può aiutare a "guarire". L'amore omosessuale "di per sé" non è "generativo". Il che - è il caso di ribadirlo - non significa che non possa essere stupendo, come stupende sono tante storie che ognuno di noi conosce. 

9. E dunque? Adozione sì o adozione no? non riesco a trovare una risposta chiara; e devo dire che alcuni dei dubbi non sono tanto legati all'omosessualità dei genitori, ma al "grado di distanza/finzione" che c'è rispetto alla genitorialità "naturale"; in questo senso le mie perplessità si estendono a tutte quelle situazioni in cui mi pare ci sia il rischio di "eccedere" nella "simulazione". Non conosco abbastanza bene le differenze giuridiche fra adozione ed affido, ma in virtù di quanto ho tentato di dire, mi pare che in generale - anche nel caso di coppie eterosessuali - siano da preferire - e quindi eventualmente incentivare - quelle forme che rendono il rapporto fra figlio e genitori non naturali più "leggero", più chiaro e netto nella differenza rispetto alla "natura". Insomma, che in questi casi il figlio sappia - quando è il momento opportuno - che chi lo sta crescendo non sono il suo vero padre e la sua vera madre. Che il figlio sappia.

10. Ecco, chiuderei proprio andando verso questo figlio, o questa figlia, che ho nominato troppo poco, e i cui diritti troppo poco sono presi in considerazione, spesso anche da chi dice di volerli difendere. Figlio che non può essere oggetto di desiderio o di possesso. Ma che non è neanche leggibile nell'ottica religiosa del "dono". Non più, almeno da quando in qualche modo uomini e donne riescono a controllare le nascite. Retoriche del "dono" e retoriche del "voglio un figlio a tutti i costi" dovrebbero scomparire dai nostri discorsi. Perché non accolgono la persona, la novità che viene al mondo. Persona che ha diritto - questo sì, insopprimibile e forse indiscutibile - di sapere, di conoscere la sua origine. Ecco, su questo vorrei che non si cedesse: sul fatto che il figlio possa conoscere chi è l'uomo e la donna che lo hanno generato. Anche se magari solo in provetta, o per "affidamento" in grembo. Perché senza quel sapere, qualcosa manca, io temo. E questo è un prezzo che un figlio non deve pagare.

***

(presentò bene il problema su questo ultimo punto - anni fa, se non erro nel 2011 - un articolo su ioDonna di Barbara Stefanelli. L'ho ritrovato in un altro sito e ve lo propongo come spunto di riflessione, approfittando anche del fatto che si parla di una situazione ancora diversa da quella di cui ho provato a dire)

È il giorno della festa del papà negli Stati Uniti. Pagina delle opinioni del New York Times.L’autore è Colton Wooten ed è nuovo tra  gli editorialisti: si è diplomato questo mese alla Leesville Road High School, Raleigh, North Carolina.



Il suo intervento è una lettera alle donne che hanno generato figli grazie all’inseminazione artificiale con sconosciuti. Racconta di averlo saputo a cinque anni. All’inizio del 1992 1a madre si rende conto di essere vicina alla sua frontiera biologica, non ha un compagno, vuole un figlio.


Fa i test di fertilità, analizza i profili dei donatori di sperma. In autunno il piccolo Colton nasce. Qui si apre un dibattito che conosciamo: è più forte il diritto alla maternità di una donna sola o quello di un figlio ad avere un padre accanto? È un trionfo di autodeterminazione al femminile o un tonfo verso nuclei familiari squilibrati? E, comunque, i bambini devono poter risalire all’identità dei donatori o vince il principio della riservatezza?

Ciò che sorprende in questa lettera è la semplicità delle argomentazioni. Nessuna ideologia. Solo il disorientamento di un diciottenne che non può chiudere i conti con il proprio “padre biologico”. Un ragazzo che alle medie cerca informazioni. E non troverà risposte.
La madre ricorda solo che il seme era di uno studente, figlio di un’italiana e un irlandese.

Restano le parole di Colton nel giorno della festa dei papà (quelli noti): <<Non ce l’ho con mia madre. Ma a volte mi sento pietrificato da un vuoto di frasi e di emozioni, riesco solo a sentirmi tramortito dal fatto che lui potrebbe essere chiunque>>.

giovedì 2 ottobre 2014

La Fiducia E La Società Complessa

Fra tutte le riflessioni che sto leggendo in questi giorni, un commento apparso oggi sul Sole24Ore mi è parso particolarmente interessante. Alberto Orioli coglie bene la contraddizione che rischia di minare alla base tutta la logica dell'azione governativa, forse ben più che le proposte poco meditate, o l'allarme sulla nostra situazione economica - espresso in vari modi - di Europa, BCE, Fondo Monetario. 

Il vero nodo è che la retorica di Renzi - pur molto funzionale a raccogliere un consenso - si basa su una visione sbagliata della società italiana: la società "fluida" - come si è soliti chiamarla - non è affatto più semplice, e non è governabile con tweet o "disintermediando" tutta la comunicazione, attraverso video su youtube.

Snobbare i corpi intermedi è tentazione financo comprensibile, ma sempre pericolosa.
Alla fine si snobba comunque il paese e si nega la realtà complessa dei sistemi sociali, danneggiando la comunità.

Forse non si crea un modello politico autoritario, come molti paventano; più banalmente si crea un modello poco intelligente, poco funzionale, alla lunga inefficace.
E questo paese non ne ha bisogno.

FMM

(...) Ma il vero rischio di un possibile flop per questa ulteriore iniezione di quasi-salario è nella confusione delle ipotesi diagnostiche: la crisi di domanda è crisi di fiducia, e non sono la stessa cosa. Per rilanciare la fiducia non servono solo più disponibilità per chi già ne abbia (l'operazione Tfr non riguarda naturalmente il grande mondo degli esclusi: disoccupati, poveri, precari) ma condizioni di sistema che modifichino la percezione della realtà e l'idea stessa del futuro. Insomma, non bisogna più avere paura del domani. Ma non bastano 80 o 100 euro a comprare buonumore. L'ottimismo non è in vendita. (...)

Il programma strategico di Renzi dell'operazione fiducia confligge e si sfarina con il programma strategico di Renzi dell'ideologia della disintermediazione. Non è vero – o non è ancora vero – che i social network possono sostituire le tante articolazioni sociali. Nè è sufficiente, per la storia del Paese, confidare solo nella composizione delle posizioni dei partiti (anche perchè, magari, si rischiano mediazioni pasticciate come sembra essere diventata quella sull'articolo 18). Certo, c'è molto da modernizzare anche nei cosiddetti corpi intermedi ed è tempo di ridurne il tasso di corporativismo in nome di un superiore interesse generale. Nè servono liturgie stantie o bizantinismi solo formali se non ci sono contenuti e significati veri. La società italiana è piena di incrostazioni, ma serve un lavoro di fino e paziente per pulire la chiglia, non la scorciatoia di gettare via tutta la barca. I contenuti esistono e rimangono: la mediazione sociale dà trama e ordito forte alla democrazia partecipativa. (...)

E così, anche oggi, si rischia di confondere lo strumento con lo scopo. Saranno le rappresentanze, certo riformate, snellite, modernizzate, a usare i social network e le comunità digitali per gestire le loro posizioni di interesse. Alla politica governante spetta la composizione di quegli interessi, la mediazione di alto profilo organizzata sulla rotta del bisogno generale. Che non sempre è quello di un uomo solo al comando che tweetta a 60 milioni di follower. Soprattutto in un Paese che rischia di avere 60 milioni di interessi singoli, tutti diversi e tutti confliggenti. Anche perchè, se così fosse, basterebbe un flash mob innescato con uno dei tanti tweet da Palazzo Chigi: il giorno x spendiamo 50-60-100 euro tutti insieme, la domanda avrà un sussulto, il Pil pure. Può valere, forse, per il Paese virtuale, quello reale ha bisogno di altri stimoli a cominciare da una vera, radicale riforma fiscale.

di Alberto Orioli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/z3ozTR

domenica 7 settembre 2014

L'Invincibile Debolezza Della Politica

Non so a chi fossero esattamente rivolte le parole del Presidente del Consiglio contro i "tecnici" che sarebbero cresciuti all'ombra della prima Repubblica.​ Ma è il caso di annotarle, insieme alle parole contro le élites che si riuniscono a Cernobbio, e quelle contro i professoroni e le parti sociali.

Forse sono parole di successo; successo facile; ma questo non toglie che possano assumere un significato inquietante, e che denotino più frustrazione che non vera capacità di leadership.

Frustazione che è la frustrazione della politica, italiana e non solo, angosciata - comprensibilmente - dalle difficoltà che incontra nel tentativo di riacquistare un'"autonomia" che non può più avere; questo non perché vi siano Tecnocrati Cattivi che complottano insieme ai Grandi Magnati della Finanza sulle rive di un lago, ma perché il mondo dopo il Muro si è svelato nella sua complessità, e si è reso (più) evidente che non puoi guidare la macchina-Stato senza relazionarti con le altre realtà. E se sbandi, puoi anche avere il 90% dei voti, ma prima o poi le altre vetture ti chiedono di accostare e di far guidare chi è più "competente". 

In quanto al desiderio di "saltare" le mediazioni sociali, c'è chi può giudicarla come la rivendicazione democratica dell'eguaglianza del voto dei cittadini. 
Legittimo pensarlo così, ma  - temo - falso.

La rete delle regole democratiche non vive d'aria, ma si "incarna" in una data società, in un dato tempo, in una data condizione di rapporti sociali, che non vengono "annullati" dal voto; certo, il voto eguale è un elemento essenziale della nostra comunità politica, per fortuna. Ma il giorno dopo il plebiscito, le rappresentanze sociali riprendono il loro "autonomo" (per quel che possibile) significato, e pretendono - inevitabilmente - di essere ascoltate dalla politica.

Dire che si possono "saltare" i corpi sociali, può significare quindi solo immaginare una società politica semplificata, ma falsa. E le rappresentanze sociali sarebbero comunque presenti, magari sotto aspetti peggiori (questo il rischio, per esempio, nella continua denigrazione dei sindacati confederali, certo bisognosi di profonda riforma: che - sconfitti loro - possano apparire al loro posto sindacalismi non regolati e poco inclini alla mediazione; altro che scomparsa del conflitto...).

Conviene accogliere con sano scetticismo, quindi, le "prove di forza verbali" della politica. 

Sarà lungo - e non semplice - il cammino che può portare una politica europea a rifarsi forte e autorevole; e non passerà per i bei discorsi, ma per arricchimento di "competenze" e capacità di costruire relazioni complesse, senza desiderio di abbattere avversari fantasiosi e troppo comodi.

Francesco Maria Mariotti

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domenica 31 agosto 2014

Bisogna prepararsi a una guerra in Europa? (ilPost)

(...) È possibile che queste siano tutte paranoie? Può darsi. E forse Putin è troppo debole per fare ciascuna di queste cose, e magari sta bluffando e gli oligarchi del suo paese lo fermeranno. Ma anche il “Mein Kampf” sembrò paranoico al pubblico tedesco e occidentale del 1933. Anche l’ordine di Stalin di «liquidare» tutte le classi e i gruppi sociali nell’Unione Sovietica ci sarebbe sembrato ugualmente folle al tempo, se solo avessimo potuto ascoltarlo.
Ma Stalin tenne fede alla sua parola e realizzò davvero quelle minacce: non perché fosse pazzo, ma perché seguì pedissequamente i suoi schemi mentali sino alla loro conclusione più logica – e anche perché non ci fu nessuno che lo fermò. Al momento, nessuno è ugualmente in grado di fermare Putin. È così paranoico, quindi, prepararsi ad una guerra devastante? O, viceversa, sarebbe da ingenui non farlo?

Il "miracolo" polacco

«Coniugare disciplina di bilancio e crescita è una sfida possibile, in Polonia lo abbiamo fatto, non c'è contraddizione, e cercheremo di raggiungere questo obiettivo anche in Europa. Avrò un atteggiamento audace e responsabile».
(Donald Tusk)


***

(30 novembre 2013) 

In un paese dove non c’è niente è difficile costruire cose inutili, quindi ogni soldo speso dal governo per costruire strade, ponti o aeroporti finiva per essere utile e ben speso. E di soldi in Polonia ne arrivarono molti, soprattutto da quando, nel 2004, entrò a far parte dell’Unione Europea. Nel 2007-2013 la Polonia è stata il più grande beneficiario di fondi europei e ha ricevuto circa 100 miliardi di euro.

Nel 2012 ha ospitato, insieme all’Ucraina, i campionati europei di calcio, ricevendo un’altra iniezione di denaro. In questi anni, scrive Bloomberg Businessweek, tutto è stato ricostruito e migliorato: strade, porti, aeroporti, ferrovie e stazioni. Il contrasto con l’epoca del comunismo è molto forte: «È difficile ricordare come andavano le cose una volta se guardiamo a come vanno oggi», ha detto un gestore di fondi di investimento polacco intervistato dal settimanale.
La legislazione che tutela il lavoro è estremamente flessibile, tanto che da quando è entrata in Europa la Polonia è stata più volte minacciata di sanzioni per non rispettare la normativa europea sulla tutela dei precari. In ogni caso, il tasso di occupazione – cioè la percentuale della popolazione in età lavorativa che ha un lavoro – è continuato ad aumentare negli ultimi 10 anni: dal 51 per cento del 2003 all’attuale 60 per cento (cinque punti percentuali in più di quello italiano). Il tasso di disoccupazione, dal record del 2003 quando raggiunse il 20 per cento, è sceso fino al 7 per cento del 2008. L’anno successivo cominciò la crisi finanziaria che, nonostante tutto, si è sentita anche in Polonia.
(21/01/2014)
Nel 1988 è stata emanata la prima legge sulla libertà economica, l’anno successivo si sono tenute le prime libere elezioni dopo la seconda guerra mondiale e nel 1990 ha preso avvio un processo di riforme radicali che avrebbe portato alla formazione di moderne strutture di economia di mercato. Grazie a queste trasformazioni l’economia polacca ha iniziato a recuperare terreno rispetto ai paesi occidentali, almeno per quanto riguarda il reddito pro capite. E lo ha fatto a un ritmo mai visto prima nella storia. Alcuni economisti ritengono, con pessimismo, che questa fase di successo economico stia pian piano volgendo al termine poiché il fervore riformista è scemato, gli stimoli connessi all’entrata della Polonia nell’Ue si stanno indebolendo e lo sviluppo economico registrato sinora si fondava in larga misura sul ricorso al debito estero. Il noto editorialista Krzysztof Rybiński, ex vicepresidente della Banca nazionale polacca, dichiara che la Polonia sta andando incontro a un «decennio sprecato». Queste opinioni, però, sono in netta minoranza. Sicuramente la Polonia affronterà degli anni difficili perché dal punto di vista finanziario e commerciale è strettamente legata all’Eurozona, la quale si trova nel bel mezzo di complesse trasformazioni strutturali che incidono sulla sua crescita economica.

Ma i successi degli ultimi vent’anni non sembrano sul punto di svanire: la Polonia dovrebbe infatti continuare a recuperare terreno rispetto all’Occidente (...)

martedì 26 agosto 2014

Il problema del lavoro (Gianni Cuperlo)

La riflessione di Gianni Cuperlo - che trovate integrale su Facebook -  è interessante; anche se il problema dell'Italia è che il mix di interventi di cui ha bisogno è complesso; e quindi . diciamo così - i due diversi "approcci" alla crisi di cui parla Cuperlo vanno forse calibrati, e non si escludono reciprocamente. 


FMM 


"(...) Ci sono due modi per aggredire la creazione di lavoro. Uno è insistere sul fatto che le economie uscite meglio dalla crisi in termini di occupazione sono state quelle con più flessibilità (come quella tedesca, si dice sempre). L'altro mette in risalto un aspetto diverso. E cioè che non è bastata l'azione sulla flessibilità del mercato del lavoro a rendere più competitive alcune economie. La verità è che sono serviti investimenti pubblici e privati senza i quali non sarebbe aumentata la produttività, e dunque la crescita sarebbe stata semplicemente impossibile.
Sono proprio due modi di approcciare la crisi.
Il primo ha tra i suoi seguaci una lunga schiera di analisti ed esponenti della politica (da Ichino, Alesina, Giavazzi alla destra di Forza Italia e Ncd). Il secondo comincia a farsi largo anche sul piano teorico come dimostrano i saggi (spesso citati qui sopra) di Mariana Mazzucato o Thomas Piketty (a proposito, ma Bompiani si spiccia a mandare in libreria la traduzione?).
Ora, per la verità anche l'uso disinvolto del modello tedesco merita qualche osservazione. È vero che in questi anni i salari in Germania sono stati tenuti a freno (e la cosa non è stata priva di conseguenze sul versante della domanda interna) ma quella è stata la conseguenza di un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l'unificazione del paese nei primi anni ’90.
Quell'accordo peraltro prevedeva di mantenere i livelli occupazionali, ma insieme a una riduzione dell'orario di lavoro (35 ore) e a investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione. Sono questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri paesi sul versante della produttività. Il vero disastro con il quale misurarsi non è, dunque, il costo del lavoro, ma la produttività.(...)"


lunedì 25 agosto 2014

Mario Draghi e l'Europa irriformabile (da Linkiesta.it)

(...) Nessuno dei quattro grandi paesi che adottano l’euro è davvero a posto, nessuno può alzare il ditino o indossare l’aureola del santo. Ma chi è in grado di convincerli a seguire la retta via? È questo il dilemma che Draghi ha posto indirettamente, ma con chiarezza. E si è scontrato contro un muro, perché nessuno oggi ha il potere di farlo, certo non la Ue che è ridotta sempre più a un club di nazioni chiassose e litigiose, ma nemmeno la Bce che pure è l’unica istituzione federale dotata di veri strumenti d’intervento. I cambiamenti principali finora sono stati compiuti sotto la pressione degli eventi, davanti a rischi drammatici come la crisi bancaria del 2008, il crack della Grecia nel 2010 o il collasso dell’euro nel 2012. E sono comunque rimasti cambiamenti a metà, accettati di mal grado dalla Germania che pure vanta il proprio europeismo federalista.

Draghi ha chiesto un’ulteriore cessione di sovranità e vuole un patto per le riforme da accompagnare al patto fiscale. Se si vuole dare all’euro una intelaiatura più solida è un passaggio inevitabile. Ma oggi non c’è consenso né tra i paesi del sud né in quelli del nord Europa. Dunque, la politica economica europea è in un cul de sac. La Bce alla fine sarà costretta a fare come la Fed se arriverà davvero una nuova tempesta finanziaria. Ma senza dietro un paracadute politico, nessuno può garantire che sia davvero efficace. Draghi lo sa e lo ha detto. Anche la sua diventerà una predica inutile?

Il rischio è ancor più forte se si passa alla riforma delle riforme, quella del sistema finanziario dove è cominciato il grande crack. Qui i passi sono stati ben più timidi di quelli compiuti dalle politiche fiscali dei governi. I grandi protagonisti, le megabanche, i supermarket della moneta, i fondi di investimento, hanno continuato ad assumere rischi come se nulla fosse e poco è cambiato del loro comportamento. Sono migliorati gli strumenti di controllo, anche se non a sufficienza, ma sono sempre interventi ex post, nulla che possa in alcun modo prevenire lo scoppio a catena di nuove bolle e una crisi sistemica. (...)

FRANCESCO, CACCIARI E LA GUERRA GIUSTA (da Treccani.it)

(...) Al contrario, secondo Galli della Loggia, le guerre sono tutte inutili stragi, ma hanno quasi sempre «il notevole effetto di cambiare il mondo». Saremmo dunque non solo di fronte a un grave errore di prospettiva storica, ma anche a una criminalizzazione della guerra in quanto tale. Nel nome di un’ideologia oggi dominante «intrisa di individualismo e di umanitarismo, molto cosmopolita e razionalista, molto politicamente corretta».
L’intero ragionamento appare in verità improntato alla contrapposizione, un po’ consunta, tra la visione irenica della realtà e quella del primato della realpolitik sempre e comunque. Galli della Loggia ha ragione quando critica la de-storicizzazione della Prima Guerra Mondiale, ma è evidente che il discorso andrebbe esteso alla più generale perdita di interesse nella nostra società per lo studio scientifico del passato (e per la storiografia nel senso alto del termine), nel nome di una memoria individuale o comunitaria depurata di ogni capacità critica, volta a sostenere rivendicazioni identitarie e/o politicamente corrette. In questo modo il passato, sia esso l’Impero romano o l’indipendenza dell’India, diviene unicamente una cava di materiali inerti cui attingere per giustificare qualunque cosa, persino le peggiori fandonie. Contro le quali non vi sono più anticorpi culturali e civili che possono venire solo da una formazione scolastica degna di questo nome. Complice anche il fatto che gli studiosi accademici faticano a trovare la via per una divulgazione del sapere storico che non si limiti a scimmiottare le mode giornalistiche. Se sottraiamo la guerra da una seria discussione e analisi scientifica, in primo luogo storica, in grado di decostruirla facendo piazza pulita di incrostazioni retoriche e propagandistiche (di cui anche la storiografia porta molte responsabilità), essa finisce per restare prigioniera di due interpretazioni ugualmente manichee: la guerra come male assoluto o come male necessario (talora auspicabile). Si tratta tuttavia di un binario morto, poiché l’opzione morale soccombe storicamente di fronte a quella politica.     È evidente che siamo di fronte a un tema, il rapporto fra gli esseri umani e la guerra, fra i più complessi della storia della nostra specie. È soprattutto con l’avvento del Cristianesimo che il problema ha assunto la dimensione etica e religiosa che ancor oggi viviamo: (...)

La Libia chiede un intervento internazionale per ristabilire la sicurezza (da ilfoglio.it)

In occasione del vertice in corso al Cairo tra i paesi del Nord Africa sulla crisi libica, l'ambasciatore di Tripoli ha richiesto l'intervento internazionale per proteggere i pozzi petroliferi e gli aeroporti del paese. La richiesta è seguita all'attacco lanciato con missili Grad all'aeroporto di Labraq, nell'est del paese e uno dei pochi ancora funzionanti dopo la conquista da parte degli islamisti di quello di Tripoli, avvenuta tre giorni fa. L'ambasciatore Mohammed Jibril ha detto, a margine della conferenza, che "esistono diverse forme di intervento che la comunità internazionale potrebbe adottare" in Libia. La Conferenza ha finito per appoggiare la posizione (più cauta) dell'Egitto e che prevede il disarmo delle milizie, il sostegno al Parlamento eletto all'inizio dell'estate e la ricostruzione delle istituzioni pubbliche.

Fra gli organizzatori dell'incontro in corso al Cairo, l'Egitto e l'Algeria erano quelli maggiormente coinvolti dalla grave crisi in cui versa la Libia dal giorno della deposizione di Muhammar Gheddafi. Gli algerini, in particolare, sono i maggiori indiziati riguaardo ai misteriosi raid aerei che in questi giorni sono stati condotti contro gli islamisti del clan di Misurata. (...)

lunedì 18 agosto 2014

Per Uscire Dalla Crisi

Tracce di un percorso di uscita dalla crisi.

1.creazione di un ministero economia federale europeo

2. Emissione eurobond subordinati a un programma di riforme comuni agli stati nazionali

3.mix di investimenti pubblici e privati su programmi definiti a livello comunitario

4.temporaneo Qe da parte Bce al fine di dare tempo agli stati di fare riforme

5.creazione area libero scambio con Stati Uniti

6.accordi multilaterali su argomenti definiti fra Usa, Europa e Cina, comprensivi di una comune politica monetaria

venerdì 1 agosto 2014

La Resa Dei Conti

L'illusione di non dover fare i conti con i limiti finanziari del Paese, e con le evidenti difficoltà economiche del momento, è - finalmente - finita.

Il Presidente del Consiglio aveva detto che gli 80 euro erano "più che coperti"; aveva suonato la tromba della battaglia con l'Europa per avere più "flessibilità"; ha continuato a negare la necessità di una manovra in autunno.

Forse la manovra si potrà evitare, ma le tensioni di oggi intorno alla spending review e alle possibili dimissioni di Cottarelli indicano che questo Governo sembra non rendersi conto degli sforzi che siamo chiamati a fare, Europa o non Europa, per rimanere in equilibrio dal punto di vista finanziario.

Basta con continui annunci, basta con riforme istituzionali di dubbia rilevanza. Ora è necessario difendere i risparmi degli italiani e i conti pubblici del Paese. Se questo Governo non è in grado di farlo, è necessario cambiare, e in fretta.

FMM

(...) Se la campagna del Senato va a buon fine, il governo la utilizzerà per dire: abbiamo cominciato a cambiare l’Italia, adesso non rompeteci troppo l’anima sui conti. Se si dovesse impantanare in guerra di trincea, la utilizzerà per dire: c’impediscono di cambiare l’Italia, meglio tornare alle urne. Nel primo caso ci sarà il tempo per cambiare la legge elettorale, magari usando anche il dialogo con i pentastellati. Nel secondo si accetterà di votare (sempre che il Colle copra l’operazione con lo stesso partecipe trasposto con cui copre i ludi senatoriali) con un sistema meno certo nel risultato, puntando a gruppi parlamentari più direttamente e personalmente controllabili. In ambedue i casi l’obiettivo è quello di non far precedere il voto da un assestamento dei conti, che non gioverebbe alla credibilità e popolarità di Renzi. Questo il panorama tattico. Ma poi c’è la sostanza, coriacea assai.
Intanto perché il cambiamento del Senato non si tradurrà in una più veloce a corriva attività legislativa, se non passando prima per le urne. Ciò per l’inaggirabile motivo che anche in caso di cambiamento costituzionale non è che il Senato sparisca all’istante, ma occorre che sia sciolto quello presente. Poi perché ignorare l’aggiustamento dei conti ci porterà ad avere un debito ancora più alto, quindi a veder crescere la massa tumorale che ci soffoca. La tanto reclamata e declamata elasticità non giova minimamente né all’economia reale né al tenore di vita dei cittadini, aiuta i governi a non prendere atto dei propri insuccessi. Vale per tutti, non solo per l’Italia. Noi, però, siamo i più esposti, proprio perché intestatari del debito più potenzialmente esplosivo.(...)


E’ dalla trincea delle banche che s’ode, finalmente, qualche colpo sensato contro la piega negativa presa dall’Europa economica. Nulla a che vedere con la geremiade sui parametri o con la biascicata litania sulla flessibilità, che sono cose per politici orecchianti. Anzi, all’opposto, Mario Draghi ribadisce quel che è oramai assodato: i trattati si rispettano tutti e senza deroga alcuna, i conti devono tornare, il rigore nel redigerli non ha alternative. Punto. Non è quello il fronte su cui combattere, se non per perdere. E mentre il conformismo editoriale si agita e concentra su quel che non è né utile né possibile, è significativo registrare la convergenza fra il presidente della Banca centrale europea e il presidente dell’Associazione bancaria italiana su un punto che è determinante. Se la cosa non fosse divenuta quasi un insulto (il che, a sua volta, è vilipendio della ragione), verrebbe da dire: finalmente due voci politiche, senza piagnistei contabili.
Draghi non ha chiesto maggiori poteri per la Bce, ma maggiori poteri per i governi. Fate attenzione, è decisivo: non si esce dalla crisi solo usando la cassetta degli attrezzi finanziari, si devono coordinare le politiche relative alle riforme del mercato interno europeo, denominate “strutturali”. Detto in modo diverso: non serve cedere altra sovranità monetaria, perché quella è oramai andata tutta, serve cedere sovranità politica, a favore di qualche cosa che somigli a un governo europeo. Ed è la cosa più insidiosa fin qui sostenuta, per la centralità imperiale germanica. Non si devono invitare i tedeschi a curarsi di più gli affari loro, come erroneamente è stato recentemente fatto da Matteo Renzi, ma a mettere maggiormente in comune gli affari di tutti. Il che, naturalmente, esclude che qualcuno pensi di fare il furbo (che poi è uno stupido) sui propri conti nazionali.(...)


(...) Quindi: se la richiesta di tagliare 17+10 miliardi, entro la fine dell’anno, è da considerarsi totalmente alternativa all’imporre nuove tasse e imposte, che la si saluti con soddisfazione; se è un modo per coprire altra spesa corrente, in un gioco dilapidante delle tre carte, che la si avversi con determinazione, perché porta dritto a più alta pressione fiscale. Posto che, come mettevamo in evidenza giusto ieri, dall’interno del governo si manifestano linee diverse e incompatibili fra loro, forse varrebbe la pena di farne oggetto di un dibattito parlamentare. Perché si può anche conservare l’immunità dalle inchieste giudiziarie (e si dovrebbe farlo senza ipocrisie), ma nessuno sarà immune dall’avere taciuto il rischio che corrono i conti di un Paese in cui la spesa è variabile indipendente dalla (de)crescita.


Come che sia, attendiamo fiduciosi. Sapendo che le “clausole di salvaguardia” esistono e lottano assieme a noi, o più propriamente contro di noi. Ulteriore nota a margine: Padoan, con grande onestà intellettuale, informa che al momento gli 80 euro sono disponibili solo per il 2014 ma che impegno solenne, suo e del governo, è quello di rendere permanente tale aumento. Lungi da noi l’idea di dubitare della parola di Padoan (di quella di Renzi si, ma è altro discorso), ma Padoan non controlla tutte le leve, e di conseguenza non ha potere sugli esiti.


Niente di nuovo sotto il sole. O forse sì: cresce il rischio che, per manifesta disperazione, qualcuno decida di attaccare frontalmente il risparmio degli italiani, non pago di quanto fatto finora con patrimoniali immobiliari e mobiliari, e con l’inasprimento della tassazione sui redditi di capitale diversi da quelli provenienti da debito pubblico

giovedì 31 luglio 2014

Qualche Precisazione Su Israele e Palestina

Il mio "appello" è stato condiviso - con maggiore o minore adesione - da diversi amici su Facebook; in una delle discussioni da esso scaturite, ho provato a precisare ulteriormente il mio pensiero, tentando di spiegare meglio il senso del mio discorso; approfitto quindi per condividere anche questa parte di ragionamento:

1) Israele ha già fatto diverse guerre contro Hamas, più o meno con le stesse dinamiche di quella attuale. E ora siamo di nuovo allo stesso punto. Israele - per dirla in breve - sembra vincere la guerra militare, ma il problema  poi sembra rimanere tale e quale;

2) la tattica militare di Israele - assolutamente comprensibile da alcuni punti di vista, si badi - sta di fatto portando Israele su un metaforico (ma neanche tanto) "banco degli imputati" di fatto nascondendo le giuste ragioni che hanno portato all'intervento. Per dirla come ho scritto in un altro commento in questo blog, puoi avere ottime ragioni per entrare in guerra ma se colpisci scuole e ospedali, è inevitabile che il sangue che non sei riuscito ad evitare (anche se magari la maggiore responsabilità è di Hamas che usa "scudi umani") occulti le tue pur ottime ragioni;

3) in breve, come altre volte e in altre zone, la guerra fatta senza politica crea danni eccessivi e alla fine porta chi la fa a una sconfitta politica;

4) la mia proposta è che Israele freni l'attività militare che ora di fatto appare senza visione, e ponga il mondo di fronte alle sue responsabilità, dicendo:"Io mi fermo, ma ora insieme poniamo e risolviamo il problema dei terroristi di Gaza; ora gestiamo la transizione a una Palestina democratica che accetti Israele". Per far questo - per far vedere che Gerusalemme non cerca la guerra per la guerra - è necessario che la tregua sia effettiva per qualche giorno. Solo così secondo me Israele può "sganciarsi" dalla trappola in cui si sta infilando.

Preciso ulteriormente che non ho dubbi sulle ottime ragioni di Israele contro Hamas. Ma è un fatto che ora Israele sta mettendo in imbarazzo anche i suoi migliori amici (vd. la rabbia di Obama e Kerry); magari ottiene di fatto un periodo di tranquillità, ma rischia di compromettere le possibilità di costruire un percorso più profondo, che è ormai ineludibile.

Questo percorso pù profondo probabilmente -purtroppo, dico io, ma la politica estera è dura da digerire - passa anche per una qualche trattativa con l'odioso Hamas. O comunque con chi sia in grado di mantenere la parola su un qualche "accordo". 

Ulteriore precisazione, che mi pare inutile, ma in queste discussioni bisogna dire tutto: non mi fido per niente di Hamas, ma i nemici - e quindi gli interlocutori a una trattativa - non si scelgono. 

E la trattativa probabilmente potrebbe essere fallimentare; ma per guadagnare la legittimazione a un eventuale nuova guerra Israele deve prima mostrare tutta la "apertura" possibile anche verso il terribile nemico. Perché non si possa dire che non si è fatto tutto il possibile (e purtroppo con questo governo, temo che di Israele si possa dire che "non ha fatto tutto il possibile")

Il mio ragionamento quindi non era un voler dire "Israele ha torto marcio", o - forse peggio - "Hamas non ha responsabilità". Il mio ragionamento era un allarme per la mancanza di orizzonte che sembra contrassegnare la guerra di Israele, e che condanna Gerusalemme all'isolamento.

Piaccia o no, stante anche il sistema di comunicazione di massa che segue questa guerra e che inevitabilmente sovraespone qualsiasi azione di guerra, stante l'attuale "sbilanciamento di percezione" che sembra non vedere le gravi responsabilità di Hamas nel lancio di missili; stante tutto questo: Israele deve fare una mossa diversa, inaspettata, capace di parlare a tutto il mondo, una mossa - mi vien da dire - di "non-violenza", di tregua unilaterale, che dica "noi non cerchiamo la guerra per la guerra". 

Oggi purtroppo il mondo vede un'Israele "incastrata" nell'ansia di fare una cosa teoricamente giusta, drammaticamente sbagliata nella pratica. Israele deve "sbloccarsi". 

Sorprenda il mondo, coltivi la forza della politica. Allora sì, l'eventuale uso dei bombaradamenti avrà - forse - un senso. Ma soprattutto, Israele avrà un futuro.

mercoledì 30 luglio 2014

Israele Ha Molte Ragioni, Ma Ora si Fermi

Anche solo per pochi giorni. Anche solo per "tattica".
Anche solo per "interesse" a non finire nell' abisso della condanna internazionale.

Anche solo per non alimentare la rabbia dei nemici e la stanchezza degli amici che potrebbero arrendersi prima o poi, e rassegnarsi al fatto che i governi di Israele si suicidano mostrandosi stupidi nella prosecuzione di scelte teoricamente giuste ma scellerate dal punto di vista operativo.

Israele si fermi. Permetta qualche giorno di respiro.
Se Hamas continuerà il lancio dei razzi, il mondo capirà l'eventuale ripresa dell'operazione dell'esercito.

Israele ha moltissime ragioni. Moltissime, avendo di fronte il terrorismo fondamentalista di Hamas e i suoi continui attacchi, con missili o con attentati eseguiti attraverso i tunnel che ora giustamente si tenta di distruggere.

Quindi Israele ha moltissime ragioni. Ma ora Israele si fermi.

Perché la sensazione che sta dando anche chi lo ama, non è né di sicurezza né di coraggio. Ma è quello di una scelta senza futuro. Senza futuro.

Israele si fermi!

Francesco Maria Mariotti

venerdì 11 luglio 2014

Ancora Guerra In Medio Oriente

Difficile ragionare freddamente su quanto succede in Medio Oriente; prevale la stanchezza, e forse lo scetticismo, verso quella che sembra essere una sorta di "guerra eterna" con qualche momento di pausa. 

Ma forse in questo frangente così drammatico possiamo provare a vedere alcuni segni di speranza realistica.

L'atteggiamento dei genitori dei tre ragazzi israeliani uccisi, che hanno solidarizzato con la famiglia del ragazzo palestinese, per esempio; la netta e dura reazione del Governo israeliano contro l'orribile omicidio del ragazzo palestinese, e il coraggio di incriminare i suoi assassini come "terroristi"; le manifestazioni che si sono svolte contro le degenerazioni della violenza.

Tutto questo può voler dire per Israele iniziare un cammino, una riflessione profonda - e dura - sulla necessità di fermare a tutti i costi l'estremismo interno e sui rischi connessi al perdurare di una situazione di stallo nei rapporti con il "mai nato" stato palestinese.

E proprio questo sembra essere il punto dolente, la questione che rimane irresolubile "unilateralmente": con chi discutere? Lo stato palestinese non nascerà fino a quando le forze che vogliono governarlo (che si chiamino Hamas o Fatah, o altro nome) non saranno in grado di stabilire un'unica legge, e un monopolio della forza.

Le diverse reazioni nella galassia palestinese rispetto all'orrore del rapimento e uccisione dei tre giovani israeliani è stato il segno più grave di questa non-unità, e della incapacità (prima ancora della non-volontà) di voler contrastare nettamente qualsiasi violenza.

La possibilità di essere Stato è una condizione politica che i palestinesi devono giocarsi in un conflitto interno, per decidere chi governerà i territori, attuali e futuri. Non c'è pace senza una linea di comando certa; non c'è tregua che tenga, non c'è speranza.

Questa guerra possa essere un inizio, e non solo l'ennesima tragedia.

Francesco Maria

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(...) Diversi sono gli equilibri geopolitici, nuove sono le minacce, e non esistono più mediatori credibili. Per questo, se la guerra terrestre alla fine ci sarà, avrà tutto l’impeto di una guerra «nuova», non di una semplice ripetizione del dramma. E fermarla sarà molto più difficile (...)​
Ai capi di Hamas, che è sempre stata un ombrello di diverse organizzazioni estremiste, restano soltanto gli aiuti finanziari dal Qatar. Si vede in queste ore che malgrado il suo isolamento ha ricevuto missili più moderni e a più lunga gittata, provenienti forse dall’Iran, ma di sicuro non attraverso la vecchia rotta siriana in fiamme da tre anni. L’Egitto è diventato nemico, Damasco lotta per sopravvivere, Hezbollah è impegnato a sostenere Assad, con i tagliagole dell’Isis si potrebbe parlare ma il loro Califfato non è ancora maturo. Davvero stupisce che Hamas abbia tentato un governo di unione con il frustrato Mahmoud Abbas e la Cisgiordania, che le divisioni interne si siano moltiplicate e che la violenza sia riesplosa, prima con il sequestro e l’uccisione dei tre studenti israeliani cui ha fatto da contraltare l’orrendo assassinio di un adolescente palestinese, poi con la ripresa dei lanci di razzi e missili contro Israele?

E poi c’è Israele, appunto. Irritato per l’atteggiamento occidentale verso l’Iran. Disorientato e anche impaurito dagli sconvolgimenti che rischiano di creare roccaforti jihadiste in Siria e in Iraq mentre anche la Giordania è vicina all’esplosione. Deciso ad escludere ogni dialogo con un governo palestinese che comprendesse Hamas (la cui leadership, è giusto ricordarlo, continua a rifiutare ogni riconoscimento dello Stato ebraico). Tentato in definitiva di dare il colpo di grazia al nemico in difficoltà, ma più insicuro di altre volte in un contesto regionale che non lo favorisce. 

Troppe debolezze perché non ci sia una guerra.



​Ma la preoccupazione del governo israeliano, secondo alcuni esperti, è quella del vuoto. Il vuoto creato in questi anni dall’instabilità nata nella regione dal disfarsi delle rivolte arabe – nel Sinai egiziano, nella Siria della guerra civile – è stato riempito e sfruttato da movimenti estremisti islamici. La Striscia di Gaza è dal 2007 controllata da Hamas e da gruppi palestinesi che hanno costruito un arsenale. “Se Israele colpisce mortalmente Hamas, chi riempirà il vuoto governativo? – ha scritto Nahum Barnea sul quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth – Gaza rischia di trasformarsi in anarchia come la Somalia o rifugio per organizzazioni terroristiche affiliate ad al Qaida. In altre parole, Hamas è male, ma non il male peggiore”. L’editorialista israeliano non è il solo a chiedersi se Netanyahu sia di fronte a un “dilemma”, come scrive il Daily Telegraph: indebolire il gruppo di Gaza perché spara razzi sulle città israeliane o evitare il vuoto di potere? C’è Abu Mazen, certo, ma non ha un potere politico abbastanza solido da riempire una pericolosa assenza di governo​
Siamo alla terza operazione, quella iniziata lunedì. Israele è determinata. Vuole infliggere un durissimo colpo al movimento islamico. Questa volta, però, Hamas, è più isolata. Il Governo di unità formato in giugno con l'Anp dopo otto anni di crisi, è finora un'entità solo sulla carta. Hamas, peraltro, non può più contare sui Fratelli musulmani, sunniti anche loro ma dichiarati fuori legge in Egitto. Da quando si è schierata con i ribelli siriani, i suoi solidi rapporti con alleati strategici come l'Iran, la Siria di Bashar al Assad e gli Hezbollah libanesi (tutte forze sciite) si sono raffreddati. Hamas ha compreso che i raid israeliani, e le inevitabili vittime civili palestinesi, serviranno a ricompattare la popolazione
di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/uTcNA1
La crisi scoppiata tra Israele e Hamas in seguito al ritrovamento dei corpi di tre giovani coloni e all’uccisione di un giovane palestinese non accenna a placarsi. La spirale di violenze si è rapidamente estesa dalla Cisgiordania a Gaza, dove le forze di sicurezza israeliane hanno risposto duramente al lancio di oltre 200 razzi delle fazioni palestinesi più estremiste con l’operazione Protective Edge, che da lunedì a oggi ha causato 53 vittime e circa 500 feriti tra gli abitanti della Striscia. In questo contesto di violenza crescente, l’eterogeneo esecutivo di Netanyahu, alla ricerca di una linea, ha minacciato un intervento di terra a Gaza, mobilitando 40 mila riservisti. L’Autorità palestinese di Abu Mazen sembra sempre più debole e marginalizzata, mentre la tensione continua a salire anche in Cisgiordania e a Gerusalemme, dove sta lentamente tornando lo spettro del terrorismo e di una nuova Intifada. Il riacuirsi della crisi israelo-palestinese ha però nuove e ancor più inquietanti incognite rispetto al passato, soprattutto perché si inserisce in un quadro regionale estremamente instabile. (...)

Nel campo palestinese, il riflesso dello tsunami regionale ha una conseguenza strategica: entrambe le sue leadership storiche sono in agonia. Per questo hanno dovuto inventare un improbabile “governo” di unità nazionale. Abu Mazen si era ridotto a fare il poliziotto per conto di Netanyahu, venendo per ciò remunerato e vezzeggiato da europei e americani. Ma la pax cisgiordana degli ultimi anni, culminata nel record del 2012 (zero morti israeliani in Giudea e Samaria), è stata minata dal recente assassinio di tre ragazzi israeliani e dalle rappresaglie che ne sono seguite.

In questa vicenda è venuta in piena luce la crisi di Hamas, che ha perso il controllo di centinaia di gruppuscoli jihadisti o financo “lupi solitari” che agiscono in proprio ma sono in grado di condizionare le agende altrui, Israele incluso. L’atroce uccisione di Eyal Yifrah, Gilad Shaar e Naftali Fraenkel è stata subito attribuita da Netanyahu a Hamas. Quanto meno, è una semplificazione.

A compiere quel crimine sono probabilmente stati alcuni killer della tribù dei Qawasameh, basata a Hebron, che si dedica da tempo a compiere attentati per screditare la leadership di Hamas ogni volta che questa cerca di costruirsi una qualche legittimità internazionale. Una scheggia, non un referente militare della peraltro divisa leadership di Gaza.

La rappresaglia contro la Striscia non potrà dunque portare a risultati duraturi, perché i mille clan jihadisti non sono bersaglio da missile. Favorirà, al contrario, la radicalizzazione di altri giovani palestinesi. Spirale infinita, ma non uguale a se stessa. A ogni giro di provocazione e rappresaglia, il gioco di violenze e controviolenze diventa più rischioso. La crisi potrà essere sedata, magari a lungo. Non risolta.