venerdì 22 novembre 2013

Torna Lo Stato? O E' Una Pericolosa Illusione?

Torna lo Stato come protagonista dell'economia? Come garante di quel "lungo periodo" e di quella solidità di cui si sente bisogno in uno scenario sempre più pesante di crisi, di mancanza di lavoro? Per certi aspetti questa "riscoperta" è naturale, e forse anche benvenuta, ed è figlia di questa crisi e della avversione a soluzioni che vengono etichettate come "neoliberiste" (anche se a volte si tengono sotto questo "cappello" idee molto diverse fra loro, visto che per esempio a sinistra spesso si è indicato in Mario Monti un esponente del neoliberismo, mentre è molto più vicino alle idee dell'economia sociale di mercato). 

Al tempo stesso proprio il fatto che questa ricerca di "nuove" strade sia frutto di una "reazione" deve indurci a prudenza su facili entusiasmi rispetto alle possibilità di "mosse risolutive", che siano messe in campo dallo Stato o anche dalle Banche centrali, a cui spesso viene chiesto di sostituire la politica.

Alcune considerazioni, che in parte ritrovate negli articoli che segnalo di seguito:

1. Nessuna ardita mossa monetaria - di svalutazione o di "iniezione" di liquidità o simili - potrà da sola portare a risolvere la crisi. Una mossa estrema della BCE, per esempio, potrebbe servire se - e solo se - accompagnata da un salto di qualità politico dell'Unione europea. E comunque sarebbe forse un "guadagnare tempo": importante, magari, ma non risolutivo.

2. Gli Stati non possono essere protagonisti come un tempo della politica economica, proprio perché lo scenario complessivo è cambiato, e la globalizzazione - che non è una novità, è una tendenza sempre presente nella storia economica del mondo - costringe a fare i conti con confini sempre più mobili, sempre meno definiti, sempre meno "controllabili".

3. Per questo il rischio più grande - lo segnala uno degli articoli - è che l'idea di un nuovo ruolo della mano pubblica nel gioco economico (in sé forse inevitabile) è che esso si coniughi con protezionismi e vincoli, in ultima istanza difesa (anche comprensibile) dal futuro. E dai protezionismi e vincoli di tipo economico può sorgere di peggio.

Le elezioni politiche europee potranno essere un test importante anche da questo punto di vista, se saremo capaci di interrogarci sui nuovi scenari che si aprono. 

L'importante è che non perdiamo di vista che l'unità del mondo è alla fine inevitabile sbocco di questa strana vicenda umana di cui siamo protagonisti. Rallentare nel percorso può essere forse necessario, ma sarà sempre una soluzione temporanea. 

La politica che non veda questa finalità sarà sempre a rischio di cadute, errori, e forse  di (inutili?) spargimenti di sangue.

Francesco Maria Mariotti

I banchieri centrali rivendicano di avere altre frecce nei loro archi, tra cui la fissazione di obiettivi più audaci del mero controllo dell’inflazione, l’acquisto di asset più disparati o anche l’imposizione di tassi negativi sui depositi delle banche presso gli Istituti centrali, proprio per cercare di “punire” l’eccesso di risparmio immobile e convincere così a prestare e a investire. Wolf alle Banche centrali interventiste crede eccome. Ma non basta, aggiunge. Assieme a Summers, che a dire il vero già nel 2010 sostenne con ardore un teorema simile, dice che è il momento che lo stato attivista faccia quello che l’imprenditore loffio ha paura di fare: cioè decida dove e come dirottare la massa di risparmi a disposizione. Non a caso è stato Wolf, in queste settimane, a rilanciare con una sua recensione il libro dell’economista italo-americana Mariana Mazzucato. “The Entrepreneurial State”, pubblicato originariamente nel 2011, due anni dopo ha goduto di stampa migliore: sarà il segno dei tempi, l’insoddisfazione con le politiche di austerity e con le riforme strutturali che hanno effetto solo nel medio-lungo termine, fatto sta che oggi sul Financial Times non è uno scandalo definire “brilliant” un volume che intende falsificare “il mito di un settore dinamico privato contrapposto a un settore pubblico pigro” (vedi articolo sotto di Stefano Cingolani).

Va pur detto che altri economisti, come Raghuram Rajan, pur partendo da diagnosi in qualche modo simili a quelle di Wolf, diffidano dal trasformare i banchieri centrali nei nuovi re taumaturghi. Rajan, allevato a Chicago e oggi governatore della Banca centrale indiana, ritiene pure lui che a suon di credito facile, e quindi di debito, si sia tentato negli ultimi decenni di camuffare le difficoltà del mondo sviluppato, cioè la sopraggiunta incapacità del nostro occidente di creare ricchezza ai ritmi di un tempo. Secondo lui, però, la via d’uscita dal dilemma del risparmio in eccesso non la forniscono gli investimenti pubblici: meglio la via lunga delle riforme pro competitività, della concorrenza temperata dalle pari opportunità (di partenza) per tutti.


(...) Si chiama Mariana Mazzucato, è una donna italiana cresciuta negli Stati Uniti e trapiantata a Londra, non una econo-star, ma quasi. Lilli Gruber l’ha invitata una settimana fa a “Otto e mezzo” dove ha duellato con Michele Boldrin. Sembrava una riedizione di Beauty and the Beast nel senso che Boldrin difendeva la “bestialità” del mercato e la Mazzucato l’armonia di uno stato che si fa imprenditore. Perché la ricetta, quella che ha sapore d’antico, è proprio questa.

“Le innovazioni che hanno consentito la rivoluzione dell’information technology, ma anche quelle che hanno fatto sì che Steve Jobs creasse i suoi prodotti più smart, ebbene tutte vengono da ricerche pubbliche, da programmi statali, molti di loro addirittura militari”, dice la Mazzucato. Cosa c’è di inedito? E’ ben noto che fu la rete Arpanet a tenere in grembo internet, il touch screen, il Gps, gli algoritmi di Google, l’ingegneria genetica (negli Stati Uniti si spendono 32 miliardi di dollari l’anno per l’innovazione biomedica). Ma tutto questo, secondo la professoressa dell’Università del Sussex, fa cadere totem e tabù eretti dalla (contro)rivoluzione neoliberista. Lo stato non è un retaggio del passato, innova e si rinnova; non è un freno ma al contrario è il motore di ogni salto tecnologico; non è il barelliere che raccoglie morti e feriti dalla distruzione creatrice del mercato, bensì si fa attore in prima persona. Guai a rappresentarlo con le fattezze mostruose del Leviatano, assomiglia piuttosto a uno Steve Jobs collettivo.

“The Entrepreneurial State”, il libro che ha lanciato Mariana Mazzucato, è uscito nel giugno scorso, ma è frutto di un lungo lavoro per rivalutare il ruolo dello stato nel capitalismo moderno, compiuto con il think tank Demos, a sua volta parte di un progetto della Fondazione Ford chiamato Reforming Global Finance. Insomma, siamo nel cuore del sistema, non in un pensatoio gauchiste. E la stessa Mazzucato, nonostante penda decisamente verso i laburisti, viene consultata regolarmente dai conservatori a Westminster e a Downing Street. David Cameron l’ascolta per capire come rilanciare la “Little England” (definizione dell’Economist). Se prendiamo la classifica delle multinazionali, del resto, vediamo che tra le prime spiccano i colossi di stato (cinesi, russi, brasiliani) e anche grandi banche e imprese industriali occidentali nelle quali i governi hanno un ruolo attivo.(...)

La Mazzucato esalta il ruolo pubblico nella riconversione verso “l’economia verde”. Ebbene proprio in questi mesi l’eccesso di sovvenzioni alle fonti rinnovabili ha provocato in Germania una vera crisi energetica, mettendo in ginocchio colossi elettrici come Eon. “Perché non ha elencato anche tutti gli investimenti sprecati dai governi nel tentativo di tenere in piedi progetti poco economici?”, la bacchetta l’Economist. Di quante finte Silicon Valley pagate dai contribuenti sono lastricate le pianure europee? Formata in ottime scuole e con numerose esperienze alle spalle (anche alla Bocconi), certo non le manca la conoscenza della materia. Ma il suo entusiasmo la spinge a dimenticare che dal complesso militar-industriale denunciato da Dwight Eisenhower al Nuovo stato industriale teorizzato da Kenneth Galbraith, la letteratura anglo-americana è piena di analisi e discussioni sul ruolo attivo e innovatore di una mano pubblica che crea le condizioni perché la mano invisibile del mercato sviluppi le sue energie. Una cosa, però, è dire che lo stato fornisce gli ingredienti e apparecchia la tavola, un’altra è sostenere che si possa sostituire all’imprenditore nel creare piatti appetitosi e salutari, combinando il bello e l’utile. Jobs è unico e non si replica.

Non solo. Ai tempi di Eisenhower e Galbraith, lo stato aveva una dimensione nazionale, per quanto grande. Difendeva la propria valuta, controllava il flusso di capitali indirizzandolo verso i propri interessi, proteggeva le industrie strategiche. Perché il ritorno dello stato imprenditore s’accompagna inevitabilmente a robusti limiti al libero scambio e alla globalizzazione. “La fine del laissez faire”, del resto, è uno dei testi di John M. Keynes più citati dalla Mazzucato. E’ probabile che il mondo si stia già muovendo in questa direzione: secondo l’Economist ovunque si costruiscono castelli e fortilizi. E l’ironia della storia mostra che la critica da sinistra al mercato provoca per lo più ritorni conservatori, neocorporativi, protezionistici. Tira un’aria non da Nuova frontiera anni 60, ma da primo Dopoguerra. 


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