lunedì 26 gennaio 2015

L'Europa (Forse) Sta Cambiando - Rassegna Stampa

Per carattere e per scetticismo innato nelle possibilità della politica, andrei cauto ad entusiasmarmi per la vittoria di Syriza in Grecia, e forse anche per il QE di Draghi; sicuramente sono segnali molto positivi ma tutt'altro che risolutivi. Ritorno alla politica contro la tecnocrazia? difficile crederlo possibile; il braccio della politica in Grecia si è rafforzato, ma per il momento di sole parole e consenso; la tensione con le autorità che devono sorvegliare il debito greco non si risolve né con i comizi né con i voti. E la torsione "di sinistra" di Syriza può sempre rischiare di alimentare prospettive ben più reazionarie (si veda il discreto successo di Alba dorata).

Comunque è stato importantissimo che si siano rese più "visibili" le sofferenze dei cittadini greci, e quindi la necessità urgente di riformulare il percorso di uscita dalla crisi. Se i politici - greci, ma anche nostri per quel che ci riguarda - eviteranno di farsi illusioni, si potrà fare un percorso utile e positivo per tutti. 

Le rivoluzioni annunciate sovente falliscono: meglio calibrare con attenzione obiettivi e reale potere; e forse sarebbe meglio cominciare a costruire una politica europea degna di questo nome. Di seguito alcuni articoli per approfondire la situazione in Grecia e cosa aspettarsi dalle manovre dello Zar Draghi.

Francesco Maria Mariotti

ps: prima di tutto, però, un articolo sul Presidente che verrà...
Vorremmo, poi, un Presidente che sappia servire in maniera privilegiata i più deboli: se è vero, come sostenevano don Loreno Milani e la sua Scuola di Barbiana, che “non c'è niente di più ingiusto che trattare i diseguali da eguali”, il Capo dello Stato dovrà essere attento alle disuguaglianze, vigile nel segnalarle, di stimolo nel superarle, perché cresca la distribuzione dei beni e dei servizi a vantaggio di tutti, e nessuno sia escluso dai diritti di cui da cittadino della Repubblica deve poter godere, da quello alla vita, alla casa e al lavoro, al diritto alla salute, allo studio e alla partecipazione alla vita politica e sociale del Paese.
di Bruno Forte - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/4ejE7Y

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GRECIA

Eppure, Tsipras non ha mai ricordato che senza l’Ue non sarebbe stato possibile ottenere oltre 240 miliardi di euro. Non ha mai ricordato che senza il supporto della Bce le banche elleniche sarebbero collassate sotto il peso della pressione dei mercati finanziari nella fase più severa della crisi. Ma soprattutto, non ha mai ricordati ai suoi elettori che rinegoziare i patti, o memorandum of understanding, sottoscritti con la troika significa uscire de facto dall’eurozona. Il motivo è semplice. Dato che ogni erogazione finanziaria deve essere il frutto di un patto fra il Paese e il prestatore, se essi vengono meno chi potrà mai finanziare, ai prezzi attuali, la Grecia sui mercati obbligazionari? Nessuno. Perché il concetto di premio per il rischio, quando si parla di bond governativi, è ben ricordato dagli investitori internazionali. Più un Paese è incerto, incapace di avere una prospettiva di lungo periodo e poco credibile, più dovrà pagare per collocare i propri bond. Ed è indubbio che sul mercato obbligazionario il cappello di protezione della troika ha giovato alla Grecia, dato che i rendimenti dei suoi titoli di Stato si sono ridotti in modo significativo dall’inizio della crisi a oggi. Tsipras però questo non lo rammenta di proposito. Quello che è certo è che se ne renderà conto in fretta. Più cresce l’incertezza legata al destino del Paese, più i mercati saranno sotto stress. E l’unica rete di protezione talmente forte da contrastare queste spinte è l’area euro. Ecco perché Tsipras dovrà negoziare con la troika, dopo averla attaccata a lungo. Potranno esserci delle concessioni, ma il pacchetto di misure strutturali da introdurre non muterà.

Alexis Tsipras non cambierà l’Europa. E nemmeno la Grecia. Ne sono convinti tanto i mercati finanziari quanto i policymaker europei. Nonostante gli annunci choc e gli attacchi diretti alle politiche comunitarie, Syriza non potrà far marcia indietro rispetto a quanto sottoscritto dal Paese con la troika composta da Fondo monetario internazionale (Fmi), Banca centrale europea (Bce) e Commissione Ue. Perché se così accade, Atene corre il rischio di ritornare al centro della crisi dell’eurozona. Senza le protezione europee, però.

Quei due milioni, così, non solo agitano lo spettro - a Berlino e in parte anche a Bruxelles - di un nuovo governo che getti a mare le imposizioni della troika e le politiche di austerità dettate, ma vengono già accolti dalla sinistra radicale in tutta Europa come il segno - anzi l’annuncio salvifico - di un cambiamento possibile. E del resto se un messaggio arriva dalla Grecia è quello che di troppa austerità si muore; o almeno muore politicamente chi governa, schiacciato ad esempio dal peso dei 300 mila cittadini che su una popolazione di 11 milioni di persone non possono più permettersi l’energia elettrica.
Germania in arrocco e Grecia in attacco, dunque. E il resto dell’Europa?​

È stato detto che la Grecia è troppo piccola perché la sua uscita dall’eurozona abbia effetti irreparabili sulle sorti dell’euro e dell’Unione Europea. Sarebbe forse vero se l’economia fosse soltanto cifre e la politica un teorema basato su fattori esclusivamente quantitativi. Ma la Grecia è anche altre cose che la buona politica non può ignorare. È una parte essenziale della nostra storia, della nostra cultura e di quella che, con parola abusata ma particolarmente adatta in questo caso, viene definita identità. Se l’Ue vuole essere molto più di una semplice alleanza, non è realistico pensare che i grandi Paesi, dagli Stati Uniti alla Cina, reagirebbero distrattamente all’abbandono di Atene. Penserebbero che l’Europa di Bruxelles e Strasburgo è soltanto una costruzione utilitaria e contingente, priva di qualsiasi motivazione ideale, pronta a sbarazzarsi del più vecchio dei suoi passeggeri se la barca s’imbatte in una tempesta. E da questa constatazione trarrebbero inevitabilmente conclusioni negative sull’autorità e sull’affidabilità del progetto europeo. 



Chi è Alexis Tsipras
Tsipras è nato ad Atene il 28 luglio del 1974, quattro giorni dopo la caduta della dittatura dei Colonnelli: ha una compagna, due figli, vive in periferia e si è laureato nel 2000 in ingegneria all’Università di Atene (il padre era un imprenditore edile vicino al Pasok). Tsipras ha iniziato a fare politica alla fine degli anni Ottanta con il movimento dei Giovani comunisti greci, durante l’università era diventato membro del sindacato degli studenti (riuscendo a vincere contro il governo la battaglia per il ritiro di una controversa riforma scolastica) e, dopo essersi allontanato dal partito comunista, nel 1999 era stato eletto segretario dell’area giovanile del partito della sinistra radicale, Synaspismós.


Un’ultima nota, per tornare da Atene a Roma. La vittoria di Syriza deve servire per costruire un’Europa più plurale, aperta, fondata sul lavoro che genera crescita e su una solidarietà fra popoli che fa di essi un solo popolo federato. Non può, non deve servire, a giustificare la mancanza d’impegno nel rendere sostenibile la finanza pubblica nazionale e nel mettere ordine in situazioni contabili, politiche e di distribuzione delle risorse grandemente sbilanciati e nel medio periodo non più sostenibili. Dobbiamo, insomma, negoziare con i tedeschi per un’Europa più equilibrata come se non ci fossero debolezze errori e lacune nazionali; ma al contempo dobbiamo combattere i disordini, la spesa pubblica inutile e le troppe tasse su chi lavora e produce che servono per mantenerla, le clientele e le corruzioni di casa nostra, come se non fosse l’Europa a chiedercelo, ma la premura per il nostro futuro. Che è poi la verità: ad Atene, come a Roma.

BCE 

Quello della Bce sarà un Qe differente da quelli osservati finora. Prima di tutto, come ha spiegato Goldman Sachs, per via del contesto. “Il Qe della Bce è diverso e non solo a causa della mancanza di unità dell’area euro. Tassi nominali e rendimenti a termine sono già molto più bassi rispetto agli Stati Uniti prima dei suoi programmi di Qe”, spiegano gli analisti della banca americana. Inoltre, “i tassi reali sono molto più bassi che in Giappone prima che iniziasse il passaggio al Qqe (Qualitative quantitative easing, ndr)”. Infine, continua Goldman Sachs, “la Bce si trova ad agire in un contesto con aspettative di mercato sull’inflazione decisamente diminuite in tutto il mondo e rafforzate dal calo del prezzo del petrolio”. Sotto un profilo operativo, conclude Goldman Sachs, il Qe nella versione di Draghi “può fornire un maggiore supporto se è in grado, da un lato, di restringere gli spread del credito sovrano nei Paesi periferici e, dall’altro, di convincere il mercato ad aumentare le aspettative di inflazione più a lungo termine”. Traduzione: deve convincere gli investitori sull’inversione di rotta nella zona euro e sul ripristino del corretto meccanismo di trasmissione della politica monetaria. Un compito non facile.

Sul lato imprese sarà bene ricordare che non veniamo mica da anni in cui sia scarseggiata la liquidità, nei mercati. Anzi, era ed è abbondante. Qui scarseggia il mercato interno (vedi sopra, circa i consumatori) e scarseggia il credito. L’altro programma espansionista, sempre di marca Bce, è il Tltro, finalizzato a fornire liquidi da trasferire alle imprese. Ma da noi rischiano di fermarsi in banca, per debolezza sia delle banche (dal punto di vista patrimoniale) che dei clienti (dal punto di vista dell’affidabilità). Scarseggia anche la certezza del diritto e, tanto per dirne una, dopo mesi di discussioni sulla legislazione del lavoro, ancora oggi un imprenditore non sa in quale regime fiscale e regolamentare assumere. Quindi aspetta. Abbondano, invece, la pressione fiscale e la perversione burocratica. Se non si mette mano a queste cose gli investimenti non ci saranno, o non nella quantità e diffusione tali da lasciare intendere che la ripresa è una realtà, non uno slogan.

Com'è accaduto negli altri Paesi, questa forte iniezione di liquidità indurrà le banche a rivedere la composizione del loro attivo e i capitali privati a spostarsi su investimenti più rischiosi, principalmente azioni e obbligazioni ad alto rischio. In assenza di sorprese dalla Grecia, quindi, la reazione positiva dei mercati azionari dovrebbe continuare, così come la discesa del tasso di cambio. Ciò fa parte degli effetti voluti, e del meccanismo con cui il Qe si trasmette all'economia reale.
di Guido Tabellini - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/tI7Amq

Ma c'è un contesto storico di più ampio respito. Nel lungo percorso verso l'unificazione europea, l'azione di Draghi rappresenta una svolta equiparabile a quella di Alexander Hamilton, primo segretario al Tesoro degli Stati Uniti che elaborò le fondamenta economiche del paese con la sua “triologia” scritta fra il 1790 a il 1793: a) sulla necessità di creare una Banca Centrale (che venne però oltre un secolo dopo); b) sul consolidamento del debito pubblico (dopo i forti indebitamenti per la guerra di Indipendenza dagli inglesi); e c) sulle manifatture, sull'importanza di “proteggerle per rafforzarle”. C'era anche un quarto rapporto, minore, una zecca autonoma.
di Mario Platero - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Cp8Q8R

L’acquisto da parte della Bce e delle Banche centrali nazionali di titoli di istituzioni europee (Esm ed Eib) e di titoli di stato limitatamente al 20% del totale con solidarietà nel rischio condivisa è stato visto dai più come un vulnus all’unità del Sistema europeo di Banche centrali. Potrebbe però essere letto anche come una premessa per il varo di quegli eurobond senza i quali l’Eurozona non potrà mai fare una politica fiscale, di bilancio e di investimenti (pubblici) che è essenziale per l’integrazione sia politica che dell’economia reale.
di Alberto Quadrio Curzio - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/8Sw4t3

Tutto ciò premesso, ci sono altri effetti collaterali del QE della Bce da analizzare. Il primo è quello tradizionale di operazioni di questo tipo: quando una banca centrale compra debito pubblico domestico, su di esso incassa le cedole. Che accade a queste cedole? Che vanno a contribuire all’utile della banca centrale, che viene poi girato secondo statuto al Tesoro nazionale. Il fatto che la Bce abbia precisato, giovedì pomeriggio, che le cedole non potranno essere corrisposte immediatamente al Tesoro, non cambia la sostanza delle cose. Quell’utile di Banca d’Italia finirà sotto forma di “dividendo” al Tesoro, mediato assieme alle altre determinanti dell’utile della banca centrale. Salvare la forma per offuscare la sostanza. E qui, la considerazione sorge spontanea: confidiamo che la Banca d’Italia non andrà a beneficiare con questo utile da QE anche le banche private sue azioniste: sarebbe un assoluto non senso, oltre che una presa in giro.

Altra perla politica di Draghi è l’aver minimizzato i rischi della ridotta mutualizzazione dell’operazione affermando che, se mai vi fossero default, le singole banche centrali nazionali hanno comunque cuscinetti di capitale più che sufficienti per assorbire le perdite sui titoli di stato da esse acquistati. Ma un programma ben costruito non è necessariamente un programma efficace. Le forze deflazionistiche continuano a soffiare forte; il QE arriva comunque molto tardi; la crescita globale, con l’eccezione (sinora) degli Usa è in rallentamento; il sistema finanziario dell’Eurozona resta fortemente bancocentrico, e ciò attenua l’efficacia delle misure.

giovedì 8 gennaio 2015

La Guerra Strana Che Non Deve Travolgerci

Quanto è cambiata la società israeliana col terrorismo? «Siamo diventati più forti ed elastici e uniti». Zeruya Shalev, scrittrice israeliana.(intervista a Repubblica del 23 luglio 2005)

Quando andai in Israele, qualche anno fa, per un viaggio di conoscenza e solidarietà con quella società colpita dal terrorismo, un padre di famiglia (un italiano trasferitosi da qualche anno lì) ci sorprese con una battuta che poi scoprii essere un po' diffusa: "Per la verità, facciamo più morti noi sulle strade - con la nostra imperizia come automobilisti - che non il terrorismo con le stragi".
Era probabilmente il tentativo di esorcizzare la paura e l'angoscia, ma al tempo stesso diceva forse qualcosa di vero.

Naturalmente non si può sottovalutare quanto successo ieri a Parigi, ma è necessario mantenere la calma nel momento in cui si analizzano i fattori dell'evento. Questa è una guerra molto "strana", se proprio vogliamo chiamarla guerra e vedere un unico disegno che unisce tutti i punti. Bisogna fare attenzione, però, perché unendo punti troppo lontani fra loro rischiamo di vedere un Nemico Gigante e terrificante, quando magari sono tanti, piccoli, e non così forti.

Questo possibile errore di prospettiva - uno dei tanti che si rischiano in questa strana guerra "frammentata" e con più "scenari" -  può elevare l'allarme oltre il necessario e - soprattutto - far sbagliare le risposte. Che devono essere dure, sicuramente, ma precise. Il che significa - per esempio - che è sbagliato attaccare genericamente l'Islam, ma è altresì pericoloso - se le indagini confermeranno questa matrice - "rimuovere" la "connotazione" religiosa e fondamentalista, parlando semplicemente di "terrorismo" in modo troppo generico. 

Già in Afghanistan e in Iraq, e per certi aspetti in Libia, stiamo pagando i prezzi di un eccesso di azione e di un'analisi approssimativa; un comprensibile e necessario tentativo di "concretizzare" il nemico (magari facendolo incarnare in uno stato, o collegandolo a potenze considerate nemiche, fu il succo del tentativo "neocon") può portare a sbagliare mira, peso della reazione, azioni seguenti, e via così dicendo.

Ieri non c'è stato un nuovo 11 settembre. Sono state uccise 12 persone. Una tragedia infinita, perché infinita è ogni persona, ma limitata nei numeri. L'attacco simbolico è stato gravissimo, naturalmente, ma oggi lavoriamo e viviamo abbastanza normalmente. Sono stati correttamente attivati tutti i "sensori", e alzati i livelli di allarme; ma - per ora, e spero di non essere smentito - possiamo camminare abbastanza tranquillamente sulle nostre strade. Speriamo continui così. Ma se deve essere diverso, deve esserlo solo se strettamente necessarioe nella misura strettamente indispensabile. Per terroristi sparsi, almeno tali sembrano fino ad ora, non vale la pena - ed è totalmente inutile - attivare troppe difese; rischieremmo di soffocare senza guadagnarci nulla.

Soprattutto, non possiamo far decidere ai terroristi (quanti e quali che siano) come dobbiamo vivere la nostra vita, i nostri piaceri e i nostri affanni quotidiani. Certo, dobbiamo aver presente che non tutto è difendibile, che non tutto è prevedibile (troppo facile dire oggi che bisognava proteggere meglio la sede di quel giornale...). Dobbiamo essere duttili: forti ed elastici al tempo stesso, come diceva la scrittrice israeliana che ho richiamato all'inizio.

Pochi giorni dopo l'11 settembre, Tommaso Padoa Schioppa scrisse un articolo molto bello sul Corriere della Sera in cui invitava ad evitare "l'insidia di due tentazioni, due forme di evasione dalla realtà, ugualmente pericolose: l' indifferenza nel quotidiano e lo sconvolgimento del quotidiano.". Ve lo ripropongo qui sotto, perché mi pare che in questo difficile equilibrio ci sia la traccia giusta di come affrontare questa sfida, e forse tante altre.

"Non abbiate paura", disse un Papa anni fa, affrontando un gigante politico che terrorizzava il suo popolo. Ebbe ragione.

Non dobbiamo avere paura neanche oggi. E avremo ragione.

Francesco Maria Mariotti

Parte della risposta ai tragici fatti dell' 11 settembre dev' essere un intrepido e assorto ritorno al quotidiano operare, alla fiducia a scuola e in Borsa, alle normali conversazioni in casa e in ufficio. La capacità di liberarsi dalla minaccia del terrore che ha improvvisamente colpito il mondo dipenderà anche da come ciascuno, nel mondo, vivrà questo ritorno. Ciascuno nel mondo, perché miliardi di persone di tutte le età hanno visto le immagini del disastro, centinaia di milioni conoscono New York e ne hanno visitato le torri. In quello stesso martedì di settembre, nei minuti e nelle ore che seguirono l' attacco, in innumerevoli sedi pubbliche e private, dentro e fuori gli Stati Uniti, ci si riunì sgomenti, non sapendo che fare. Si decise che «il lavoro continua», business as usual. Per i più non era insensibilità, ma bisogno di una norma sicura, dunque di normalità. Lavoro, abitudini, normalità hanno subìto l' urto di eventi orridi e discriminanti che ognuno ricorderà per sempre. Sappiamo, stiamo poco per volta capendo, che quegli eventi porteranno cambiamenti anche nel vivere quotidiano. Né il prevalere del terrore né la sua sconfitta lascerebbero immutate le nostre abitudini. Tanto meno le lascerà immutate la lotta contro il terrore, di cui ora non conosciamo né i tempi né l' esito. Del vivere quotidiano, della normalità, l' attacco terroristico è stato ferita e tradimento. Normale era la giornata di lavoro cui si accingevano le migliaia di persone che sono morte. Normale era la vita in cui i terroristi si erano mimetizzati per anni in attesa del giorno dell' attacco. «Normali», si disse mesi fa, erano Omar ed Erika prima e dopo l' uccisione di mamma e fratello. Il quotidiano è fatto di abitudini lente a cambiare. In ciò sta il suo valore, perché in-corpora saggezza e civiltà sedimentate a lungo, entrate nelle fibre di ciascuno. Le abitudini sono e danno forza. Ai bambini danno fiducia; agli adulti libertà. Il lavoro è necessità e fatica; ma è anche sicurezza e riflessione. Nel ritorno al quotidiano vi sono consolazione e sostegno, ma anche difesa e riaffermazione della saggezza e della civiltà. Il ritorno al quotidiano diventerà una risposta intrepida se sapremo evitare l' insidia di due tentazioni, due forme di evasione dalla realtà, ugualmente pericolose: l' indifferenza nel quotidiano e lo sconvolgimento del quotidiano.(...)

Un gradino sopra si muovono cellule strutturate e con ramificazioni. Sono però categorie fluide, a volte si mescolano: possiamo avere due individui senza rapporti gerarchici con un movimento ma che sono disciplinati e con alle spalle un training. Negli ultimi mesi abbiamo assistito a episodi diversi: a Bruxelles un militante ha impiegato un AK nell’assalto al museo ebraico, a Ottawa il terrorista era dotato di un fucile da caccia, stessa cosa nella presa d’ostaggi a Sydney e a New York un uomo affascinato dall’Isis si è lanciato con un’ascia contro la polizia. Ora c’è stata la sparatoria di Parigi, di livello superiore.

Quando nelle prossime ore molti di noi potrebbero essere tentati dall'intolleranza verso i “barbuti col caftano” che sempre di più incontriamo nelle nostre città, cerchiamo di ricordarci che anche il coraggioso Selvedan Baganovic è un “barbuto col caftano”, che però predica un Islam tollerante e pacifico. E chiediamoci quanti del miliardo e trecento milioni di musulmani che popolano il pianeta si sentono rappresentati dai sicari di Parigi o dai tagliagole di al Baghdadi o, meglio ancora, proviamo a chiederlo direttamente a loro: e probabilmente scopriremo che, nella lotta contro il terrorismo islamista, proprio la gran parte dei musulmani sono i nostri migliori e naturali alleati.
di Vittorio Emanuele Parsi - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/VRtlEL

Il risultato della strage sarà rendere più o meno frequenti gli episodi di autocensura? Il 7 gennaio è stata data una dimostrazione pratica di quello che può accadere a scherzare sulla religione. È possibile che con un moto d’orgoglio l’opinione pubblica mondiale si scuota di dosso le sue paure e decida di non accettare più limiti alla libertà di espressione. Ma è altrettanto possibile il contrario. Se per me è facile ignorare il timore per la mia incolumità, per altri colleghi – molto più in prima linea di me – non è così semplice. Il mondo non è fatto di eroi, ma di persone normali, con le loro debolezze ed incertezze che forse oggi più che ieri decideranno che è meglio non rischiare la vita per un disegno o per una critica corrosiva. A quel punto non ci vorrà molto (come ha notato Giovanni Fontana, sono bastate poche ore in alcuni casi) perché una grossa fetta di coloro che oggi scrivono #JeSuisCharlie comincino a chiedersi perché quello che non si può fare nei confronti dell’islam lo si può fare nei confronti del cristianesimo. Già oggi esistono molti musulmani e cristiani che condannano la violenza, ma allo stesso tempo sostengono la necessità di mettere limiti alla critica della religione. Non è impossibile immaginare in un futuro prossimo un politico che proponga di introdurre delle leggi contro il vilipendio della religione trovandosi così tra le mani tanto i voti degli estremisti islamici quanto di quelli cristiani. Sarebbe un mondo meno libero, che poi alla fine è esattamente quello che vogliono i terroristi.