venerdì 11 settembre 2015

Salvare Assad? (rassegna stampa)

Di seguito un ottimo Alberto Negri, e altri interessanti articoli sulla difficile questione siriana, che l'arrivo di profughi ha riproposto al centro dell'agenda politica europea. 

"Salvare" Assad è il male minore, di fronte all'avanzata del Califfato? Può darsi, ma in ogni caso qualunque ipotesi di "soluzione" deve mettere nel conto un lungo periodo di gestazione, e un alto tasso di contraddittorietà e precarietà. 

Già essere consapevoli dei tempi non brevi che sono richiesti da questo scenario (come anche da quello libico) sarebbe un primo passo verso un'azione più incisiva.

Francesco Maria Mariotti

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Nessuno ama Bashar Assad, neanche i russi e neppure gli iraniani: ma oggi appare il male minore, unica alternativa alla vittoria dei jihadisti. Non per questo Mosca, rafforzando il suo sostegno militare a Damasco, intende far esplodere la terza guerra mondiale, come sembrava sfogliando ieri le prime pagine di alcuni giornali. Anzi la Russia, insieme all’Iran sciita, ha intuito che Assad non può vincere la guerra, e che serve trovare un compromesso per la transizione. Questo era il senso dell’offerta del Cremlino di costituire un coalizione internazionale contro lo Stato Islamico: ma è stata sdegnosamente respinta, come se qui dalle nostre parti avessero la soluzione in tasca. (...)
Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia continuano a sostenere che Assad se ne deve andare e allo stesso tempo dichiarano che vogliono colpire i jihadisti dello Stato Islamico. Ma è evidente che non si può combattere il Califfato e allo stesso tempo il suo avversario. A meno che Londra e Parigi non intendano comportarsi come la Turchia di Erdogan che con il pretesto della guerra al Califfato bombarda sistematicamente dei curdi, i più strenui nemici dei jihadisti. La comunità internazionale sembra colpita da una sorta di sdoppiamento della personalità che determina comportamenti fortemente contraddittori di fronte all’Isis e a quanto accade nel Mediterraneo. (...)
È questo uno dei motivi chiave perché le iniziative militari anti-Isis hanno avuto scarso successo: alla guerra degli occidentali manca l’obiettivo politico. François Hollande afferma che Assad se ne deve andare ma il presidente francese non ha la minima idea di chi mettere al suo posto, a meno di non volere riciclare i jihadisti che vuole combattere e consegnargli la Siria. Così come non si sapeva con chi sostituire Saddam nel 2003 e Gheddafi nel 2011. L’impressione è che gli Stati e l’Occidente non siano ancora usciti dalla macchina infernale delle guerre senza senso innescata dagli attentati dell’11 settembre 2001: l’anniversario di oggi dovrebbe indurci a qualche riflessione.

di Alberto Negri - Il Sole 24 Ore - leggi su La guerra all’Isis non sarà la terza guerra mondiale

(...) Cosa fare, allora? Basta leggere le dichiarazioni del presidente francese Hollande per capire che si pensa a intensificare l’intervento armato. Quello che non è chiaro è come farla finita con Assad e come affrontare l’Isis. Il drammatico bilancio degli interventi internazionali in Afghanistan nel 2001 e in Iraq nel 2003 sono sotto gli occhi di tutti. Isis stesso è un problema che nasce tra le fila degli ex dirigenti del regime di Saddam. L’intervento a supporto dell’insurrezione in Libia, ha lasciato dietro di sé una devastante guerra per bande. In tutti e tre i casi citati, non si è mai lavorato a un reale progetto post-bellico e il rischio che si corre adesso è che nella corsa alla guerra, ancora una volta, si perda di vista l’obiettivo: rendere quella regione del mondo un posto sicuro. Restando lucidi, per non farsi travolgere dalla necessità di accorpare coalizioni in fretta e furia, magari pagando cambiali a paesi come la Turchia e l’Arabia Saudita che profittano del momento per regolare i loro conti, rispettivamente con i curdi e con gli insorti filo iraniani in Yemen.
La chiave è mettere Assad fuori dalla storia, arrivando a un accordo con i suoi alleati. Senza Iran e Hezbollah, Damasco è finita. L’accordo sul nucleare tra Washington e Teheran potrebbe essere davvero il punto di svolta di questa crisi. Prima di concludere, deve essere preteso che l’Iran giochi un ruolo ‘trasparente’ nel conflitto siriano, per lavorare a una vera exit strategy che deve iniziare – ad esempio – dal fermare l’aviazione del regime e le sue criminali barrel bomb. Sostenendo un nuovo governo a Damasco, nato dalla condivisione di tutte le anime dell’insurrezione e della società civile siriana, e non pretendendo di sceglierlo a Washington o a Bruxelles, lavorando allo stesso tempo sulla situazione in Iraq, con l’elemento curdo che – piaccia o no al presidente turco Erdogan – ha preso un ruolo importante, affrontare tutti assieme le colonne di Isis.
Che sono molto meno imbattibili di quello che si vuole raccontare. Perché iniziare subito un’operazione razionale di intervento sulle fonti di finanziamento del gruppo darebbe risultati immediati. Almeno quanto aprire un tavolo di confronto ad alto livello e transnazionale con le figure più influenti della galassia sunnita in Siria e in Iraq per uscire dalla trappola del risentimento settario. Perché bombardare e basta aumenterà le vittime civili. E questo, come dimostrano gli ultimi quindici anni, finisce solo per rafforzare i radicali.


Bashar Assad era ancora un bimbo quando i russi hanno aperto la loro prima base a Tartus. Era il 1971, allora i siriani decisero di concedere l’uso di un punto d’appoggio logistico per le navi di Mosca. Uno scalo, neppure troppo grande, ma importante. E non lo hanno mai abbandonato. Oggi moli e gru fanno parte del piano lanciato da Vladimir Putin per sostenere Damasco. Un programma che poggia su tre pilastri per il momento irrinunciabili in quanto necessari a tutelare gli Assad e gli interessi del Cremlino. Visione che geograficamente trova il punto di sintesi nel cosiddetto corridoio di Latakia, che parte dalla costa e va verso Est, come nel cantone alawita, che scende verso Sud. Davanti il nemico. La miriade di formazioni ribelli e l’Isis che il regime non ha mai considerato come il target primario.
Molti rifugiati vengono dalla Siria, dove ora operano sul terreno anche i consiglieri militari russi. Non teme il rischio di una ulteriore escalation militare?
«In Siria non esiste una soluzione militare. Stanno combattendo da quattro anni e mezzo, sono morte oltre 250.000 persone, ci sono 4 milioni di rifugiati e 12 milioni di esseri umani colpiti dagli effetti della guerra. Sollecito una soluzione attraverso il dialogo politico, sulla base del comunicato di Ginevra del giugno 2012, e l’unità dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza. Col mio inviato Staffan de Mistura abbiamo proposto di creare gruppi di lavoro per la sicurezza, la situazione militare, la riconciliazione, lo sviluppo, le infrastrutture, le questioni politiche e costituzionali. È il tentativo di allargare lo spazio politico, per risolvere la crisi con lo strumento del dialogo».


È una vittoria per Obama. Un trionfo anzi. A consegnarlo al presidente i democratici che al Senato hanno bloccato una mozione presentata per respingere l’accordo sul nucleare iraniano. Questa volta hanno fatto muro e hanno aperto la strada per rendere realtà l’accordo negoziato con Teheran, consentendo a Barack Obama di evitare la sfida al Congresso attraverso il veto presidenziale.
Si è trattato di una votazione cosiddetta procedurale, che richiedeva un minimo di 60 voti per consentire alla mozione (Resolution of Disapproval) di procedere verso una ulteriore votazione finale. I voti a favore sono stati però soltanto 58, con 42 contrari, il testo è stato così bloccato e il promesso showdown tra Congresso e Casa Bianca sventato.
Premiati gli sforzi del presidente: Obama su questo accordo ci ha messo la faccia, letteralmente. Ha di persona guidato una campagna a tutto campo per assicurarsi e assicurare che i due anni di negoziati del cosiddetto gruppo 5+1 con Teheran non sarebbero stati vani. (...)

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