domenica 29 giugno 2014

No A Riforme Improvvisate!

Siamo persone di diversa estrazione politica, e firmiamo assieme questo appello perché siamo preoccupate per le modalità con cui l'attuale Governo e la maggioranza del Parlamento stanno impostando le riforme istituzionali.

Sgombriamo il dubbio da una questione: nessuno mette in discussione la possibilità di migliorare la Costituzione italiana; non è con la retorica della "Costituzione più bella del mondo" che si fanno gli interessi del Paese e delle future generazioni, anche sul lungo periodo; in diversi punti la Costituzione può - e forse deve - essere migliorata.

Ma l'approssimazione con cui si sta conducendo la riforma del Senato è deleteria: l'ultima polemica di questi giorni - riguardante l'immunità per i nuovi senatori - al di là del merito della questione è indice di un percorso non curato, non consapevole delle diverse implicazioni di ogni singola scelta costituzionale, che deve essere attentamente vagliata dal punto di vista "sistemico".

Siamo passati in pochi mesi da un Senato che doveva rappresentare i Sindaci, a uno che dovrebbe rappresentare le Regioni, come se fosse la stessa cosa. Senza entrare nel merito di quale possa essere la scelta eventualmente migliore, ci rendiamo conto che stiamo facendo una opzione di sistema piuttosto improvvisata?


Si tenga anche conto - nel valutare il tutto - della discutibile ipotesi di riforma della legge elettorale, che incide - indirettamente - sul funzionamento delle istituzioni democratiche del nostro Paese. Si può e si deve trovare un altro modo di cambiare il nostro Stato. (...)

sabato 28 giugno 2014

Due Colpi Di Pistola, Cento Anni Fa (lettura del saggio di E.Gentile sulla Grande Guerra)

Nel centenario della prima guerra mondiale può essere utile prendere in mano uno dei tanti saggi usciti in libreria per "celebrare" storicamente l'evento. E' un testo agevole e veloce da leggere, quello di Emilio Gentile, professore emerito di Roma LaSapienza (Due colpi di pistola, dieci milioni di morti, la fine del mondo, Storia illustrata della Grande Guerra, Ed. Laterza, pp.228+XII), e in questo senso è consigliabile per chi - come tanti di noi, immagino - non ha moltissimo tempo per studiare e approfondire su testi più corposi e densi. 

Il saggio di Gentile, a partire dall'utilizzo intelligente e ricco di immagini, rappresenta un'immersione in quello che può apparirci realmente come un altro mondo, ad uno sguardo disattento, ma che mentre scorriamo le pagine capiamo essere "nostro", rappresentare concretamente quelle "radici" del "secolo breve" che abbiamo vissuto in parte, e che ancora in realtà sembra condizionare il nostro cammino.

Mentre scrivo penso allo sguardo perso di una donna che tiene per mano un bambino, in una fotografia (n.22, pp.54-55) di profughi belgi ad Anversa, in fuga dall'occupazione tedesca. Noi oggi vediamo altri visi, altri popoli che fuggono; ieri eravamo noi; e forse lo siamo stati anche di recente (penso alla guerra in ex Jugoslavia); non ci rendiamo veramente più conto di quale sia stata la forza di chi ha costruito l'Europa unita per evitare che dovessimo andare spersi, con un sacco di biancheria e cose, come l'uomo con la bicicletta (chissà, forse il marito della donna?). E dietro altri e altre, tanti. Sempre troppi. 
L'avrei messo nella copertina, quel viso bello e disperato. Ma queste son cose di sentimenti, e le mettiamo - per ora - da parte. 

Per suggerire una traccia di lettura, possiamo partire dalla interessante e rapida descrizione dell'attentato all'arciduca Francesco Ferdinando (prologo, pp.3-8), indicativo comunque di quanto il "caso" (il fato, qualcuno direbbe) ha parte nella cosiddetta Grande Storia (Princip aveva rinunciato, in un primo momento, pensando ad un fallimento del complotto che aveva organizzato con i compagni dell'associazione nazionalista "Giovane Bosnia"; poi un fatale errore dell'autista dell'arciduca riporta l'attentatore al suo disegno). 

Ed è ben spiegata - anche se inevitabilmente poco approfondita, essendo un saggio divulgativo - la dinamica che porta un'Europa teoricamente già molto interconnessa ("La preservazione della pace, nella centenaria tradizione del "concerto europeo", appariva ancora possibile in un continente dove gli Stati (...) erano monarchie legate fra di loro da vincoli di parentela.", p.33) a scivolare in una guerra tragica e spaventosa; dinamiche anche difficili da comprendere; o meglio: il "ragionamento" di ogni singolo Stato viene ben spiegato da Gentile, ma - con quel "senno di poi" che ci oscura a volte la comprensione della storia - restiamo basiti a vedere come non si sia riusciti a "frenare", a tentare un'altra strada. Difficile giudicare, ma anche impossibile non giudicare.

E' importante notare - per tentare di comprendere - come la percezione della guerra fosse molto diversa da quella che abbiamo noi, che in qualche modo abbiamo "introiettato" proprio la durissima lezione di due guerre mondiali (e forse ora le abbiamo "rimosse", ma sarebbe un discorso lungo...): "C'era un altro motivo che fece accettare come inevitabile una guerra evitabile: la convinzione che la guerra fosse un fenomeno ricorrente nella vita dell'umanità.(...) In effetti, nonostante i propositi e le dichiarazioni a favore della pace, i governanti che diedero inizio al conflitto europeo condividevano una concezione etica della guerra, elaborata nel corso dell'Ottocento e largamente diffusa nella cultura, sia nei paesi democratici che nei paesi autoritari (...)" (p.37).

Capire questo nodo "etico" è fondamentale io credo, sia per comprendere, appunto, come si sia potuto andare verso il vuoto senza frenare. Ma anche - e forse soprattutto - per capire se anche noi stiamo percorrendo un sentiero simile, magari senza accorgercene (anche se è sempre un'illusione che la storia possa essere maestra di vita, forse sono anche altre le dinamiche che in ultimo governano gli uomini, animali cosiddetti "razionali"...).

Molto interessante, con lo sguardo rivolto anche all'oggi, è il richiamo del contrasto fra la concezione della guerra "classica", come primato della "virtù eroica" degli uomini che la combattevano, e l'impatto delle nuove armi e della potenza di nuove tecnologie di battaglia ("il primato spettava non alla potenza delle armi bensì alla forza del carattere dei combattenti, alla loro disciplina, alla loro energia morale, alla loro volontà e determinazione di distruggere il nemico", p.19). 

In questo senso la figura di Cadorna ci appare simbolica di un mondo che non capisce la sua fine, che non la vede; e per il quale perciò la sconfitta è inevitabile, nella resa dei conti con la realtà (pp.88 e ss; e poi pp.137 e ss. su Caporetto). Questa "distonia" forse dice qualcosa anche di noi? per esempio: forse c'è ancora la dialettica "guerra tecnologica"/"guerra d'onore" in un mondo di guerre asimmetriche, globalizzate ma al tempo stesso molto localistiche?

Nel sesto capitolo - "La nuova guerra", pp.91-115, Gentile esamina tutti gli aspetti che irrompono in un'Europa che si apre tragicamente al nuovo secolo, con nuove tecnologie belliche, appunto, ma anche - paradosso della modernità, che emancipa mentre distrugge - chiamando le donne in "prima linea" nel lavoro (pp.101 e ss, stupenda la foto 49 di p.102, raffigurante donne operaie in una fabbrica di armamenti): la società - come sempre? - viene costretta a "superare" i suoi valori mentre li declama nella retorica ufficiale ("Nello stesso tempo, tuttavia, la propaganda patriottica continuava ad esaltare l'immagine tradizionale della donna(...)", p.104).

La Grande Guerra è stata anche la prova generale di tutto quello che abbiamo visto nel XX secolo: la ricerca del nemico interno (pp.106-109, dove viene ricordato anche il genocidio armeno), la demonizzazione del nemico quasi come in una guerra di religione (pp.109-115); il fenomeno della militarizzazione della politica, che è fondamento per il fascismo venturo: "Ciò che caratterizzò queste aggregazioni paramilitari nazionaliste fu l'adozione del cameratismo delle trincee come esperienza vissuta di una nuova identità comunitaria, assunta a modello di una coesione nazionale, fondata sul mito della Grande Guerra come fattore di rigenerazione della politica e della società" (p.185).

E infine, anche la cessazione delle ostilità, come il loro inizio, sembra arrivare inaspettata ("La fine imprevista" è il titolo del capitolo dedicato alle fasi ultime del conflitto, pp.149-156).

Si riemerge perciò dalla lettura di questo libro con più interrogativi di quanti si avevano in principio; si è intimoriti dal fatto che un continente che celebrava la prosperità si sia "suicidato" in una avventura senza ritorno: perché è avvenuto? possiamo rispondere? 

Dovremmo rispondere, in teoria; ma non riusciamo totalmente. 

Nella conclusione di questo bel saggio (che forse ha l'unico limite di non avere un apparato di note che potrebbe aiutare, in alcuni punti), Gentile  riporta le considerazioni di John Keegan, a cui lascio idealmente la parola per chiudere, perché ci dicono un po' di questo senso di smarrimento, di fronte a tanto orrore, mischiato - nel fango - a tanto coraggio:

"(...) "tutta la prima guerra mondiale è misteriosa. Sono misteriose sia le sue origini che il suo svolgimento"(...) "Come riuscirono milioni di anonimi, miserabili senza distinzione, uniformemente privati di qualsiasi briciolo di gloria che rende tradizionalmente tollerabile la vita di un uomo sotto le armi, a trovare la determinazione per sostenere la lotta e credere nei suoi scopi? Che lo fecero è una delle verità inconfutabili della grande guerra.(...) Uomini che la trincea avvicinò fino alla massima intimità arrivarono a legami di mutua dipendenza e di sacrificio di sé, più forti che in qualsiasi amicizia nel tempo di pace o di periodi più fortunati. Questo è l'ultimo mistero della prima guerra mondiale. Se riusciamo a capire il suo amore, insieme al suo odio, saremo più vicini alla comprensione del mistero della vita umana" (...)" (pp.217-218)

mercoledì 25 giugno 2014

Il Nodo E' Il Debito (da ilSole24Ore)

(...) La Bundesbank ha già lanciato l'allarme e chiesto di «rafforzare» anziché «allentare» le regole di bilancio. Renzi e Hollande dovrebbero stanare Sigmar Gabriel, capo dell'Spd, e farlo uscire dall'ambiguità. Fu Gabriel, dopo il vertice dei partiti a Parigi, ad annunciare la strategia di dilazione dei tempi in cambio di riforme di cui si discute fin dal 2013 sulle ceneri della proposta degli «accordi contrattuali» cara alla cancelliera. A ben vedere la distanza tra le parti non è grande. Infatti, come è noto ai lettori di questo giornale, i margini di allentamento dei vincoli del deficit non hanno mai messo in discussione il tetto del 3% sopra il quale scatta inesorabile una procedura di infrazione che irrigidisce le politiche di bilancio. La dilazione riguarda invece i tempi di rientro del debito. Si tratta di evitare la riduzione automatica annuale di un ventesimo dell'eccesso di debito che dovrebbe scattare dal prossimo anno. Una riduzione più graduale del debito implica anche un deficit più vicino al 3% che allo zero, giustificabile dai molti caveat inclusi nei trattati. (...)
 
di Carlo Bastasin - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/bPbZb2

Aborto, Il Dovere Di Informare

Il medico ha il dovere di informare. Di garantire alla paziente che richiede un aborto tutti i certificati necessari, di dare i consigli adeguati. Non solo: è tenuto alla prescrizione dei contraccettivi, pure "post-coitali". Insomma: se per legge può rifiutarsi secondo coscienza di operare un'interruzione volontaria di gravidanza, non può sottrarsi al suo compito di cura all'interno dei consultori familiari. Lo ha messo nero su bianco, per la prima volta, il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti, in un decreto da lui firmato sulla riorganizzazione dei servizi medici per la salute della donna.

Argentina Contro I Creditori

(...) Nella pagina a pagamento del governo (pubblicata domenica anche su New York Times, Washington Post e Wall Street Journal) si spiega però che questi “fondi avvoltoio” «non sono creditori originari» ma hanno «acquistato a prezzi stracciati titoli in default dopo il concambio, all’unico scopo di agire legalmente contro il paese e al fine di ottenere un guadagno strabiliante»: il fondo NML di Singer nel 2008 per esempio ha pagato 48,7 milioni di dollari per l’acquisto di titoli dichiarati in default e la sentenza della Corte suprema gli riconosce oggi un guadagno del 1.608 per cento (pari a 832 milioni di dollari).
Il comunicato si conclude con la speranza di negoziazioni «eque ed equilibrate». Per questo il governo argentino ha chiesto la sospensione della sentenza, in modo da poter rispettare la scadenza del 30 giugno per i pagamenti pattuiti con la maggior parte dei creditori e si è detto disponibile a cercare un nuovo accordo. Il giudice che aveva condannato a pagare il 100 per cento del debito ai fondi americani ha dunque nominato l’avvocato Daniel Pollack a «special master», incaricandolo cioè di condurre un nuovo negoziato tra le parti.(...)

Il Disordine Che Ignoriamo (dal Corriere.it)

(...) A ben vedere è proprio l’Isis il simbolo più rivelatore dei nuovi tempi. Sunniti come tutti i qaedisti ma scomunicati dalla vecchia Al Qaeda per eccesso di crudeltà (e ce ne vuole...), gli uomini dell’Isis vogliono ridisegnare quei confini che britannici e francesi imposero quasi un secolo fa con la ben nota lungimiranza delle potenze coloniali. Non soltanto per far nascere il loro Califfato, ma per affermare una dinamica eversiva e rigidamente settaria che è già la regola nella Siria che gronda sangue, che allarma già gli sciiti iraniani e ottiene invece una tacita comprensione dai sunniti sauditi. Davvero crediamo che la grande guerra inter-islamica non ci riguardi, e non riguardi il prezzo o le forniture di greggio? Che la mattanza siriana possa continuare a piacimento, che non possano saltare all’improvviso il Libano e la Giordania, che domani in Afghanistan non possa andare come oggi in Iraq, magari trascinando nella mischia anche il Pakistan e la sua atomica? E le molte centinaia, forse le migliaia di giovani europei che vanno a combattere con l’Isis e poi rientrano nei nostri tranquilli rifugi europei addestrati e fanatizzati, anonimi fino a quando decideranno di colpire? (...)
 

sabato 21 giugno 2014

Una Riforma Semplice Del Bicameralismo

Sarò banale, ma secondo me si superebbe il bicameralismo perfetto in modo migliore e più semplice se: 

1) si dimezzassero sia i deputati che i senatori senza cambiare altro nei sistemi di elezione;

2) si desse "primazia" alla Camera, assegnando ad essa la prima e la eventuale terza - ed ultima! - lettura della legge, lasciando al Senato la possibilità di una sola seconda lettura eventualmente modificativa (oppure confermativa, a quel punto non si procederebbe alla terza lettura).

I risparmi sarebbero garantiti, chissà forse anche maggiori e ci sarebbe una miglior efficienza, anche meglio visibile e comprensibile da tutti i cittadini. 

Mi sbaglio?

Francesco Maria

mercoledì 18 giugno 2014

Che fare In Iraq?

New York. Che fare? La più rivoluzionaria delle domande rimbalza nei corridoi dell’Amministrazione Obama a proposito della lacerante situazione in Iraq, figlia legittima di anni di traccheggiamenti nell’adiacente ginepraio siriano. Di fronte alle crisi internazionali di questi anni, la Casa Bianca ha insistito fino allo sfinimento sull’efficacia dello “smart power” e la varietà degli strumenti a disposizione del governo – dai droni alla diplomazia fino agli aiuti economici e al sostegno militare alle popolazioni ribelli – secondo l’idea obamiana che “non tutti i problemi hanno una soluzione militare”, ma l’avanzata repentina dei terroristi dell’Isis in Iraq restringe il ventaglio delle opzioni americane a tre alternative, nessuna delle quali è particolarmente desiderabile per Washington. La prima opzione è un intervento militare diretto; la seconda è una scivolosa alleanza di natura tattica con l’Iran nel nome del comune nemico sunnita; la terza è non fare nulla, un classico della politica estera obamiana.(...)
 
(...) Le colpe degli Usa Senza alcun dubbio gli Stati Uniti e i loro alleati hanno le loro colpe. La scellerata gestione del sistema iracheno nei mesi seguiti alla sconfitta di Saddam Hussein ha avuto un peso determinante nel fallimento del progetto di “nuovo Iraq” sorto in ambito neo-con. La terra dei due fiumi sarebbe dovuta divenire un faro di speranza, democrazia e stabilità nel cuore di una regione che – nonostante i molti alleati di Washington – era ottenebrata da autoritarismi, sperequazioni e violazioni quotidiane dei diritti umani più basilari. Essa sarebbe dovuta essere esempio e monito al tempo stesso, oltre che un alleato eccezionale dal punto di vista economico, politico e di sicurezza. Nel giro di pochi mesi, però, questo scenario è collassato sotto il peso di scelte errate, destinate a segnare l’Iraq per anni a venire: scioglimento delle forze armate, processo di de-baathificazione, passaggio immediato a un’economia di mercato e articolazione degli interessi della popolazione irachena su basi etno-settarie su tutte. Tali misure furono associate alla Coalition provisional authority di Paul Bremer III, ma gli errori americani furono più legati alla scarsa conoscenza degli equilibri locali e alla inadeguatezza dei preparativi per il “post-Saddam” che alle responsabilità – seppur importanti – di una singola persona o istituzione. Eppure, al momento del loro ritiro nel dicembre 2011 (una scelta frutto più dell’intransigenza della dirigenza irachena che dell’effettiva volontà di disengagement americana) gli Stati Uniti erano riusciti con gran dispendio di risorse ed energie a lasciare un Iraq, se non completamente pacificato, quantomeno non minacciato da un’insurrezione su ampia scala, con i resti dello milizie qaediste in fuga od operanti nell’ombra a Mosul e dintorni.
La responsabilità di al-Maliki Nel giro di pochi mesi, però, nonostante le rassicurazioni fornite a Washington, Nuri al-Maliki – il premier sciita alla guida del Paese dal 2006 – impresse una svolta significativa alla propria linea politica, dando il via ad una lotta senza esclusione di colpi contro le forze di opposizione, soprattutto quelle in quota arabo-sunnita. A farne le spese fu, nel dicembre del 2011, l’ex vice-presidente iracheno Tariq al-Hashimi, accusato di essere il mandante di una serie di attentati terroristici e condannato in contumacia, in seguito alla sua fuga in Kurdistan e da lì in Turchia e Arabia Saudita. Esattamente un anno più tardi, a cadere nella tela del primo ministro fu Rafi al-Issawi, allora ministro delle Finanze, che – a differenza di al-Hashimi – non sembrava altrettanto coinvolto nel bagno di sangue che aveva travolto il Paese tra il 2005 e il 2008. L’arresto di al-Issawi rappresentò la classica goccia che fece traboccare il vaso. (...)

martedì 17 giugno 2014

Argentina Chiama Europa? Ancora Rischio Default?

Fra pochissimo l'Argentina potrebbe di nuovo tornare sulle nostre prime pagine come protagonista negativa di una crisi finanziaria. La speranza è che si trovi una soluzione alternativa che riesca a convincere i creditori che non avevano aderito a precedenti soluzioni e che hanno ottenuto da un tribunale americano sentenza favorevole a un pagamento immediato dei debiti (in un articolo del Sole si ipotizzava un accordo extragiudiziario).

Al di là dei passaggi tecnici, di nuovo appare sulla scena il timore di un default per il paese sudamericano.

E per noi? Lo spettro del default - sia pure per dinamiche diverse da quelle argentine - è cosa superata?

Sì e no, mi pare il caso di dire, da inesperto: sì, potremmo dire che un rischio specifico per l'Italia come "sorvegliato speciale" si sia molto ridotto; no, perché in realtà il problema della compatibilità fra gestione del debito pubblico e scenari politici accettabili per le democrazie occidentali, rimane aperto, per noi e per tutta l'Europa.

Ne parla ampiamente il sempre interessante Mario Seminerio in un articolo che propongo alla lettura.

Ritorna il problema di un'azione più incisiva della Banca Centrale Europea? Ma allora è necessario che l'Europa decida di essere qualcosa di diverso

Sarebbe meglio fare passi in avanti prima di arrivare ancora sul ciglio del burrone.

FMM

(...) In Eurozona, oltre al credit crunch bancario, abbiamo un eccesso di debito privato che di fatto non è ancora neppure stato scalfito. Anzi, la profondità della recessione ha messo pressione a questi rapporti di indebitamento. Ad esempio, il debito privato portoghese, in percentuale del Pil, è passato dal 226,4% del 2009 al 220,4% di fine 2013. E’ evidente che, con simili numeri, cercare crescita è puramente velleitario. Non solo: sempre in modalità “è nato prima l’uovo o la gallina?”, l’alto rapporto di indebitamento contribuisce a tenere depressa la crescita, che a sua volta mette pressione al rialzo all’indebitamento medesimo, almeno sin quando non si giunge al punto di rottura e scoppiano i default, personali ed aziendali.

Che a loro volta impattano pesantemente sui conti pubblici. Il tutto viene ulteriormente amplificato dalle pressioni disinflazionistiche/deflazionistiche necessarie al processo di aggiustamento europeo. Secondo Münchau (ed anche secondo il buonsenso), il rischio che si giunga a default per evitare sollevazioni popolari ed esiti elettorali “irrazionali” è destinato a crescere.
Da qui tutte le trasformazioni al quadro istituzionale che stiamo vivendo in Europa, prima fra tutte la nuova “regola del cerino” sulla risoluzione delle banche in dissesto:
«Non sono sicuro che gli investitori comprendano. Né sembrano comprendere le implicazioni della recente legislazione Ue, che stabilisce una nuova gerarchia di chi paga quanto ed in quale ordine quando una banca fallisce. Quando la casa di debito crolla, sono loro [gli investitori], non i contribuenti, ad essere i primi della lista»
Noi aggiungiamo che le banche centrali potranno (anzi, dovranno) sempre più intervenire in modo non convenzionale per evitare cataclismi, e questo finirà col valere anche per la Bce. Con buona pace dell’ortodossia tedesca.

Bond, l'Argentina dovrà pagare

Buenos Aires dovrà pagare miliardi di dollari per i bond in default agli investitori. Lo ha deciso la Corte Suprema statunitense, che ha respinto il ricorso dell'Argentina.Il paese sudamericano si era presentato in appello contro la sentenza del tribunale di New York e l'ordine dei magistrati di pagare 1,3 miliardi di dollari ai fondi che non avevano aderito ai concambi sul debito. (...)

domenica 15 giugno 2014

In Iraq ora l’esercito attacca l’ISIS (da ilPost.it)

Tra sabato 14 e domenica 15 giugno l’esercito iracheno ha attaccato i miliziani dell’ISIS, un gruppo di estremisti islamici, ed è riuscito a riconquistare diverse città vicino a Baghdad e nel nord del paese. Un portavoce del governo ha dichiarato che negli scontri di sabato sarebbero stati uccisi 279 miliziani islamici, una cifra che però non può essere confermata. Si tratta di un capovolgimento di fronte piuttosto improvviso, visto che soltanto pochi giorni fa in molti temevano che la stessa Baghdad dovesse prepararsi ad affrontare un assedio da parte dei miliziani dell’ISIS.
Negli ultimi giorni, infatti, la situazione in Iraq è peggiorata molto rapidamente. L’ISIS, che opera sia in Iraq che in Siria, ha lanciato all’inizio di giugno un’offensiva che in pochi giorni ha portato alla caduta di numerose città, tra cui Mosul, la seconda città dell’Iraq che si trova nel nord del paese, e Tikrit, la città natale dell’ex dittatore Saddam Hussein, vicino a Baghdad. L’esercito iracheno non è riuscito a opporsi a questa rapida avanzata. A Mosul circa 30 mila soldati iracheni sono fuggiti o si sono arresi davanti a 800 miliziani dell’ISIS e a una rivolta degli abitanti sunniti della città.
In realtà sembra che le conquiste compiute dall’ISIS negli ultimi giorni siano frutto di una serie di circostanze particolari (ne abbiamo parlato qui). L’ISIS è un gruppo sunnita, come la minoranza che abita in particolare la parte settentrionale del paese. I sunniti iracheni negli ultimi anni sono diventati particolarmente ostili al governo del primo ministro Nuri al-Maliki, che ha portato avanti una serie di politiche a favore della maggioranza sciita (a Mosul, ad esempio, mentre gran parte dei soldati era sunnita, i comandanti erano tutti sciiti). L’ISIS è riuscita a sfruttare questa divisione e ha ottenuto notevoli successi militari nelle zone a maggioranza sunnita. Probabilmente però non riuscirà a minacciare seriamente la capitale Baghdad, dove è molto più forte la presenza degli sciiti.(...)

sabato 14 giugno 2014

Scenari Da Guerra Mondiale?

Cosa può succedere se in Israele i ragazzi rapiti non venissero trovati in breve tempo, e si scoprisse che sono stati rapiti con l'appoggio di uno degli Stati nemici? La tensione e la guerra potrebbe intrecciarsi anche con quanto sta succedendo in Iraq?

La pessima scelta statunitense di non intervenire esplicitamente in Iraq, l'interventismo iraniano (benvenuto da un lato, ambiguo come sempre dall'altro), il possibile scivolare della questione del rapimento dei ragazzi israeliani in una guerra, la non risolta situazione siriana: scenari distinti che però possono incontrarsi, involontariamente forse, ma inesorabilmente. 

L'idea di lasciare spazio all'Iran - forse implicita in questa sorta di "desistenza" americana - può avere un senso (se ne discuteva in realtà già ai tempi della guerra di Bush junior come "effetto-non-voluto-anche-se-non-certo-imprevisto...")-, ma può essere un azzardo pesante, e comunque non risolve il problema di una eventuale escalation, di fronte alla quale Teheran probabilmente non è nelle condizioni per una reazione efficace di lungo periodo.

Temo che Obama e Clinton - e con loro noi europei - dovremo presto rivedere il distacco che in questo momento sembra segnare il nostro rapporto con l'area medioorientale.

Come forse già altre volte si è detto, l'importante è essere pronti, anche ad approfittarne.
Se succederà, sarà interessante capire come si muoveranno Russia e Cina, sempre presenti, spesso silenziose (immagino e spero che non si aspetti il volo dei droni per contattare Mosca e Pechino).

Chissà che una "guerra mondiale" non possa essere lo sblocco della situazione che aspettiamo da tempo, anche per costringere il mondo a trovare una nuova governance globale, non solo dal punto di vista politico

Francesco Maria

14/06/2014 - Tutte le forze armate di Israele sono in stato di allerta e pronte ad intervenire se la situazione, di per se già estremamente drammatica, dovesse precipitare. Uno scenario che in brevissimo tempo potrebbe trasformare il Medio Oriente in una polveriera.
Tre adolescenti israeliani sono attualmente dispersi. Presumibilmente sono stati rapiti da alcuni terroristi palestinesi.
I tre adolescenti, Eyal Yifrah di 19 anni, ed i sedicenni Gilad Shaar e Naftali Frenkel 16, sono stati visti l'ultima volta giovedì notte, nella zona di Gush Etzion.
L’esercito israeliano è in allerta massima, con preavviso di richiamo già emanato per tutte le riserve. Tutte le forze schierate lungo i confini sono pronte a qualsiasi scenario. I terroristi palestinesi non sono nuovi a questi rapimenti che utilizzano come merce di scambio per ottenere il rilascio dei prigionieri custoditi dentro le prigioni israeliane.
Ogni reparto dei servizi segreti israeliani è stato praticamente schierato per un dispiegamento che viene definito senza precedenti. Le ricerche si stanno concentrando in Giudea e Samaria. L’intera nazione resta con il fiato sospeso e l’opinione pubblica preme per una liberazione immediata dei tre ragazzi ecco perché la tensione potrebbe precipitare in brevissimo tempo.(...)

Obama Non S'Arruola (da ilFoglio.it)

Ieri il presidente americano, Barack Obama, ha parlato dal prato della Casa Bianca con un elicottero militare alle spalle per dire una cosa poco significativa e una molto significativa: ha detto che la decisione sui (probabili) bombardamenti in Iraq contro lo Stato islamico che avanza verso Baghdad saranno decisi nei prossimi giorni e che non saranno in alcun caso inviate truppe – e questo non aggiunge nulla di nuovo – e ha anche detto che per intervenire vuole vedere cambiamenti da parte della leadership irachena, quindi soprattutto dal primo ministro Nouri al Maliki. “Il problema in Iraq dev’essere risolto dagli iracheni”. Obama accusa il governo sciita di Baghdad di essere troppo settario e duro con la minoranza sunnita, che così finisce per vedere nell’arrivo dello Stato islamico una liberazione (a Mosul i corrispondenti locali raccontano che la gente non teme il gruppo erede dei combattenti del comandante giordano Abu Mussab al Zarqawi, e teme la risposta del governo con gli aerei e l’artiglieria). E’ una novità rispetto all’aiuto quasi incondizionato garantito finora al governo di Maliki.(...)

La situazione in Iraq

Tra giovedì 12 e venerdì 13 giugno la situazione in Iraq è peggiorata ulteriormente, con una nuova avanzata dello Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIS) – gruppo estremista sunnita che opera sia in Iraq che in Siria – in direzione della capitale Baghdad. L’ISIS ha preso il controllo di due città nella provincia di Diyala, poco più a est di Baghdad, e ha compiuto diverse esecuzioni pubbliche a Mosul, capoluogo della provincia di Ninawa, città conquistata negli ultimi giorni.
All’improvvisa e violenta offensiva dell’ISIS si è aggiunta una reazione intensa dei soldati curdi “Peshmerga”, che rispondono al governo regionale del Kurdistan iracheno, una regione che da tempo vuole separarsi dal resto dell’Iraq: i curdi hanno conquistato la città di Kirkuk – capoluogo della provincia di Kirkuk, a circa 250 chilometri a nord di Baghdad – sfruttando la debolezza del governo iracheno causata dall’offensiva dell’ISIS. E infine all’ISIS e ai curdi si sono aggiunti anche gli sciiti, il gruppo minoritario dell’islam (ma maggioritario in Iraq) a cui appartiene anche il primo ministro iracheno Nuri al-Maliki. Venerdì, di fronte alle difficoltà dell’esercito iracheno a confrontarsi con le recenti minacce, migliaia di combattenti sciiti si sono diretti verso Samarra, città a circa 110 chilometri a nord di Baghdad finita sotto il controllo dell’ISIS nella notte tra giovedì e venerdì. (...)
"(...) Non manderemo truppe in Iraq" ma offriremo ulteriore aiuto. Lo afferma il presidente americano, Barack Obama. "Le forze di sicurezza irachene - ha continuato - purtroppo hanno dimostrato di non essere capaci di difendere alcune città. E il popolo iracheno è ora in pericolo". Obama ha aggiunto: "Fondamentalmente il futuro dell'Iraq dipende dagli iracheni. Proseguiremo con un'intensa azione diplomatica nella regione". Il presidente Usa ha detto che la linea di politica estera degli Stati Uniti resta quella di combinare "azioni militari mirate" se necessario con "lo sforzo insieme alla comunità internazionale" per risolvere le crisi insieme e ricorrendo alla diplomazia.

venerdì 13 giugno 2014

Diritto eterologo (di Davide Giacalone)

Molto interessante la riflessione di Davide Gicalone sul diritto alla genitorialità; per riflettere insieme, spero non banalmente; troppe volte in questo periodo storico si è parlato di diritto ad avere figli in un modo che può suscitare perplessità, quasi che non esistessero limiti "naturali" di cui tenere conto. 

Ovviamente non ci sono risposte sicure, soprattutto in una fase di avanzamento delle tecniche e di mutamento della società, che nessuna legge - e quindi nessuna proibizione - può forse governare fino in fondo. Ma è importante essere consapevoli della posta in gioco.

FMM

"(...) 2. La Corte considera la genitorialità (l’avere figli) un diritto. Oltre tutto “incoercibile”. A parte il fatto che è fin qui stato coartato, ove naturalmente impossibile, ma quel diritto è tale nel senso che nessuno può permettersi d’impedirlo. Qui siamo a una cosa diversa, ovvero all’idea che sia comunque realizzabile. Ma un figlio non è un oggetto, non è un bene, è (in potenza) una persona. Il diritto alla genitorialità va considerato come libertà non condizionabile dei due potenziali genitori, non come atto di libertà su un terzo. Riguarda la libertà di mettere in atto le condizioni per averlo (quindi di accoppiarsi) e il non essere da nessuno costretti all’aborto. Se si esce da questo, allora, va a finire che sarà incostituzionale la disoccupazione. Che è una cretinata tante volte ripetuta, con una citazione a cappero del primo articolo. Ma ora avvalorata dalla Consulta.(...)"

Prepotenza, Solo Piccola e Sciocca, E Pericolosa, Prepotenza

Un po' di tempo fa ho scritto: "(...) Forse nella figura "leaderistica" - e un po' populista - di questo Presidente del Consiglio l'italia ritrova la periodica tentazione di credere nel "seducente" obiettivo del "primato della politica". Tale espressione - che affascina perché sembra voler riportare "ordine" nelle dinamiche sregolate dell'economia - purtroppo il più delle volte è semplice copertura di poche idee e poca concretezza, surrogate da "volontarismo" e "velocità". 
L'uscita dalla crisi non può avvenire per improvvisazioni. Il cammino sarà lungo, e le scorciatoie e le furbizie (correre alle elezioni dicendo che questo Parlamento non lo lascia lavorare, per esempio?) non funzioneranno, o faranno danni.(...)" (http://mondiepolitiche.blogspot.it/2014/02/inizio-preoccupante.html)
Di seguito qualche riflessione su quanto sta succedendo, in questi giorni, e che temo confermi quello che poteva sembrare un mio eccesso di pessimismo.

FMM

Senza dubbio c'è del vero in questo ragionamento. Come è noto, anche l'inglese Gladstone ai suoi tempi sosteneva che «tra la propria coscienza e il proprio partito si deve scegliere il secondo». Tuttavia è singolare che il Pd renziano stia riscoprendo oggi una forma di «centralismo democratico» che riporta a una tradizione politica alla quale egli è estraneo. Ma c'è dell'altro. Nel momento in cui s'intende riformare il Senato, è pericoloso dare l'impressione di voler soffocare il dibattito e zittire le voci fuori dal coro: specie quando si tratta di abolire o trasformare radicalmente un'assemblea legislativa. Sotto questo aspetto, il caso Mineo diventa il paradigma di un errore politico.
 
di Stefano Folli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/FSjQNY
 
Chiti e Mineo fuori dalla commissione Istituzionale. Come definirebbe questa operazione del Pd?
«Una decisione di Renzi, eseguita da Zanda, perché oggi lo stesso premier l’ha rivendicata dalla Cina. A volte queste cose venivano dalla Bulgaria, ma evidentemente siamo ancora più esotici. È una scelta molto grave dal punto di vista dei rapporti interni del partito e del gruppo. In secondo luogo è un errore politico perché la sostituzione dei due senatori non impedisce che le contraddizioni si manifestino poi in aula, cioè quando si andrà davvero a votare la riforma del Senato. Il testo Boschi passerebbe in commissione, ma non in aula, dove le perplessità riemergerebbero, a maggior ragione dopo l’umiliazione costituzionale di mercoledì. E allora la mia domanda è: “Non è che questa sostituzione di Mineo nasconda le difficoltà di tenuta dell’accordo con Berlusconi? Avrebbe una grande maggioranza con Forza Italia per votare le riforme, quindi perché tanta prepotenza?»
 
Tredici senatori vicini alle sue idee si sono autosospesi dal partito. L’onorevole Corsini ha definito la vicenda «un’epurazione». Casson parla di «metodi militari».Qualcun altro dice che questo è il «renzismo».
«Non userei questi toni. Semplicemente è un momento di superficialità e di prepotenza di chi interpreta questa nuova fase. Un atteggiamento molto grave nella consuetudine e nella conversazione democratica. Ricordo quando i dissidenti erano i renziani. Noi stavamo votando tra mille incertezze il presidente della Repubblica, loro addirittura votavano un loro candidato: Sergio Chiamparino. Martedì Giachetti, il furbo renziano, in aula ha dichiarato di votare con le destre sulla responsabilità civile dei magistrati. E fa il vicepresidente della Camera, non fa il dissidente per conto Pd. Mi sorprende che dal “dissenso strategico” che lo ha portato a scalzare un intero gruppo dirigente del Pd, ora Renzi sia passato ad una logica di ortodossia vecchio stile e molto pesante».
 
Potrei chiedere come fa il governo a sapere che quei dodici milioni di italiani hanno votato specificamente per la riforma Renzi sul Senato. Potrei chiedere di quali elettori si parla. Perché se si parla di quelli che hanno eletto l'attuale Parlamento, allora il Premier attuale non è stato votato e Mineo sì. Se invece parla del voto per le Europee andrebbe ricordato che il pur immenso consenso non è comunque consenso politico diretto.
In ogni caso gli eletti, come abbiamo ricordato di recente in merito alla ondate di espulsioni dal M5S, hanno diritto alla libertà di opinione. Come del resto i militanti di partito - in questo caso, se parliamo al segretario del Pd, mi pare che andrebbe ricordato che in quel partito si è lavorato una vita (del Pd stesso e di varie generazioni di militanti) per affermare il diritto al dissenso interno, con conseguente richiesta di affrontare questo dissenso con pratiche il più possibile lontane dallo stalinismo.
Questi sono naturalmente dettagli. Si sa che i renziani credono che il potere che hanno in mano vada gestito in maniera decisionista. Chi dissente è palude, lo sappiamo.
Tuttavia, visto che la convivenza civile è fondata sulla salvaguardia - che nel suo piccolo riguarda la salvaguardia delle regole - non posso che segnalare che brandire l'investitura popolare come legittimazione ad agire forzando le regole costituisce una tentazione autoritaria. Non farò a Renzi il torto di accostarlo a Berlusconi, perché sappiamo che ha ambizioni e riferimenti storici molto più alti.
Nelle sue idee il paragone è Blair, o Obama. Peccato che anche la traiettoria di questi leader dimostri che il vasto consenso popolare non fornisce un passaporto con il destino. Blair è alla fine caduto nella trappola delle sue forzature (ricordate l'Iraq? In queste ore qualcosa di molto drammatico ce lo ricorda) e Obama in quelle della sua inefficacia.

Il Pd è, con merito, il partito italiano a più alto grado di democrazia interna. Non si capisce perché voglia compromettere questo primato, conquistato anche grazie all’insofferenza autoritaria per il dissenso interno degli altri due partiti maggiori, con un banale ma sintomatico gesto di prepotenza nervosa nei confronti di senatori contrari al progetto di riforma del Senato disegnato nell’incontro al Nazareno tra Renzi e Berlusconi. Il Pd è sembrato sin qui coltivare anche un peculiare senso delle istituzioni. Non si capisce allora perché abbia superficialmente scambiato una commissione parlamentare per una sede di partito, estromettendone i senatori come se fossero militanti tenuti a una disciplina interna e non a esponenti delle istituzioni che non devono rispondere a un segretario di partito ma ai cittadini nel loro complesso. Ecco perché Matteo Renzi e i dirigenti del Pd a lui più vicini hanno commesso un duplice errore «epurando» i senatori Mineo e Chiti dalla commissione Affari Costituzionali facendo così in modo che si aggregasse una pattuglia di 14 «dissidenti» che si sono autosospesi in segno di solidarietà con i loro colleghi messi fuori d’imperio. (...)
Stupisce perciò che proprio Renzi, protagonista di una battaglia democratica nel Pd che lo ha portato ai vertici del partito e del governo, e dal 25 maggio anche con un formidabile consenso elettorale, si mostri così irritato dal manifestarsi di una minoritaria «fronda» contraria a un progetto di riforma del Senato peraltro ancora vago nei dettagli. Stupisce, dopo aver ingaggiato una furiosa polemica con Grillo, che non voglia tener minimamente conto dell’imperativo costituzionale che non pone nessun vincolo di mandato ai parlamentari, e meno che mai un vincolo alle decisioni della segreteria di un partito. Se c’è un problema irrisolto tra una segreteria plebiscitata e un corpo parlamentare eletto quando gli equilibri nel Pd erano altri, la soluzione non può che essere politica, senza scorciatoie disciplinari, messe al bando e bavagli preventivi. La pratica punitiva della messa ai margini può dare l’impressione di un ostacolo rimosso, di un impedimento messo in condizione di non nuocere. Ma non fa un favore al Pd perché produce una confusione tra ammirevole rapidità «decisionista», capacità di convincere e cancellazione per decreto di ogni dissenso.

Ma certo mi stupisce che anche i più strenui difensori del valore dibattimentale a un certo punto crollino. Da ultimo leggevo l’articolo di poche ore fa di Roberto Giacchetti, che ieri da garantista ero molto contento che avesse guidato una fronda interna al PD per fare votare a favore della responsabilità dei giudici (seppure in un decreto omnibus molto arrangiato ma sic). Ecco che invece oggi molla l’idea che ci possa essere una discussione nel merito sulla riforma del Senato. “E innumerevoli volte Renzi ha affermato che il voto sulla sua persona sarebbe stato anche una formale approvazione del suo programma nel quale appunto c’era questa specifica proposta di riforma costituzionale.” O con Renzi o contro di Renzi, qualunque cosa questo significhi.
Ora, uno con un minimo di coscienza democratica, uno con il desiderio di confrontarsi come dire, uno ancora non fulminato sulla via di Rignano sull’Arno, può farmi capire qual è il valore politico in sé di una battaglia contro le minoranze? Qual è il valore politico di una mancata discussione sulla riforma del Senato che coinvolga anche voci dissenzienti come Mineo, Chiti o sì anche Mauro di Per l’Italia? (...)
Essere sul carro del vincitore, credo, generi uno strano effetto galvanizzante. Si va avanti spediti, come alla guida di una macchina di un videogioco automobilistico, o Grand Theft Auto. Intorno i pedoni, gli altri autisti, la gente che incrociamo, che attraversa le strisce, persino quelli che ci stanno a guardare sugli spalti… possiamo spazzare via tutto, senza nemmeno usare troppo il volante, investirli semplicemente spingendo ancora il piede sul pedale. Vogliamo dire che stiamo guidando il Paese avanti, rapidi, sicuri, perché ce ne freghiamo di qualunque cosa che ci passi vicino?


domenica 8 giugno 2014

"Impotente" Preghiera? Forse Non Solo...

Generalmente sono molto realista in  politica estera e non sono un fan di Papa Francesco, che mi pare avere aspetti non banali di antimodernità nel suo bagaglio culturale, ma va detto che in un paesaggio politico difficile come quello medioorientale, anche un momento di "impotente" preghiera forse può servire; perché magari nel frattempo ci sono i contatti informali, e qualcosa oggi si saranno detti; perché forse l'opinione pubblica di Israele e Palestina potrebbero esserne influenzati; perché in generale tutto può servire a cambiare il clima, e a "far vedere" che un dialogo è possibile. Niente illusioni, ma fra la retorica esagerata dei cronisti di oggi  ("giornata storica"...) e il cinismo esasperato che dice "non serve a nulla", forse questo è stato un passaggio non forte, ma importante. Non potente, ma comunque fatto di cui tener conto. La politica è strana, a volte. E anche la realpolitik non spiega tutto.  

Aperitivo d'autore: Israele, la paura, la speranza (11 giugno 2014)

Milano | 11 giugno 2014

Nell'ambito degli «Aperitivi d'autore», la Libreria Terra Santa propone:

Israele
La Paura La Speranza
Dal progetto sionista al sionismo realizzato

mercoledì 11 giugno 2014
Libreria Terra Santa - ore 18.30
via Gherardini, 2 Milano
Intervengono:

• Bruno Segre
, autore e giornalista

• Francesco Maria Mariotti, membro dell'associazione Sinistra per Israele

• Paolo Zanini, esperto di politica mediorientale della Santa Sede

Introduce Giuseppe Caffulli, direttore della rivista Terrasanta

venerdì 6 giugno 2014

6 giugno 1944: la Nuova Armada si presenta alle coste di Francia

Non so se è il modo più giusto per ricordare quel "meraviglioso" e terribile sbarco, che oggi celebriamo.

Però i versi di Vittorio Sereni - scritti "da lontano" dall'evento ("lontano dalla Storia", potremmo azzardare) possono dirci qualcosa della difficoltà di ricordare - oggi che siamo abituati ad altro tipo di guerre, oggi che non le "vediamo" più, quasi - quei giovani combattenti che persero la vita per noi e a cui dobbiamo così tanto

Possono dirci anche qualcosa della nostra difficoltà a essere protagonisti nella storia, oggi, come Europa.

Francesco Maria Mariotti

***

Non sa più nulla, è alto sulle ali 
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna. 
Per questo qualcuno stanotte 
mi toccava la spalla mormorando 

di pregar per l’Europa 
mentre la Nuova Armada 
si presentava alle coste di Francia. 
Ho risposto nel sonno: “È il vento, 
il vento che fa musiche bizzarre. 

Ma se tu fossi davvero 
il primo caduto bocconi sulla spiaggia normanna 
prega tu se lo puoi, io sono morto 
alla guerra e alla pace. 
Questa è la musica ora: 

delle tende che sbattono sui pali. 
Non è musica d’angeli, è la mia 
sola musica e mi basta”. 

***
(Vd. anche un breve commento e una breve biografia dell'autore qui 

martedì 3 giugno 2014

"Non seguirai la maggioranza per agire male" (lettura di "Principî e voti", di Gustavo Zagrebelsky)

In un momento storico in cui l'Italia sembra aver deciso di affidarsi (ancora!?) a un uomo solo al comando, e in cui "streaming" e "diretta" diventano i sostitutivi della rappresentanza (in questo - e forse anche in altro: nell'accettare per esempio il voto palese, in Parlamento, sulle richieste della magistratura - Grillo ha ottenuto una vera e storica vittoria, al di là delle percentuali delle Europee) è interessante riprendere in mano un testo non nuovissimo di uno di quei "professoroni", così additati all'opinione pubblica da alcuni esponenti di area governativa.
 
Leggere "Principî e voti" di Gustavo Zagrebelsky (Giulio Einaudi editore, 2005), anche nella sua "inattualità", a distanza di anni dalla uscita, impone - per così dire - una pausa di riflessione, invitandoci  a entrare nei luoghi, nei tempi e nei modi in cui opera quella particolarissima istituzione  - di cui l'autore è stato membro e presidente - che è la Corte Costituzionale. 

La "pausa di riflessione" non è solo un richiamo alla lettura; possiamo anche utilizzare questa espressione per dire la diversa dinamica che il dibattito e la decisione della Corte hanno - o dovrebbero avere, secondo il presidente emerito - rispetto al tempo presente, alle emergenze che la politica impone, o che alla politica stessa vengono imposte da mass-media, opinione pubblica e via così dicendo.
 
La distanza dall'esterno nei "processi" intentati davanti alla Corte è un percorso che da fisico si fa spirituale: il rito della "chiusura" del tavolo, aperto a ferro di cavallo durante le udienze, mentre diventa "quadrato, anzi cerchio (la figura che meglio regge il peso)" (p.13) quando i giudici si ritirano in camera di consiglio, segna quel processo di "messa a fuoco", appunto "presa di distanza", "sospensione del giudizio", che sono passaggi essenziali perché i giudici possano far valere - anche di fronte a se stessi - come unico criterio la fedeltà alla Costituzione.
 
E' questo il fulcro del breve e denso saggio di Zagrebelsky: la fedeltà alla sola Costituzione, di fronte a tutte le possibili "appartenenze altre", che inevitabilmente si fanno presenti alla coscienza e nel vissuto dei giudici; coscienza e vissuti che vengono vagliati di fronte a se stessi, e di fronte agli altri colleghi ("Ogni camera di consiglio, per nove anni, è perciò un esame, particolarmente severo nei primi tempi, quando prende forma la considerazione che accompagnerà il giudice, per tutta la durata della carica. Il passato conta solo per il nostro foro interno, per il giudizio che ciascuno di noi ha su se stesso, non per gli altri giudici che partecipano al collegio.", pp.63-64).

L'autonomia di giudizio - anche di fronte a proprie precedenti posizioni - sembra essere quasi - il paragone è azzardato, ma forse l'autore consentirebbe - il punto di arrivo di un percorso di ascesi, di continua negazione di sé. ("La camera di consiglio, oltre che un luogo fisico, è quindi anche e soprattutto un luogo spirituale: lo spazio di quella unità che di quindici fa uno", p.9). L'attenzione che Zagrebelsky porta ad alcuni dettagli procedurali, penso per esempio all'attenzione rivolta al problema delle dimissioni (pp.64-66, non a caso inserite in un capitolo dal titolo "Amor di sé"), servono a ribadire questo processo, questa attenzione che non è solo formale.

Il giudice deve saper prendere le distanze anche da quella "parti" di identità che sono più forti, come ad esempio l'appartenza religiosa, o etnica, o analoghe, "normalmente considerate naturali o, addirittura, virtuose: quelle che originano da cause interiori che non derivano da altri che da noi stessi"(p.93). Partendo dalla citazione della dissenting opinion del giudice Frankfurter in una causa in cui la Corte Suprema americana dichiarò l'obbligo scolastico del saluto alla bandiera come contrario alla libertà di coscienza (rovesciando un precedente orientamento), l'autore enuclea e cala nella realtà italiana la frase "noi giudici non siamo né ebrei, né cattolici, né agnostici" (pp.93-97), ribadendo la nettezza di una scelta laica che non può avere compromessi.

Ma come si giustifica politicamente una realtà così particolare, anche dal punto di vista della formazione, come la Corte? Qui Zagrebelsky offre un contributo che può servire - io credo - anche alle nostre discussioni quotidiane, richiamando la distinzione fra pactum societatis e pactum subiectionis (pp.25-26, poi ripresa in seguito più volte).
 
Il pactum societatis è il patto per cui si supera il conflitto interno alla comunità, si mette al bando la guerra civile, e si  dichiarano i valori che legano una società, quel minimo comune denominatore che fa sì che una collettività stia insieme, anche nel rispetto di alcuni valori fondamentali; il pactum subiectionis è la scelta di sottomettersi a un governo - a una maggioranza, in democrazia - al fine di poter arrivare a decisioni concrete e operative e regolare la vita della comunità. Il secondo è vincolato al primo, dipende dal primo.

Ma la politica che "regge" - diciamo così - il secondo patto valendosi del principio di maggioranza può ribellarsi al primo patto, attaccando - anche subdolamente - i valori che ci uniscono. Ed è di fronte a questi attacchi che il giudice costituzionale deve comunque saper continuare nella sua missione, educato - anche dalla forme dei riti, che oggi a volte non conosciamo o comprendiamo - a quella distanza che permette la chiarezza di giudizio e la libertà di giudizio. 

Quella distanza che fa sì che il giudice possa obbedire al monito divino "Non seguirai la maggioranza per agire male" (Es 23.2, riportato a p. 118): e, a conferma della centralità di questo monito, il titolo di uno dei capitoli fondamentali del libro (quello in cui vengono presentati i due pacta) è "Non tutto può mettersi ai voti".  

Non tutto può mettersi ai voti, e nessuna maggioranza può farci accettare ciò che è male. Questi i due pilastri della dignità del giudice costituzionale, e che andrebbero meglio compresi da tutti, proprio oggi.

Certo, alcuni toni e richiami del libro si possono più o meno condividere, e a volte il testo può apparire eccessivamente "severo", o "timoroso" e prudente rispetto ai cambiamenti che di volta in volta si sono proposti intorno al funzionamento della Corte, o alla sua composizione; ma il messaggio di Zagrebelsky appare comunque forte e attuale, e foriero di nuove riflessioni. 

Proprio quando appare urgente il momento della decisione, proprio quando troppo spesso ci si richiama facilmente al Carl Schmitt che caratterizza la politica con la dicotomia amico-nemico (si legga la nota 9 a p.38, dove si denuncia la banalità di siffatta estensione di un concetto bellico a tutta l'attività politica), ecco che allora deve essere più forte la attenzione al pactum societatis che ci lega, deve essere più forte il richiamo a ciò che ci unisce, rispetto a ciò che ci divide.  
 
Non certo per mantenere tutto uguale a se stesso, ma perché nella fretta del cambiamento non si perdano di vista i legami che ci dicono ciò che siamo come collettività. Al di là dei leader e delle urgenze -  mediatiche o reali - del momento.

Francesco Maria Mariotti