domenica 30 marzo 2014

Non Si Cambia In Fretta La Costituzione

Non sarà una riforma autoritaria, come denunciano alcuni esponenti in un appello pubblico, ed è bene vedere il testo che verrà proposto nei prossimi giorni, sperando chiarisca le idee confuse che sono girate in questi giorni. 

Però la fretta è cattivissima consigliera nelle riforme costituzionali: un conto è smontare il CNEL, un conto è l'"abolizione" del Senato. Ritoccare il Testo fondamentale della nostra Repubblica con approssimazione non porta alcun beneficio, e rischia di creare disequilibri nel funzionamento complessivo dello Stato.

Un tempo i partiti della sinistra erano fin troppo timorosi degli eccessivi poteri attribuiti ad alcune figure. Oggi il principale partito della sinistra sembra allinearsi senza troppe remore alla "fretta" del suo leader, addirittura richiamando il Presidente del Senato alla disciplina di partito...

Per riscrivere la Costituzione bisogna essere in grado di "trascendere se stessi, i propri interessi particolari" (vd. intervista del 2010 a Zagrebelsky, che riporto qui sotto). Oggi questa riforma sembra tutta segnata dall'urgenza del particolare, dell'interesse al successo di una strategia politica, della necessità di "far vedere" che si cambia in un qualsiasi modo.

No, non si tocca così la Carta di tutti. Fermiamoci a riflettere.

Francesco Maria

Ebbene le proposte oggi in discussione si muovono in una prospettiva molto diversa: l’obiettivo sembra molto più semplice, eliminare la seconda Camera o comunque farne un organo sostanzialmente inutile o inefficiente. Si pensi in primo luogo alla composizione che mette insieme la rappresentanza di interessi diversi se non contrapposti come quelli delle Regioni e dei Comuni, secondo un modello che non esiste in nessuna parte del mondo.
Si pensi, in secondo luogo,all’incertezza che c’è circa il “peso” che questi nuovi senatori avrebbero: possibile che un sindaco di un Comune di qualche migliaia di abitanti “pesi” come un Presidente di una grande Regione? Ma, soprattutto, i dubbi riguardano più in generale l’utilità di quest’organo, che in teoria dovrebbe consentire la prevenzione dei conflitti “legislativi” tra Stato e Regioni, quando contestualmente la proposta modifica del Titolo V di fatto azzera la potestà legislativa regionale, riconducendo alla potestà esclusiva dello Stato quasi tutto ciò che può essere oggetto di disciplina legislativa ed elimina la potestà legislativa concorrente delle Regioni. 

Professore, ma che cosa è una Costituzione?
«È lo strumento attraverso il quale ci diamo una forma di vita comune. Sottolineo il comune. Per darsi una Costituzione bisogna riuscire a trascendere se stessi, i propri interessi particolari. Benedetto Croce, all’inizio dei lavori dell’Assemblea costituente avrebbe voluto che si svolgessero sotto il segno del Veni Creator Spiritus. Aveva suscitato stupore che tale invocazione provenisse proprio da uno dei massimi esponenti della cultura laica. Ma non aveva nulla di clericale. Era la consapevolezza che ci si accingeva a un’opera che ha qualcosa di sovrumano. Fare, o cambiare, la Costituzione non è fare una legge qualunque. Oggi si crede che chiunque possa mettere mano alla Costituzione, che basti volere e poi scrivere quel che s’è voluto, come una legge qualunque.
Che ingenuità e presunzione! Se si fa così, si creano mostri, dei quali, prima o poi, ci si pentirà. Un tempo si pensava che le costituzioni fossero opera della Provvidenza (De Maistre) o dello Spirito incarnato nella storia (Hegel), cioè per l’appunto di forze sovrumane. Oggi si pensa altrimenti, ma resta la questione: la Costituzione è fatta per valere nei confronti degli stessi che la fanno. Bisogna credere che questi, soggetti particolari, siano capaci di uscire dal bozzolo dei loro interessi e provvedano per il bene di tutti».

Sul presunto rapporto tra vaccini e autismo

Un appello importante de Le Scienze - segnalato fra gli altri anche dal CIPMO - contro il rischio di regresso sul problema della vaccinazione.

Contro le campagne dettate da paura e superstizione, paura e superstizione che per la verità trovano spazio anche per l'incapacità degli scienziati e forse soprattutto di molti espondenti della medicina più alta a farsi vicini umanamente alle sofferenze, ad ascoltare e non solo a trattare le persone come "casi".

Purtroppo è anche vero che spesso chiediamo alla medicina risposte che non può dare; in questo c'è uno spazio e nu tempo di "autoeduzcazione" che ognuno di noi deve darsi, per poter evitare di chiedere rispote impossibili, magari "di senso" ("perché proprio a me?") che non possono essere date dagli scienziati, ma solo dalla propria coscienza.

Ciò detto, aderisco convintamente all'appello. Di seguito anche una breve rassegna stampa sulla questione.




Meno speranze di guarigione ci sono, più certi medici diventano potenti. «Lo so, lo so, non è cambiato niente, dopo quella “cura naturale”. Però mettetevi nei miei panni, l’Asl mi ha detto: si tenga suo figlio autistico così com’è. Al massimo, le prescriviamo un ansiolitico». E lei, signora, cosa ha fatto? «Ho sbattuto la porta in faccia al dottore dell’Asl. Sono andata a casa, ho cercato su Google: vaccini e autismo. Subito salta fuori il nome di Massimo Montinari. Sono andata da lui. A quell’epoca riceveva all’American Hospital di Roma».
Lui è grande e grosso, un dottore con il vocione e la divisa da poliziotto. Si è arruolato a quarant’anni, ma non ha mai lavorato sulla strada. Ufficialmente, gastroenterologo. Fa il medico della polizia, al Reparto Mobile di Firenze. Fa, soprattutto, quello che promette, speranze ai genitori dei bambini malati di autismo: «Ti ascolta. Ti lascia sfogare fino alle lacrime. Ha buona capacità oratoria. Ti ripete frasi come: “I nostri bambini, i nostri bambini...”. Dice: “Ne verremo fuori”. Come fosse un problema suo. Lo vedi così autorevole, che vuoi credergli.(...)
​La decisione della procura di Trani di aprire un’indagine sui possibili effetti del vaccino MPR contro morbillo, parotite (gli “orecchioni”) e rosolia sta facendo molto discutere, e ha suscitato una dura reazione della comunità scientifica in Italia. Le indagini sono state avviate in seguito alla denuncia di una coppia di genitori, secondo i quali i loro figli sono diventati autistici dopo la somministrazione del vaccino. Alla base della denuncia c’è un vecchio e fraudolento studio scientifico del 1998, da tempo smentito da tutte le più importanti organizzazioni sanitarie del mondo compresa l’OMS e ritirato dalla stessa rivista The Lancet, che lo aveva pubblicato alla fine degli anni Novanta. Il timore è che le nuove indagini possano portare a una riduzione dei vaccini in Italia contro parotite, rosolia e morbillo, malattia che può avere complicazioni molto gravi.(...)
La contestata ricerca di Wakefield del 1998 fu sostanzialmente affossata insieme alla reputazione del medico nel febbraio del 2004, quando il giornale britannico The Sunday Times pubblicò un’inchiesta dove si dimostrava un conflitto d’interessi del ricercatore, che aveva ricevuto 55mila sterline da un gruppo di persone alla ricerca di prove sulla presunta dannosità del vaccino MPR per una causa legale da portare avanti. Wakefield si difese dicendo di avere ricevuto quel denaro per un’altra ricerca, ma a quel punto gli editori di The Lancet dissero chiaramente che l’autore dello studio avrebbe dovuto fare presente il suo conflitto d’interessi prima di proporre il suo lavoro per la pubblicazione.
Altre inchieste negli anni seguenti accusarono Wakefield di avere falsato diversi dati e di averne omessi altri, per portare elementi a sostegno della sua tesi sull’autismo tra i bambini vaccinati. Il General Medical Council (GMC), che nel Regno Unito controlla la professione medica, avviò un’indagine contro Wakefield, accusandolo di avere agito “disonestamente e irresponsabilmente”, conducendo test non regolari e agendo sotto un grave conflitto d’interessi.
In seguito agli sviluppi del caso, nel febbraio del 2010 The Lancet fece una cosa con pochi precedenti: ritirò completamente e integralmente lo studio che aveva pubblicato nel 1998 da tutti i suoi archivi. Nel 2012 con una sentenza dell’Alta Corte britannica, Wakefield fu radiato e gli fu vietato di proseguire la professione medica.(...) 
Semmai ci fosse (ancora) bisogno di verificare il peso e l’influenza della cultura scientifica in Italia, ecco arrivare, da una parte, le dichiarazioni del procuratore della Repubblica di Trani, balzato agli onori delle cronache per aver avviato un’indagine sul possibile legame tra vaccino trivalente e autismo. Dall’altra, le notizie su una prossima discesa in campo di diverse Procure, indifferenti ai pronunciamenti di esperti, autorità sanitarie, dello stesso ministro della salute, che hanno ribadito come manchi, allo stato attuale, ogni evidenza scientifica per sospettare un nesso di causa-effetto.
Ogni richiamo, ogni appello alla ragionevolezza ha avuto lo stesso ascolto delle proverbiali prediche di San Giovanni Battista nel deserto. Di certo non sembrano aver scalfito le certezze del procuratore di Trani che ha affermato di essersi basato - nientemeno – sul presupposto «che diverse sentenze del giudice del lavoro, competente per i risarcimenti, hanno accertato che esiste un nesso di probabile causalità». Aggiungendo di aver affidato la scelta dei periti ai carabinieri del Nas che si rivolgerà a «esperti di profilo internazionale e assoluta imparzialità». Affermazione che lascia indovinare, perlomeno, una mancanza di fiducia nel rigore e nell’obiettività di quelli che hanno condotto una mole di ricerche indipendenti in tutto il mondo, senza riuscire a trovare nessun legame tra vaccini e insorgenza della malattia. Continuano, intanto, a imperversare sul web i leader di movimenti anti-vaccinazioni che gridano al complotto delle multinazionali farmaceutiche. Mentre si levano le voci di avvocati che plaudono alla giustizia penale che si è «accorta» della correlazione potenziale vaccini-autismi. Spunta persino un’inedita specializzazione in «diritto sanitario minorile», qualunque cosa voglia dire.
 Il caso aperto dall’inchiesta della Procura di Trani non è certo il solo a chiamare ad una riflessione su quello che è successo, su cosa sta succedendo tra scienza e magistratura, tra medicina e giustizia.

giovedì 27 marzo 2014

Presentazione di "Israele, la paura, la speranza" di Bruno Segre - Milano, 2 aprile 2014

Segnalo un evento che mi pare molto interessante; ho letto il libro di Bruno Segre - una raccolta di suoi articoli dal 1970 ad oggi - e credo valga la pena ascoltare la sua voce saggia e laica per riflettere in un'ottica di lungo periodo sul conflitto medio orientale.

Dal progetto di "nuova educazione" che si sperimentò nei kibbutz, all'Israele che scopre dentro di sé un pericoloso estremismo con l'assassinio di Rabin; dal mondo dei fondamentalismi religiosi che sembravano negli ultimi anni aver preso la direzione degli eventi e del "vocabolario" medioorientale alla speranza (ora forte, ora un po' più timida) della presidenza Obama.

Il "racconto" - mi permetto di chiamarlo così - di Segre è una riflessione completa sulle stagioni del sionismo, un riassunto di storia nel quale provare a "specchiarsi" per capire anche - al di là del conflitto israelo -palestinese - dove stiamo andando, verso quale possibile civiltà l'apparente disordine di questi anni ci sta portando

Francesco Maria Mariotti

***
Libreria Claudiana e Sinistra per Israele,
in occasione dell'uscita del libro di

BRUNO SEGRE
 , 


ISRAELE LA PAURA LA SPERANZA
Dal progetto sionista al sionismo realizzato

Edito da Wingsbert House

Vi invitano a partecipare all’ incontro con:

Anna Momigliano, Giornalista e scrittrice
Luciano Belli Paci, Sinistra per Israele Milano
Stefano Jesurum, Giornalista e scrittore

«Mentre seguivo con partecipazione le vicende politiche e culturali di Israele e del Medio Oriente, mi sono reso conto che nella cultura politica coagulatasi 
attorno al progetto sionista erano presenti ab origine, e ancora oggi continuano a fronteggiarsi, due linee di pensiero e di azione ben distinte. Una 
di esse fa leva prevalentemente sulla speranza, l’altra sulla paura. (…) 
Israele riuscirà ad assicurarsi un futuro soltanto se saprà mettere la sordina alla paura e restituire voce e dignità alla speranza».

Sarà presente l'autore

MILANO
Mercoledì 2 aprile 2014, ore 18.30

 
 
LIBRERIA CLAUDIANA
Via Francesco Sforza, 12

mercoledì 26 marzo 2014

La Guerra Senza La Guerra

A proposito di guerra che cambia veste; o che - meglio - appare "impossibile", come appare "impossibile" la politica nel mondo contemporaneo; due articoli per riflettere: uno sulla tensione finanziaria che segna questo dramatico passaggio con la Russia, e che sembra essere la principale leva di pressione su Mosca. Il secondo per riflettere sull'"arma" delle sanzioni (valide? non sempre; se sì, non da sole...)

Buona lettura

Francesco Maria

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Ora che la fuga di capitali è iniziata, la Russia teme il peggio. In questo caso, lo scenario più avverso è rappresentato da un totale isolamento finanziario da parte degli investitori internazionali. La paura di un incremento nelle sanzioni dopo l’annessione della Crimea, finora il punto più alto della crisi ucraina, è significativa. Dopo il congelamento di fondi, dopo lo stop alle transazioni per i correntisti di date banche, potrebbe arrivare lo stop ai contratti in essere e chissà cos’altro. L’obiettivo è quello di indebolire Mosca. (...)

L’escalation della crisi ucraina potrebbe avere il suo impatto maggiore su un altro versante, quello del rating sovrano. Ieri è stata Fitch a porre l’attenzione su questo punto, dopo gli avvisi di Standard & Poor’s e Moody’s. Il rischio di un prolungato periodo di tensioni fra Occidente e Russia, infatti, potrebbe infatti avere conseguenze sui rating russi, che sia quello governativo o che sia quello delle imprese. Se così fosse, per la Russia e per le sue società private, comprese le banche, sarebbe assai più oneroso scendere sui mercati obbligazionari. Non è un caso che ieri il ministero russo delle Finanze abbia cancellato l’asta di titoli di Stato settimanale. «Le condizioni di mercato non sono favorevoli», ha spiegato in un comunicato stampa. Per questa settimana è stato deciso così, ma il tempo è tiranno. Ed è improbabile che tutte le aste da qui alla fine dell’anno vengano cancellate. Prima o poi la Russia dovrà affrontare il mercato obbligazionario. In quel caso, gli investitori potrebbero chiedere rendimenti sensibilmente maggiori o, peggio, disertare l’evento. Uno scenario che Mosca vuole evitare a tutti i costi ma che, se non ci fosse un appianamento delle tensioni, rischia di diventare realtà entro poche settimane.


(...) Dalla fine della Guerra fredda le sanzioni mirate, a differenza di quelle indiscriminate, si sono sviluppate come strumenti sempre meno “punitivi” e sempre più di “pressione” per convincere leadership e governi avversari a cambiare una determinata politica. Il loro obiettivo è diventato principalmente minacciare e dare una specie di avvertimento agli avversari: per esempio indebolendo il loro potere economico – come la capacità di fare investimenti – o incrinando le loro alleanze con i più stretti collaboratori. In genere chi ha applicato le sanzioni mirate negli ultimi anni lo ha fatto in maniera progressiva, cioè adottando diversi round sanzionatori di intensità sempre maggiore, mantenendo aperta la possibilità di trovare una soluzione alla crisi con la diplomazia.

Questo è quello che è successo per esempio con le sanzioni applicate dagli Stati Uniti a esponenti del mondo politico ed economico della Russia tra il 17 marzo – giorno in cui Putin ha firmato un decreto per riconoscere la Crimea “stato indipendente e sovrano” – e il 21 marzo - giorno della firma del trattato di annessione della Crimea alla Russia. Con il primo giro di sanzioni, considerato piuttosto blando, il governo americano sperava probabilmente di spingere Putin a fare un passo indietro in Crimea e a rinunciare all’annessione; o in alternativa aveva capito che Putin non avrebbe rinunciato ma non aveva altri strumenti per rispondere (l’intervento armato per la Crimea è sempre stato fuori discussione dall’inizio). Nei giorni successivi il segretario di stato americano, John Kerry, ha continuato a sentire a cadenza giornaliera il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, minacciando di intensificare le sanzioni se non ci fosse stato un cambio di atteggiamento da parte della Russia. Di fronte al rifiuto russo di accordarsi ai termini degli Stati Uniti, Obama ha approvato un secondo giro di sanzioni – questa volta molto più duro e potenzialmente più efficace – che ha colpito la “cerchia ristretta” degli alleati di Putin, ma senza colpire direttamente Putin o Lavrov.

In pratica gli americani hanno dimostrato che le loro minacce devono essere prese sul serio, ma di nuovo non hanno chiuso la porta alla diplomazia: ora, per esempio, stanno usando la minaccia di estendere le sanzioni ad alcuni settori dell’economia russa nel caso in cui Putin ordinasse un’azione militare in Ucraina. Come è successo anche in passato, è troppo presto per dire se le sanzioni americane ed europee contro la Russia funzioneranno o meno: i precedenti ci dicono però che in entrambi i casi sarà una faccenda tutt’altro che lineare e di facile lettura, in cui incideranno svariati fattori, diversi tra loro e a volte imprevedibili, oltre alle sanzioni stesse.

mercoledì 19 marzo 2014

Verso La Guerra: Scivolare O Scegliere?

Probabilmente non siamo più abituati alle dinamiche da guerra fredda, alla tensione portata fino al limite di rottura, al braccio di ferro giocato su territori altri. 

Si possono adottare diversi punti di vista per leggere gli avvenimenti del conflitto russo-ucriano, e quindi russo-occidentale: agli estremi opposti quello della legalità internazionale (si legga l'articolo del Post che spiega perché il referendum in Crimea è da considerarsi illegale e non è assimilabile ad altri esempi di deliberazioni autonomistiche) e quello realpolitik (in parte sembra essere questa la scelta dell'articolo di AnalisiDifesa, che mostra "comprensione politica" per le scelte putiniane). 

Ovviamente le visioni che non tengono conto e delle ragioni della forza (economica, politica, militare), e delle ragioni del diritto (ineludibili per tentare di "ingabbiare" la pura forza, ed evitare gravi precedenti) sono fallaci. Non possiamo più accettare la pura forza, non possiamo illuderci di definire in astratto norme senza avere la potenza necessaria per difenderle.

E' difficile, sempre, capire quando si sta passando un limite invalicabile, quando va detto a gran voce che "vale la pena morire per Sebastopoli (o per Kiev)". Forse senza quasi accorgercene, lo stiamo passando, o lo abbiamo già valicato.

Spero di sbagliare, ma se la situazione di tensione e di prepotenza delle dinamiche scelte dalla Russia per far valere ragioni sul territorio della Crimea non si muteranno in brevissimo tempo in uno stile più dialogante, potrebbe essere inevitabile - al di là di qualsiasi altra considerazione storico - politica (la strana cessione della Crimea all'Ucraina da parte di Kruscev, la difesa delle minoranze russofone, e via così dicendo) - decidere un approccio più duro.

Non è più il tempo delle "guerre totali" (per fortuna...), ma al tempo stesso non si possono evitare a tutti i costi i conflitti, né "scivolare" verso lo stato di guerra, trovandosi impreparati al momento della prova. 

Meglio prepararsi a tutto, senza utilizzare la retorica del contrasto a un novello "impero del male" o della "guerra umanitaria", ma difendendo interessi ed "onore" di un occidente che non può continuare all'infinito la "ritirata" dalla scena internazionale. 

Ne vanno dei nostri spazi di movimento, di mercato, di libertà.

Speriamo non sia necessario, perché nessuna guerra è indenne da ricadute anche interne che possono sfuggire al controllo, e la nostra democrazia non ha necessità di altre tensioni.

Ma se necessario, si sappia approfittarne.

FMM

Domenica 16 marzo gli abitanti della Crimea hanno votato per decidere se annettersi o meno alla Russia: il 97 per cento dei votanti, ha detto il responsabile delle operazioni elettorali, si è espresso per il sì e quindi da oggi il governo locale della Crimea e il governo russo stabiliranno tempi e modi per la formale annessione. L’affluenza è stata dell’82,71 per cento. Molti abitanti filo-ucraini della Crimea non sono andati a votare, perché considerano il referendum “illegale”: la stessa posizione è stata espressa negli ultimi giorni dal governo di Kiev, che come Stati Uniti e Unione Europea ha ribadito in più occasioni che non avrebbe riconosciuto il risultato del referendum.
Per stabilire la legalità o meno del voto di domenica, in molti hanno paragonato la situazione della Crimea a quella della Scozia, dove il 18 settembre 2014 si deciderà tramite referendum l’indipendenza dal Regno Unito. Come ha fatto notare lo stesso Foreign Commonwealth Office britannico, ci sono delle sostanziali e importanti differenze tra il caso del referendum sulla Crimea e quello che si terrà sull’indipendenza della Scozia, che riguardano, tra le altre cose, l’atteggiamento del governo centrale e la garanzia per gli abitanti locali di esercitare il proprio diritto di voto in modo libero e indipendente. Ed è interessante porsi queste domande – le domande generali utili a verificare il grado di correttezza e regolarità di un’elezione – e vedere quali risposte si trovano in Crimea


L’Europa e gli Stati Uniti sono perplessi. Davanti alla Crimea, da sempre legata a Mosca e solo nel 1954 ceduta all’allora repubblica sovietica dell’Ucraina, né il cauto Obama né la prudente signora Merkel, alzeranno il tiro, tanto più che gli americani sono, come la Teresa Batista del vecchio romanzo di Jorge Amado, «stanchi di guerra» e gli europei legati al petrolio e al gas russi (Svezia e Gran Bretagna pressano per sanzioni dure, Spagna e Italia per sanzioni wafer, la Germania media). Ma se Putin marciasse verso ovest e il confine Nato della Polonia, malgrado tutte le paure e le riluttanze occidentali, qualche cosa si romperà. 

Polonia e Svezia hanno scelto il riarmo, a Parigi e Londra si ripensa ai tagli al bilancio della Difesa, i Paesi baltici sono allarmati ed è forse prematuro, da noi, interrogarsi sull’abolizione dell’Aeronautica come ha fatto ieri la ministro della Difesa (dovremmo anche - per logica conseguenza tattica - abolire carri armati, artiglieria e, di conseguenza, le Forze armate: opinabile scelta in questo clima). La crisi è dunque in mano a Putin, se ordina l’escalation apre scenari imprevedibili. 


L'arma finale degli Stati Uniti nella nuova Guerra Fredda con Mosca potrebbero non essere le sanzioni economiche agli oligarchi o i cacciabombardieri Stealth, ma l'inesauribile miniera dello shale gas. In grado di tagliare il cordone ombelicale che lega l'Unione Europea alla Russia. Visto che gli States sono diventati esportatori netti di petrolio (tanto da poterlo presto vendere anche agli Emirati Arabi, e non è fantascienza) sta crescendo il pressing bipartisan di repubblicani e democratici per cercare di sottrarre il Vecchio Continente dai ricatti russi sulle forniture di gas. L'Unione europea dipende per il 30% delle sue forniture dal gas russo, ma tale percentuale sale drammaticamente nei Paesi dell'ex Patto di Varsavia, per esempio al 70% nel caso dell'industrializzata Polonia (che però sta puntando a sua volta sullo shale gas per emanciparsi da Mosca) e addirittura al 100% per la Bulgaria.
 
di Enrico Marro e all'interno Angela Manganaro - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/2LGSj
 
Nel suo «Lungo Telegramma» di 5.500 parole, già nel 1946 George Kennan preannunciava i pericoli delle ambizioni sovietiche, esortando tuttavia l'amministrazione americana ad evitare il confronto militare. Il contenimento dell'Urss, consigliava, sarebbe stato più proficuo: essendo la strategia staliniana una continuazione di quella russa, prima o poi anche il sistema sovietico sarebbe appassito come quello zarista.
Forse globalizzazione e web oggi rendono superfluo un diplomatico dalle capacità straordinarie come Kennan. In ogni caso il dubbio fondamentale sulle ambizioni di Putin non è meno profondo del mistero di Stalin, allora: dove vuole arrivare? La partita di Vladimir Putin si chiude in Crimea o è stato solo il primo passo del ritorno di un'antica politica di espansione europea? Basta Sebastopoli o il piano prevede l'uso della forza militare nel resto dell'Ucraina Orientale e ovunque vivano cospicue minoranze russe?


«Penso che sia ovvio che l’espansione della Nato non ha niente a che fare con la modernizzazione dell’Alleanza stessa o con la necessità di rendere più sicura l’Europa. Al contrario, rappresenta un grave fattore di provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. E noi abbiamo il diritto di chiedere: contro chi si sta svolgendo questa espansione?». Così chiedeva Putin nel febbraio 2007. E nel marzo 2014 ha replicato: «Noi capiamo cosa sta succedendo, ci rendiamo conto che queste azioni (la rivoluzione del 2004 a Kiev) erano dirette contro l’Ucraina e la Russia e contro l’integrazione eurasiatica. E tutto questo mentre la Russia si è sforzata di avviare un dialogo con i nostri colleghi in Occidente. Questi hanno mentito molte volte, preso decisioni alle nostre spalle, ci hanno posto davanti a un fatto compiuto. Questo è accaduto con l’espansione della Nato verso l’Est, così come la diffusione di infrastrutture militari alle nostre frontiere, con l’implementazione del sistema di difesa missilistico. A dispetto di tutte le nostre apprensioni il progetto sta andando avanti”.


(...) Paesi mossi probabilmente da interessi diversi ma convergenti, sia strategici che economici. Il primo obiettivo conseguito è l’aver menomato o forse compromesso il progetto di Vladimir Putin di costituire con le repubbliche dell’ex Urss quell’Unione Euroasiatica considerata un grande competitor dell’Occidente e del mondo arabo. Un grande blocco di libero scambio economico e finanziario con oltre 230 milioni di abitanti, ricchissimo di materie prime che dovrebbe venire varato nel gennaio prossimo e di cui è certo non farà parte l’Ucraina con il suo peso demografico ed economico. Sempre sul piano economico la determinazione dei nuovi “padroni” di Kiev ad associarsi alla Ue consentirà a chi ha capitali da investire (guarda un po’, soprattutto i tedeschi) di mettere le mani sull’economia ucraina e soprattutto sui distretti industriai acquistabili con poca spesa viste le condizioni economiche del Paese. Certo gli apparati sono per lo più obsoleti ma gli investimenti per il loro aggiornamento verrebbe compensato da manodopera qualificata a basso costo e da un mercato di quasi 50 milioni di persone che offrirebbe nuovo “spazio vitale” all’espansione dell’economia tedesca sottraendolo alla Russia(...)

In termini strategici l’ipotesi che l’Ucraina entri nella NATO rappresenta un incubo per Mosca. A chi ritiene che questa possibilità non sia credibile vale la pena ricordare che, per non lasciare dubbi circa gli obiettivi del nuovo governo ucraino, il partito Patria (filo anglo-americano) guidato da Iulia Timoshenko ha depositato in Parlamento un disegno di legge per l’adesione alla Nato la cui approvazione sarebbe dirompente quanto l’annessione della Crimea alla Russia. L’Alleanza Atlantica del resto non si è certo fatta pregare per esprimere il pieno sostegno a Kiev e il rafforzamento della cooperazione militare, assumendo così una posizione di netta contrapposizione nei confronti di Mosca rafforzata dallo schieramento di forze aeree (F-16, F-15 e Awacs) in Polonia e Repubblica Baltiche. Impossibile poi non notare che l’adesione dell’Ucraina alla Nato consentirebbe agli statunitensi di portare “scudi antimissile”, radar e sensori alle porte di Mosca e se venisse rispettata l’integrità territoriale del Paese, includendovi quindi la Crimea, i russi perderebbero le basi aeree e navali di Sebastopoli, candidate in futuro ad essere utilizzate dalla sesta Flotta statunitense che da tempo incrocia con regolarità nel Mar Nero utilizzando i porti bulgari, turchi e rumeni. Un contesto che priverebbe la Russia della profondità territoriale strategica e la esporrebbe ulteriormente sul fronte meridionale già minacciato dai movimenti jihadisti del Caucaso. Le basi in Crimea costituiscono inoltre il trampolino per la proiezione strategica nel Mediterraneo, in Medio Oriente e nell’Oceano Indiano e soprattutto garantiscono il sostegno al regime siriano di Bashar Assad.

Quanto sta accadendo in Ucraina rappresenta un attacco diretto alla Russia e non si tratta di fare il tifo per Kiev o Mosca o di decidere se ci è più simpatica la treccia bionda della Timoshenko o il machismo dello “zar” Putin. Meglio valutare attentamente qual è la posta in gioco e come stiamo compromettendo la stabilità in Europa attaccando la Russia e creando i presupposti per la destabilizzazione della Bielorussia, il cui regime rappresenta l’ultimo alleato di Mosca in Europa.

Difficile pensare che Putin accetti di perdere l’influenza sull’Ucraina senza cercare quanto meno di contenere i danni garantendosi il controllo della Crimea, forse delle province orientali ucraine in gran parte filo-russe e con esse la possibilità di continuare a destabilizzare Kiev. Certo con “l’operazione Maidan” gli Stati Uniti si sono presi la rivincita dopo aver subito il protagonismo russo rivelatosi vincente nelle crisi siriana e iraniana e Barack Obama può oggi accusare Putin di “essere dalla parte sbagliata della storia” mostrando così una sorpresa per la reazione militare russa in Crimea che sembra essere comune a tutto l’Occidente.(...)

Ungheria, Ucraina, Crimea, Russia, URSS (Ferenc Koszeg su laStampa)

Il 23 ottobre 1956, all’inizio della protesta degli studenti ungheresi che nel giro di poche settimane sarebbe stata schiacciata dai carri armati sovietici, Ferenc Koszeg aveva 17 anni: “Ero entusiasta della rivolta, ero già un attivista politico, frequentavo il Circolo Patofik. Ricordo una riunione a giugno di quell’anno, c’erano migliaia di persone, intellettuali comunisti critici del modello sovietico, giornalisti che volevano la libertà di stampa, scrittori che poi sarebbero finiti in cella, c’erano speranza e ottimismo. Eravamo tutti lì, in quell’edificio dove adesso c’è una banca, allora era un palazzo militare”. Kszek mostra un’elegante struttura mitteleuropea dall’altra parte della strada e poi torna a sedersi alla scrivania dello studio pieno di libri, Beethoven, Chagall, Bela Bartok, Lukacs, Borges, Eisenstein, “Il Pendolo di Foucault” di Umberto Eco, l’ultimo rapporto di Amnesty International. Accanto al computer acceso e al volume di Van Istvan, “In Memoriam”, ci sono i quotidiani degli ultimi giorni, la crisi ucraina, la Crimea, la sfida di Putin. Presente e passato si sovrappongono per lui che nell’ultimo mezzo secolo ha visto la prigione, la clandestinità quando stampava in proprio il primo samizdat ungherese (i giornali antiregime), la caduta del muro di Berlino e, nello stesso anno, la nascita della sua organizzazione non governativa, l’Hungarian Helsinki Commitee, un centro studi sui diritti umani. 

A Budapest c’è chi in questi giorni teme che dopo l’Ucraina possa toccare all’Ungheria. Vede davvero questo rischio?

“Il problema non è se Putin possa occupare o meno l’Ungheria. Il problema è che il nostro governo sta cercando un’alleanza con la Russia per aggirare le critiche dell’Europa sui diritti umani e sul tentativo in corso di distruggere la cornice istituzionale dello Stato di diritto. L’aspetto interessante è che il governo ungherese vorrebbe rimandare indietro le lancette della storia non nel nome del comunismo ma della destra, sia pure una destra politicamente assai simile al comunismo. La gente ha la memoria corta, ma dovrebbe ricordare che il nome originario del fascismo era nazionalsocialismo”.  

Ci racconti il suo 1956.

”Cominciò come una grande manifestazione di solidarietà con la Polonia che si era ribellata a Poznan e si trasformò subito in una cosa nostra, gridavamo ”Rakosi vattene” contro il dittatore ungherese. La sera del 23 ottobre c’erano già spari per le strade, c’erano ragazzi che fronteggiavano i tank, io tornai a casa ma la gente occupò l’edificio della radio. Dopo tre giorni sembrò che i russi se ne fossero andati, che ci fosse un accordo, che con Imre Nagy come premier avremmo organizzato libere elezioni. Invece i russi tornarono. Ero uno studente di letteratura allora, attaccavo sui muri volantini fatti a mano con scritto ”Russia via”. Mi arrestarono, fui fortunato perchè dopo aver provato invano ad arruolarmi come spia mi trattennero solo due mesi. Dentro però imparai molto, capii per esempio quante diverse motivazioni ci fossero dietro la protesta anti-sovietica: ero convinto che la rivolta fosse appannaggio dei democratici ma in carcere mi accorsi che accanto a veri democratici c’erano fascisti con la f maiuscola. Ci ho ripensato in questi giorni seguendo i fatti di Kiev”.   (...)

Dopo il referendum in Crimea la situazione sembra peggiorare di ora in ora. A cento anni dallo scoppio del primo conflitto mondiale potremmo ritrovarci in guerra?

”Una terza guerra mondiale è sempre possibile, soprattutto considerando che se durante la guerra fredda la deterrenza ci metteva al riparo oggi siamo paradossalmente più scoperti. Il rischio vero in Ucraina è che la storia non finisca in Crimea ma dilaghi in una guerra civile tra la parte occidentale del paese e quella orientale. Onestamente non sono molto ottimista. L’Ucraina è grande e povera, l’Europa, anche se volesse, non potrebbe mantenerla e garantirle un cambio nello standard di vita mentre la Russia può almeno provvedere all’energia...”

 Cosa è andato male nel rapporto tra l’Europa e i suoi connazionali, che sembrano così delusi da Bruxelles da rimpiangere il passato?

”Il problema principale è il lavoro, molti posti di lavoro sono svaniti, le aziende sono state privatizzate e i nuovi padroni vogliono solo impiegati produttivi. Almeno un milione di persone sono rimaste disoccupate nei primi anni ’90 e oggi è facilissimo essere licenziati ma difficilissimo essere riassunti, specie se hai più di 40 anni. Nessuno ricorda però che sotto il socialismo la piena occupazione era una farsa perché chi non lavorava era costretto a fare cose come pulire le strade per pochi soldi e poi magari andare a dormire in prigione. Oggi in realtà la retorica del governo ungherese va in quella direzione, se non hai lavoro devi accettare i lavori comunali pagati meno del minimo salariale. E’ il governo a pompare la propaganda della colonizzazione da parte dell’Europa. A volte penso che Bruxelles ci dovrebbe sospendere dall’Unione, farci provare cosa significa stare fuori dal mercato europeo, dalla libertà di movimento, lasciarci alla nostra indipendenza per farci capire. Alla fine però tra la disillusione per l’Europa e l’esperienza del comunismo russo non ci sarà nostalgia che tenga, neppure chi si lamenta ha davvero voglia di tornare dai russi”.

F35 Sì, F35 No, Comunque Abbiamo Bisogno Di Aerei

Di seguito presento una breve rassegna stampa, con articoli anche non scritti negli ultimi giorni, sulla questione F35. E' comprensibile che in una situazione economica grave come quella che stiamo vivendo si pensi di tagliare su un comparto che a molti appare inutile, se non addirittura odioso, per alcuni.  In fondo l'alternativa "burro/cannoni" è di quelle che abbiamo imparato tutti, in qualche modo, come base dell'economia. 

Il calcolo però è inevitabilmente più complesso, e l'investimento nel settore militare - per quanto oneroso - è ineludibile, per uno stato che voglia farsi carico della propria sicurezza e delle proprie responsabilità nel mondo. 

Giusto discutere se il programma F35 sia quello più adatto, ma che siano quelli o altri aerei, un aggiornamento delle nostre dotazioni sembra necessaria. 

Perciò meglio evitare false alternative: non salveremo il nostro stato sociale rinunciando a migliorare la nostra capacità di fare la guerra. Anche perché forse presto saremo chiamati di nuovo alla prova.

Francesco Maria Mariotti


Si può ovviamente discutere se, quanto e come l’utilizzo delle Forze armate, in particolare della componente aerea, sia stato utile o no per tutelare gli interessi nazionali in questa o quella missione, o a promuovere il ruolo dell’Italia in ambito Nato ed Ue e il rapporto con gli alleati. Ma di certo, se si rottamano 253 caccia da attacco al suolo tra Tornado, AMX e AV-8B, ma non si acquisisce un sostituto, l’Italia resta senza aeronautica. E resta anche senza la possibilità di utilizzare l’aviazione imbarcata della marina, ed in particolare la Garibaldi e la Cavour che diventerebbero delle portaerei senza aerei. Occorre ricordare che in Afghanistan per sei anni, dal 2007 in poi, anche l’esercito ha beneficiato di un significativo e costante supporto dei caccia italiani quando ha dovuto rispondere alle imboscate della guerriglia o garantire la sicurezza delle vie di comunicazione - con oltre tremila sortite aeree e 8.450 ore di volo in teatro da parte di Tornado e AMX. Uno scenario di sostegno aereo a truppe di terra non si può affatto escludere in futuro, né si può escludere l’impiego di velivoli dalle portaerei nel caso non vi fossero basi disponibili a terra. L’acquisizione degli F-35 per aeronautica e marina è pertanto intimamente legata alla capacità di usare il potere aereo quando necessario. (...)
Se si ritiene che l’aeronautica e l’aviazione della marina siano ancora utili, e che debbano continuare a svolgere il ruolo svolto negli ultimi 24 anni, allora occorre ragionare su possibili risparmi che non intacchino la capacità operativa delle Forze armate. Un ragionamento già iniziato con la riforma approvata nel dicembre 2012, che prevede entro il 2024 un taglio del 30% delle infrastrutture militari, specie le piccole caserme oggi inutili, e una riduzione di 43.000 unità del personale del Ministero della Difesa. Riforma di fatto tradita dal decreto attuativo approvato dal Parlamento a inizio 2014. È quindi meritoria l’intenzione di riavviare la razionalizzazione della spesa militare a partire dalla dismissione di centinaia di caserme e presidi territoriali, inutili per le missioni che le Forze Armate devono e dovranno svolgere. Altrettanto meritoria è l’intenzione di elaborare un Libro Bianco della Difesa che discuta compiti, livello di ambizione, linee di sviluppo e necessità di procurement dello strumento militare in un’ottica europea e di medio periodo. Senza tale riforma e razionalizzazione, si rischia in ambito militare non solo di avere un’auto d’epoca inutilizzabile, ma di pagare anche i costi del personale in divisa che gli fa la guardia in garage.

Ora veniamo alle questioni più profonde. Una volta accettato che tutti i Paesi al mondo hanno un’aeronautica militare equipaggiata con aerei moderni, la domanda riguarda l’opportunità di acquistare l’F-35/Lightning II Joint Strike Fighter, di solito chiamato solo F-35 o JSF.
Innanzitutto, l’attuale flotta aeronautica italiana è composta principalmente da tre velivoli:
  • il Tornado Panavia, progettato nel 1968 e in costruzione dalla fine degli anni ’79;
  • l’AV-8B Harrier II plus, progettato negli anni ’70 come evoluzione di un precedente modello e costruito a partire dagli anni ’80;
  • l’Eurofighter Typhoon, progettato a inizio degli anni ’80 e iniziato a costruire a partire dalla metà degli anni ’90.
Facciamo una discussione semplice, così che chiunque la possa capire. Qualcuno si ricorda la FIAT Ritmo? Ecco, quelli sono i nostri Tornado. Qualcuno si ricorda la FIAT 127? Quelli sono i nostri Harrier. La Fiat Brava? I nostri Eurofighter.
E’ chiaro dunque che bisogna rinnovare le nostre flotte, a meno di non voler credere che gli attuali mezzi a nostra disposizione siano all’avanguardia. La domanda, dunque, è sul come rinnovare.
Signor PresidenteSignori Ministri, di fronte alle tre possibilità, Competere esprime la propria perplessità sull’ipotesi politicamente più semplice, la prima, che apre però ad enormi rischi. In primis, perché determinerebbe una cannibalizzazione delle risorse a disposizione delle Forze Armate nella falsa prospettiva di un loro potenziale ma inverosimile reimpiego in altri comparti dell’economia italiana. Perciò Competere condivide la linea adottata del Ministro Pinotti, che proprio ieri ha ammonito: “guai se passa l’idea che la Difesa sia il bancomat da cui attingere risorse”.

Per questo Vi chiediamo un intervento coraggioso ed inequivocabile, un messaggio, dalle Forze Armate al cittadino, che faccia presente al Ministero dell’Economia e delle Finanze che tagliare unicamente o in gran parte le spese della Difesa significherebbe colpire in modo irrazionale anche capacità essenziali, oltre a cauterizzare uno dei pochi settori in crescita della produttività italiana.
Generale, perché si pensa nuovamente di tagliare il programma F-35?

I motivi sono ideologici, più che economici. Tanto è vero che sono in molti a sostenere che dovremmo acquistare Eurofighter e non F-35. A loro dico che: a) sono due velivoli con caratteristiche diverse, non intercambiabili, il primo serve a difendersi, il secondo ad attaccare; b) Gli F-35 costano, a inizio programma, molto meno che gli Eurofighter al termine della produzione e hanno anche minori costi operativi per ore di volo; c) È vero che gli Eurofighter sono prodotti da un consorzio di quattro Paesi tra i quali c’è anche l’Italia con una quota del 21%. Proprio questo significa che se oggi ne ordinassimo un quantitativo spendendo ad esempio 100 – e gli altri Stati del consorzio non facessero lo stesso in proporzione -, noi avremmo sì un guadagno di 21, ma il restante 79 andrebbe ad altri Paesi. Con gli F-35 invece si è sul mercato in modo aperto, per un numero di commesse che potrebbe essere potenzialmente estesissimo. Non mi stupirei di scoprire che alla fine del programma Jsf, facendo i conti, avremmo avuto lavoro per una cifra superiore a quella spesa per acquistare i nostri velivoli.
Quando il governo Monti nel 2012 tagliò il numero di velivoli da 130 a 90 portò a casa una minore spesa di circa 3,5 miliardi. In conseguenza – come previsto dagli accordi tra governi e aziende partner – il numero delle ali affidate all’opera di Alenia è sceso da 1200 a 800 unità. Con un mancato introito di oltre 4 miliardi. Dimezzare l’ordine degli aerei adesso che l’Italia ha già investito 1,9 miliardi in ricerca e sviluppo e 1,7 in investimenti produttivi (l’investimento complessivo nel programma Jsf è già all’80%) rischia di avere impatti ancora più pesanti. Per ogni aereo tagliato (al valore attualizzato del 2018) ci sarebbe una minore spesa di circa 80 milioni di dollari e minore valore aggiunto per l’industria italiana della Difesa e per l’indotto di poco più di 150. Quasi il doppio. I numeri sono semplicemente la proiezione dello studio diffuso a fine febbraio da Pwc (PricewaterhouseCoopers) che ha calcolato l’impatto del programma Jsf sull’economia italiana (15,8 miliardi di valore aggiunto complessivo). Senza contare che prima del 2018, anno in cui entra nel vivo la produzione e che darebbe all’Italia i veri ritorni sul PIL, non è possibile disimpegnarsi dal programma. Semmai si potrebbe diluire il numero di velivoli già ordinati.
Oggi Lockheed Martin ha annunciato che i primi componenti alari prodotti da Alenia Aermacchi e installati su un F-35 Lightning II hanno effettuato il loro primo volo lo scorso 6 marzo. I componenti sono stati installati a bordo dell’AF-44, un velivolo della variante F-35A a decollo e atterraggio convenzionale, che ha compiuto il primo volo di controllo presso l’Air Force Plant 4 di Fort Worth, Texas. L’AF-44 sarà consegnato alla U.S. Air Force prima della fine dell’anno. “Per anni, Alenia Aermacchi ha dimostrato la propria capacità di produrre componenti avanzati sia per velivoli civili sia per aerei militari ad elevate prestazioni”, ha affermato Debra Palmer, Vice President Lockheed Martin e General Manager dello stabilimento FACO (Final Assembly and Checkout) in Italia. “Quanto la Società sta realizzando nell’ambito del programma F-35 Lightning II è un’ulteriore conferma del suo ruolo di leadership in un ambito altamente specializzato della produzione di velivoli”.
I pacifisti vorrebbero tagliare le spese militari senza rendersi conto, nel loro furore ideologico, che far passare il concetto che lo Stato possa abdicare a una delle sue funzioni (la Difesa) costituirebbe un pericoloso precedente che domani potrebbe venire allargato a settori più “sociali” della spesa pubblica. La Difesa sostiene che l’aereo è indispensabile ma non si capisce bene a che cosa perché nessuno ha mai delineato in modo preciso cosa pretenda l’Italia dalle sue forze armate. Ammesso che l’F-35 riesca a superare tutti i numerosi difetti che ancora lo caratterizzano e diventi un aereo da attacco invisibile ai radar, sofisticatissimo ed efficacissimo siamo certi di potercelo permettere? Perché non basta dire che i costi dell’aereo americano sono elevati (e probabilmente cresceranno ancora) senza ricordare che il bilancio della Difesa di questo e dei prossimi anni stanzia un po’ di denaro per acquistare nuovi mezzi moderni ma lo fa a discapito dei fondi per l’Esercizio, cioè per manutenzione, carburante e addestramento. Ha quindi senso acquistare gli F-35 per tenerli chiusi in hangar per mancanza di benzina e manutenzione come già accade per molti aerei, mezzi e navi oggi in servizio? La domanda sembrano porsela gli olandesi chiedendosi se abbiano davvero bisogno di un velivolo di quinta generazione o non sia sufficiente uno più gestibile e meno costoso di quarta generazione aggiornato con le ultime tecnologie (il cosiddetto 4++). L’Olanda è uno dei Paesi che hanno avviato una seria riflessione sulla loro adesione al programma ma tra questi non figura l’Italia dove si affrontano in modo “calcistico” due squadre che rappresentano i fans dell’F-35 contrapposti a pacifisti e populisti uniti dallo slogan “più burro e meno cannoni”. Come Analisi Difesa ha più volte evidenziato sul programma F-35 esistono molti interrogativi senza risposta anche a causa della discordanza tra le informazioni diffuse dai protagonisti del programma. Nei mesi scorsi il nostro web magazine aveva rivelato che i costi annunciati nel febbraio 2012 dalla Difesa erano già saliti considerevolmente ma oggi il problema dell’affidabilità delle cifre fornite si ripresenta. In una recente conferenza stampa Lockheed Martin ha annunciato che entro il 2018 l’F-35 costerà 67 milioni di dollari a esemplare. A dicembre però il Ministero della Difesa italiano aveva informato il Parlamento che a partire dalle consegne in programma nel 2021 alla nostra Aeronautica e alla nostra Marina, la versione convenzionale dell’aereo costerà 83,4 milioni di dollari (64,1 milioni di euro), e quella a decollo corto e atterraggio verticale 108,1 milioni di dollari (83,1 milioni di euro). Differenze non di poco conto forse spiegabili col fatto che l’Italia deve negoziare con il governo statunitense il prezzo degli aerei mentre Lockheed Martin fornisce i costi relativi ai velivoli prodotti per il Pentagono? (...)
Qualcuno può spiegarci perché dovremmo continuare a essere buoni clienti di costosi e traballanti programmi americani quando Barack Obama applica lo slogan “buy american” su tutte le commesse militari e negli ultimi mesi il Pentagono ha tagliato i contratti per i velivoli cargo italiani C-27J destinati alla Guardia Nazionale statunitense e G-222 acquisiti per le forze afghane? Non sarebbe meglio investire sui nostri prodotti adottando la versione da attacco del Typhoon e finanziando lo sviluppo di droni da combattimento europei con programmi che coinvolgono pienamente la nostra industria ? Con un bilancio della Difesa più che doppio di quello italiano i tedeschi non acquisiranno l’F-35 ma utilizzeranno un solo aereo per l’intercettazione e l’attacco, il Typhoon di cui sono anche loro produttori. L’Italia invece avrà una doppia linea di velivoli, Typhoon ed F-35, con un raddoppio dei costi logistici che non possiamo permetterci con gli attuali budget della Difesa. Una scelta “alla tedesca” ci permetterebbe di salvaguardare meglio la nostra industria e i posti di lavoro acquisendo solo una ventina di F-35 nella versione B a decollo corto e atterraggio verticale davvero indispensabili per la portaerei Cavour. Su questi interrogativi e su questi temi vorremmo vedere svilupparsi un confronto che coinvolga anche quanti pretendono di guidare l’Italia.

venerdì 14 marzo 2014

La fuga dell’ex primo ministro libico (da ilPost.it)

(...) La fuga di Zeidan dalla Libia è solo l’ultimo episodio di una serie di eventi che hanno dimostrato l’estrema instabilità politica che sta vivendo il paese dalla caduta di Mu’ammar Gheddafi, ucciso dai ribelli il 20 ottobre 2011. L’8 marzo Zeidan aveva minacciato di bombardare una petroliera che si trovava nel porto della città di al-Sidra, nell’est del paese: la milizia locale ne aveva infatti preso il controllo e aveva sfidato il governo di Tripoli rivendicando il diritto di vendere il petrolio autonomamente. Il voto di sfiducia del Parlamento è arrivato dopo che la nave era riuscita a rompere i blocchi e ad allontanarsi dal porto, nonostante Zeidan avesse annunciato che era in pieno controllo della situazione. La crisi e le tensioni tra governo centrale di Tripoli e zone orientali della Libia vanno avanti da diversi mesi: le milizie che controllano queste zone chiedono maggiore autonomia, nonché una percentuale più alta sui proventi delle esportazioni.(...)

giovedì 13 marzo 2014

Disfattismo Senza Paura

E' la ciliegina sulla torta di questo strano "populismo democratico", l'uso della retorica che accusa i "disfattisti". Toni che non dovrebbero appartenere al dibattito democratico, che si nutre di dubbi e richieste di chiarimento.

Stamani Davide Faraone - membro della segreteria nazionale del PD - a Omnibus si è lasciato scappare un'espressione molto vicina al noto "lasciateci lavorare" ("laciate a noi, al governo... tutte queste cose..."), ed è stato giustamente "richiamato" su questo da un giornalista presente al dibattito. Non ho potuto seguire il prosieguo della trasmissione, ma il punto in questo caso non è il merito delle questioni economiche in discussione in questi giorni (su cui invito a leggere la breve rassegna stampa che riporto di seguito).

La questione è che - più o meno volutamente - il Presidente del Consiglio e la sua squadra sembrano voler utilizzare una retorica che a lungo andare può essere pericolosa, indipendentemente dai buoni propositi del nostro attuale Governo. Non spetta a chi governa valutare le motivazioni di chi si oppone, se sia sincero o meno, se sia utile o meno, se sia "disfattista" o meno.

Non c'è scelta:  in una sana democrazia liberale non si può sopportare più di tanto - anche se a volte può essere necessario, ma non per troppo tempo - il "richiamo all'ordine", anche se fatto - forse soprattutto se fatto - "per il bene della patria", e soprattutto se il bene della patria viene indicato come coincidente con il destino politico di una persona.

Le istituzioni democratiche sono più forti dei retorici richiami del tipo "state buoni se potete", "lasciatelo lavorare", "politica 1 - disfattismo 0". I leader sono apparizioni veloci, le istituzioni democratiche rimangono.

Per questo forse in questi giorni si deve essere "disfattisti" senza paura. 

Francesco Maria Mariotti
***

Breve rassegna stampa sulla conferenza stampa del Preidente del Consiglio; i grassetti sono miei 

Il fatto è che la scommessa di Renzi è ad alto rischio e presenta comunque dei vuoti altrettanto impressionanti. Primo: la manovra di taglio dell'Irpef per 10 milioni di lavoratori e la riduzione dell'Irap non sono oggi né un decreto legge né un disegno di legge ma sono (solo) parte di una relazione del Presidente del Consiglio approvata dal Governo. Secondo: la riduzione dell'Irap, una tassa sul lavoro odiosa, verrà però finanziata per un importo (2,6 miliardi) non certo capace di determinare grandi svolte con l'aumento di un'altra tassa, quella sulle rendite finanziarie (esclusi i titoli di Stato) dal 20 al 26%. Trattandosi di materia così sensibile doveva essere introdotta al momento ritenuto opportuno con misure operative e non con propositi verbali. Terzo: provvedimenti annunciati come decisivi per il lavoro (il famoso Jobs Act) e per il ripristino della legalità (sblocco dei debiti della Pa) viaggiano sui binari dei disegni di legge, che non sono adatti all'alta velocità istituzionale operativa. Quarto: sul tema delle coperture finanziarie il Governo non ha sciolto tutti i dubbi. Anzi li ha fatti crescere. (...)
A parte il fatto che il Commissario per la spending review Cottarelli ha specificato che i risparmi concretamente possibili per il 2014 ammontano a circa 3 miliardi, va detto con chiarezza che qui il premier rischia grosso. In Italia e in Europa, dove non tira aria di sconti. Le coperture finanziarie non sono l'imposizione di qualche burocrate-frenatore. Sono l'architrave di qualsivoglia manovra di governo, in assenza della quale non ci sono né scosse né credibilità. Gli annunci su questo terreno non valgono: senza coperture il bazooka non spara.
di Guido Gentili - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/ERMuL
Coperture multiple, su cui andrà acquisito il via libera preventivo di Bruxelles, con alcuni dubbi e perplessità che l'"informativa" del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, dedicata al capitolo più rilevante e ambizioso della sua «cura shock», non ha ancora dissolto. A partire dai risparmi attesi dalla spending review, che Bruxelles ha chiesto di indirizzare alla riduzione del deficit strutturale in direzione del pareggio di bilancio, e che invece il governo intende convogliare alla riduzione del prelievo fiscale. La trattativa potrà chiudersi a favore delle tesi sostenute dal governo, a patto che vi siano precise garanzie sul percorso di attuazione delle riforme strutturali, necessarie per accrescere il potenziale di crescita dell'economia.
di Dino Pesole - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/znWCE
Ci sono, per l’appunto, alcuni aspetti che lasciano intravedere che ci saranno più danni che benefici. Il primo è legato alle stime del governo. Secondo Renzi il gettito previsto sarà pari a 2,6 miliardi di euro. Una cifra significativa, specie considerando che senza il supporto dei titoli di Stato, la cui aliquota resterà al 12,5%, si andrà a colpire una fetta di mercato molto più piccola. Ma non per questo meno importante, sia per la liquidità sistemica sia per il corretto funzionamento dei mercati finanziari. Come conciliare la riduzione della piscina da cui attingere con un aumento delle stime sul gettito, dato che la prima previsione parlava di circa 1 miliardo di euro? I dettagli tecnici sono ancora un mistero. Soprattutto perché colpendo di più gli investitori in classi di asset differenti dai bond governativi domestici c’è il timore di una diminuzione dei volumi negoziati. E farlo in mercati così sottili come quelli italiani, è l’equivalente di un suicidio. Allo stesso tempo, è lecito attendersi una minore diversificazione degli investimenti. In altre parole, potrebbe esserci un incremento dell’allocazione delle risorse sui titoli di Stato. Buono nel breve termine, complice l’attuale calma piatta dettata dalla Banca centrale europea (Bce) a livello di eurozona. Male nel lungo, perché aumenterà l’autarchia degli investitori domestici, che potrebbero effettuare aumentare la percentuale di bond governativi italiani in portafoglio, circa 183 miliardi di euro a fine novembre 2013 secondo i dati della Banca d’Italia. Uno scenario giapponese che non riduce la frammentazione finanziaria dell’area euro. (...) C’è infine un quarto aspetto, più tecnico. Dato che si parla di tassazione delle rendite finanziarie bisogna distinguere le due principali categorie di investitori secondo l’erario, ovvero nettisti e lordisti. I primi, rappresentati perlopiù dalla clientela retail (vedasi, famiglie e imprese), vedono applicata alla fonte la ritenuta sulle plusvalenze che derivano dall’operatività in prodotti finanziari. I secondi, che sono gli investitori istituzionali, vedono una tassazione ben differente, che dipende dal regime della dichiarazione all’erario. Traduzione: l’investitore istituzionale ha l’obbligo di dichiarare il risultato economico dell’operatività in prodotti finanziari e viene tassato in base alla fascia di aliquota in cui rientra. Stop. Nessun impatto della nuova misura di Renzi. Gli istituzionali continueranno quindi la loro normale attività, dato che non saranno colpiti dalla rimodulazione. E tutta l’iniziativa sarebbe stata inutile. Nel migliore dei casi, ovviamente.  
Dunque Draghi contro Renzi? È presto per dirlo, ma certo prende corpo l’ipotesi che gli eroici furori renziani abbiano subito nei giorni scorsi una netta frenata. Ecco perché dal consiglio dei ministri del cosiddetto super-mercoledì non è uscito nessun provvedimento concreto, ma solo un elenco di impegni, alcuni positivi (bisogna mettere in circolo del denaro e sostenere una domanda interna al collasso), altri ancora troppo fumosi (come la riforma del mercato del lavoro rinviata a una problematica legge delega), altri negativi come il prelievo sulle cosiddette rendite finanziarie o la minaccia di tagliare le pensioni medie, perché tali sono quelle oltre i 2.500 euro. Ma, al di là delle dietrologie, emerge chiaramente una sfasatura netta, prima ancora che sulle misure concrete, sull’analisi della situazione. Renzi sembra convinto non che bisogna compiere scelte per superare la crisi, ma che la crisi sia finita e quindi possa cominciare una nuova fase. La svolta che egli ha annunciato con quelle pirotecniche slide, è una politica redistributiva, da attuare subito, prima che sia ripartita l’accumulazione.(...) Il deficit spending lo hanno chiesto per anni i neokeynesiani di sinistra e di destra. Adesso c’è un governo che lo realizza. Ma il fatto è che non si può fare il keynesismo in un paese solo. Tanto più quando si fa parte di un’area economica con un’unica moneta. La Bce lo ha subito ricordato. Fa bene Renzi a volere una svolta rispetto agli anni della terribile austerità, ma prima deve tagliare poi spendere, prima bisogna far ripartire la produzione poi distribuirne i frutti. L’albero degli zecchini d’oro non esisteva nemmeno in Pinocchio.
Dire che le conferenze stampa alla Renzi sono ispirate alla più completa irritualità è diventato in poco tempo un eufemismo. Il neopremier ieri ha illustrato le scelte e i provvedimenti votati poco prima in Consiglio dei ministri alla stregua di un banditore e francamente il metodo non aiuta. Specie quando sono in gioco misure complesse, quando si tratta di valutare i delicati equilibri di finanza pubblica o solo individuare il perimetro delle novità normative, una più pacata trasmissione delle informazioni giova. Sicuramente al lavoro dei media (compresi quelli stranieri) ma ancor di più a quella trasparenza del rapporto tra politica e cittadini che rientra tra gli intendimenti prioritari di Matteo Renzi.
Ieri quest’obiettivo non è stato centrato perché alla fine dello show sappiamo i titoli dei provvedimenti che il premier ha fatto approvare, conosciamo l’indirizzo di alcuni di essi ma ci è rimasta la sensazione di non aver del tutto chiara la relazione che intercorre tra le decisioni di spesa adottate (e scandite) e le coperture di bilancio. Al punto che dovremo giocoforza aspettare il Def (il Documento economico-finanziario) per poter usufruire di elementi più certi di valutazione. Come riuscirà, ad esempio, il bisturi della spending review nel 2014 a raddoppiare i risparmi dai 3 miliardi previsti finora da Carlo Cottarelli ai 7 promessi ieri da Renzi? E ha senso adottare come riferimento per il rimborso dei debiti della pubblica amministrazione una stima di Bankitalia (90 miliardi) contestata ancora pochi giorni fa dal ministro del Tesoro uscente, che ha parlato di un pregresso limitato a 50 miliardi?
I 1.000 euro all’anno nelle buste paga dei dieci milioni di italiani che guadagnano meno di 1.500 euro al mese, ricavati dalla riduzione dell’Irpef, sono una decisione a effetto: un tentativo di guadagnare consensi a sinistra e da parte dei sindacati. Renzi voleva l’entrata in vigore del provvedimento all’inizio di aprile. Ma «sono stato sconfitto con perdite», ha ammesso in conferenza stampa. Lo spostamento al 1° maggio conferma comunque un potenziale effetto elettorale: si voterà per le Europee poco più di tre settimane dopo. E la volontà di semplificare il mercato del lavoro riceve il plauso anche degli alleati del Nuovo centrodestra di Angelino Alfano. Il problema sarà di ottenere un «via libera» a livello europeo, che è dato per scontato ma non c’è ancora.
E rappresenta un ostacolo per le ambizioni e la velocità renziane. Ieri il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha avallato il «piano-choc» del premier. In parallelo, però, ha anche usato toni prudenti e quasi preoccupati sulla possibilità di tirare troppo la corda della spesa pubblica. «Il 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil è il margine massimo disponibile», ha detto, «per evitare di rientrare nella procedura di deficit eccessivo» a Bruxelles. Padoan ha insistito sui vincoli da rispettare nel processo per «mobilitare risorse». Ma in questa fase la volontà politica di Palazzo Chigi punta soprattutto a rimarcare la «portata storica» di quanto Renzi ha annunciato
Il ministro Padoan, che nel suo intervento in conferenza stampa, scurissimo in volto, non ha speso una sola parola sul tema, a domanda diretta ha però sciolto una volta per tutte il nodo delle coperture. "Ci saranno tagli di imposte finanziati da tagli di spesa permanente - ha detto il ministro- e questo sarà a regime, a partire dall'anno prossimo. Per quest'anno invece - ha continuato - c'é una situazione di transizione, per finanziare questa transizione si utilizzeranno i margini dell'indebitamento nel modo più parsimonioso possibile, perché il rispetto del vincolo di deficit eccessivo é fondamentale per noi".
Ma il punto, non indifferente, é che l'utilizzo di questo margine non sarà automatico, e andrà negoziato con l'Europa, e - ha detto Padoan - "dovrà essere giustificato da aggiustamenti permanenti". La partita quindi, é tutt'altro che chiusa. Per quest' anno, nelle intenzioni del premier, il taglio del cuneo sarebbe coperto per 3 miliardi dalla spending review di Cottarelli, e per il resto - meno dei dieci miliardi perché si partirà da maggio - dal margine sul deficit, Ue permettendo.

Renzi è puntiglioso nell'illustrazione delle coperture. Cioè, come ha recuperato i 10 miliardi in questione. «Sul tema ho assistito a polemiche incredibili», commenta. I primi 6,4 miliardi arriveranno dalla scelta (tutta politica) di non rispettare l'obiettivo di deficit di quest'anno, fissato al 2,6% del Pil. E di riprogrammarlo al 3%. «Nessuno si è mai sognato di sforarlo», spiega. Quello 0,4% in più dovrebbe garantire al governo di recuperare, appunto, 6,4 miliardi.
Il problema è quel livello di deficit era rapportato a una crescita dell'economia interna dell'1,1%. In realtà, l'aumento del Pil sarà dello 0,6%. Ne consegue che già oggi il deficit atteso per quest'anno sale al 2,8%, e non al 2,6%. In più, i Trattati europei obbligano i governi in carica a raggiungere il pareggio di bilancio (principio sancito anche dalla Costituzione) e di migliorare ogni anno il deficit strutturale dello 0,5% del Pil. Renzi non solo non riduce il deficit, ma lo aumenta. E Pier Carlo Padoan, successivamente, quasi prende le distanze dal premier: «Il 2,6% è il margine massimo per evitare di rientrare in procedura per deficit eccessivo». Renzi, però, sembra non voler ascoltare il ministro dell'Economia.