venerdì 28 febbraio 2014

Alta Tensione in Crimea

Venerdì mattina centinaia di uomini armati con uniformi simili a quelle dell’esercito russo – ma senza alcun altro segno distintivo – hanno preso il controllo dei due principali aeroporti della Crimea – repubblica autonoma meridionale dell’Ucraina a maggioranza russa – quello di Sebastopoli (militare) e quello di Simferopoli (civile). Il ministro degli Interni ucraino ad interim, Arsen Avakov, ha attribuito l’azione a forze militari russe, anche se rimangono molti dubbi sull’identità e appartenenza di queste milizie. Russia Today dice che gli uomini che hanno preso il controllo degli aeroporti sono vestiti e equipaggiati in modo simile alle milizie di autodifesa che ieri avevano occupato gli edifici del parlamento e del governo locale a Simferopoli, mentre la stessa Russia ha smentito qualsiasi coinvolgimento. Dopo diverse ore la situazione in Crimea è ancora molto confusa, anche se sembra che le autorità ucraine abbiano ripreso il controllo dei due aeroporti. Nuove manifestazioni pro-russe si sono tenute però a Simferopoli, di fronte alla sede del governo locale, e una colonna di blindati russi è stata fotografata mentre si muoveva in Crimea verso Sebastopoli.
(...) MOSCA NEGA COINVOLGIMENTO - Tuttavia la flotta russa sul Mar Nero, di stanza nella regione, ha negato che le proprie forze siano coinvolte nell’occupazione di almeno uno dei due scali (quello di Belbek) secondo quanto riferito dall’agenzia Interfax. E un uomo che sostiene di aver aiutato il gruppo armato nell’altro scalo ha definito gli assalitori come gente della «Milizia popolare della Crimea».
L’IRA DI KIEV- L’aeroporto di Sinferopoli, scrive Avakov, «è bloccato da reparti militari della flotta russa». «All’interno dell’aeroporto - prosegue - si trovano i militari e le guardie di frontiera ucraini. Fuori ci sono militari in divisa mimetica con armi e senza distintivi, che non nascondono la propria appartenenza». «L’aeroporto - aggiunge - non funziona. Sul perimetro esterno ci sono i posti di controllo del ministero degli interni ucraino. Non ci sono ancora scontri armati».(...)
(...) Ma il problema principale, quello che fa addirittura temere che le tensioni possano sfociare in un conflitto militare, ha a che vedere con la profonda divisione del Paese. Finora si era parlato soprattutto della spaccatura fra un Est russofono e un Ovest fortemente caratterizzato dalla cultura e dalla lingue ucraine, ma oggi la crisi trova il suo punto più delicato in Crimea. La Crimea, storicamente russa, passò all’Ucraina nel 1954 solo a seguito della decisione demagogica di Khrusciov. Oggi la maggioranza russofona – e russofila - della popolazione teme che gli eventi di Kiev, con il prevalere dei nazionalisti ucraini, abbiano rotto a loro sfavore il delicato equilibrio su cui si basava la convivenza. E in effetti una delle prime decisioni del nuovo vertice politico nella capitale è stata quella di togliere al russo il precedente status paritario di lingua ufficiale. A Simferopoli, capoluogo della Crimea, gli attivisti russi sono passati all’azione, occupando il Parlamento regionale e issando sull’edificio la bandiera russa in sostituzione di quella ucraina.  

Di fronte al vasto dispiego di unità militari russe ai confini, i vertici politici sia americani che europei fanno sfoggio di cautela e di nervi saldi, partendo evidentemente dal presupposto che Mosca pagherebbe un prezzo troppo alto se decidesse di trasformare l’esercitazione militare in un’invasione. Probabilmente la vera intenzione russa è solo quella di lanciare un pesante ammonimento ai governanti ucraini:  (...)

Pochi giorni fa si poteva leggere, sul New York Times, l’esortazione di un accademico polacco ad Europa e Stati Uniti a mettere in atto, lasciando da parte eccessive prudenze, «uno sforzo congiunto per includere l’Ucraina nel campo occidentale». E’ proprio questo l’incubo principale di Vladimir Putin, tanto più se si pensa che questa inclusione potrebbe, in prospettiva, prendere forma non tanto in un improbabile ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea quanto piuttosto nella Nato. 

Gli ucraini, soprattutto i giovani, che hanno rovesciato Yanukovich sventolavano le bandiere dell’Europa, ma le loro aspettative non hanno alcuna base nella realtà, e sarebbe eticamente giusto per noi europei non essere prodighi più di illusioni che di effettivo sostegno. L’adesione all’Unione Europea non solo non è per domani, ma nemmeno per dopodomani, e per quanto riguarda la drammatica situazione economica del Paese, non si vede come l’Europa possa - in un momento di non superata crisi interna - far fronte all’urgente necessità di aiuti finanziari che sono stati quantificati in 35 miliardi di dollari su due anni. Paradossalmente non sembra esservi un futuro sostenibile, per l’Ucraina, che escluda un sostanziale rapporto con la Russia in campo finanziario, commerciale e soprattutto in tema di forniture energetiche. Quando si parla infatti della possibilità di un intervento del Fondo Monetario Internazionale in aiuto all’Ucraina non si può dimenticare che l’aiuto del Fmi verrebbe corredato di condizionalità che, si sa, includerebbero l’abrogazione del «prezzo politico» dell’energia, oggi inferiore a quello che l’Ucraina paga per il suo acquisto dalla Russia. Una prospettiva che i nuovi governanti di Kiev non potrebbero facilmente gestire, con un’opinione pubblica convinta che, con la cacciata del tiranno filorusso, non solo la libertà, ma anche il benessere, siano a portata di mano.


giovedì 27 febbraio 2014

Inizio Preoccupante

Segnalo in questo post alcuni articoli che tentano di analizzare da un lato la politica economica delineata nelle prime uscite pubbliche del Presidente del Consiglio o di altri esponenti del Governo, e dall'altra tentano di interpretare la strategia più complessiva dell'attuale inquilino di Palazzo Chigi. 
La lettura combinata dei vari articoli purtroppo non aiuta l'ottimismo, a mio avviso (anche se un paio danno interessanti suggerimenti).

Il mio grado di condivisione dell'attuale impostazione politica del Pd e del suo segretario è uguale a zero, o forse veleggia verso numeri negativi. Quindi probabilmente non fa meraviglia se dico che personalmente sono molto preoccupato; ma a prescindere dalla mia opinione, il problema è che molti osservatori rimangono perplessi dall'approccio complessivo che si sta dipanando in questi giorni (e questo mi pare accada anche fra coloro che hanno guardato senza pregiudizi - o con simpatia - al tentativo del sindaco di Firenze).

Forse nella figura "leaderistica" - e un po' populista - di questo Presidente del Consiglio l'italia ritrova la periodica tentazione di credere nel "seducente" obiettivo del "primato della politica". Tale espressione - che affascina perché sembra voler riportare "ordine" nelle dinamiche sregolate dell'economia - purtroppo il più delle volte è semplice copertura di poche idee e poca concretezza, surrogate da "volontarismo" e "velocità".

L'uscita dalla crisi non può avvenire per improvvisazioni. Il cammino sarà lungo, e le scorciatoie e le furbizie (correre alle elezioni dicendo che questo Parlamento non lo lascia lavorare, per esempio?) non funzioneranno, o faranno danni.

Spero di essere eccessivamente pessimista e di sbagliarmi.

Francesco Maria
***

Dal punto di osservazione del Sole 24 Ore ascoltare il discorso di Matteo Renzi è un po' una sofferenza. Ti impone, infatti, un duro sforzo per cercare di andare oltre la patina di genericità e individuare le proposte di merito. Una gran fatica per chi è abituato a giudicare sulla base dei numeri e della concretezza. E alla fine un senso di delusione resta: perché nello sfrontato monologo di Renzi le buone proposte non mancano, ma sono declinate attraverso molte semplificazioni e senza la dovuta attenzione (anche nella replica in tarda serata) alla responsabilità di indicare le necessarie, e cospicue, coperture finanziarie. (...)
Bene anche l'allargamento delle garanzie al credito per le Pmi, così come il piano per l'edilizia scolastica. Anche qui interventi da «miliardi» e mancanza di dettagli. E di verità: perché le modifiche al patto di stabilità interno non sono a costo zero. E se fino ad oggi sono state fatte con grande prudenza non è per illogica follia ma perché la lente dell'Unione europea su questo è molto attenta. (...)
Forse – parafrasando il film di Richard Brooks – «è lo stile di Renzi bellezza, e tu non puoi farci niente». Ma il salto dallo straordinario coagulatore di consensi delle primarie a un presidente del Consiglio che illustra in Parlamento con concretezza e credibilità il suo programma di governo, Renzi non lo ha ancora fatto. L'auspicio è che al di là di una retorica attenta al consenso, i piani operativi per attuare le misure annunciate siano già in fase avanzata. Una speranza, perché questa potrebbe davvero essere l'ultima chance.

di Fabrizio Forquet - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/WKP1H

Intervistato a Palazzo Chigi da Giovanni Floris per Ballarò, Renzi ha spiegato tutte le sue ideone per cambiare verso al Paese.Come ampiamente sospettato, sulle coperture lo studente Renzi non ha studiato, e spesso si trova disattento. “Entro un mese” avremo i dettagli, promette Renzi, ma intanto enumera le potenziali coperture, e le individua nella ormai salvifica spending review di Carlo Cottarelli e (udite udite) nel ritorno dei mitologici capitali italiani dalla Svizzera, in quella che appare una botta di sano berlusconismo. Inutilmente Floris, col suo sorrisetto permanente, tenta di ricordargli che quella non sarebbe una copertura “strutturale” ma una tantum, e che già altri in passato hanno tentato, senza successo. Renzi è già lontano, e risponde con un bel ghe pensi mi da Silvio dei giorni migliori: “Quella se la son giocata tutti, ma non l’ha fatta nessuno”.(...)
Poi Renzi parla del ruolo dell’altra pentola d’oro in fondo all’arcobaleno, la Cassa Depositi e Prestiti. E sono subito fuochi d’artificio: «La Cassa Depositi e Prestiti ci può aiutare a fare quello che ha fatto la Spagna, per circa 60 miliardi di euro, con un effetto benefico immediato. Aiuterà con i fondi per lotta al credit crunch, e in 15 giorni permetterà di sbloccare i 60 miliardi che sono bloccati per i debiti della P.A.».
Ora, questo è ovviamente impossibile, ma la cosa più interessante è che Renzi deve aver creduto alla fiaba che in Spagna non solo la rana gracida in campagna ma pure che gli asini volano, e quindi ha già inforcato felice il suo costumino con le ali. Non esiste alcuno “shock prodotto dalla Spagna sulla liquidità”, sarebbe interessante capire da dove Renzi ha preso questa botta di provincialismo magico, che fa il perfetto paio con “le spese per la sanità sono tutte online in Regno Unito” e “In Italia le rendite finanziarie hanno la tassazione più bassa che nel resto d’Europa”. E non è vero, basterebbe verificare.(...)


Articolo analogo su http://phastidio.net/2014/02/26/le-rendite-pure-con-scappellamento-a-destra-come-se-fosse-cdp/?utm_source=dlvr.it&utm_medium=twitter (dove potete trovare l'intervista del Presidente del Consiglio a Ballarò)

Lo scenario chiaroscurale sull’Italia rischia di avere un effetto particolare. Considerato che gli esponenti del neonato governo di Matteo Renzi hanno più volte rimarcato l’urgenza di andare oltre il vincolo del 3% del deficit per alimentare gli investimenti sull’Italia, ora non ci sono più scuse. Lo 0,4% di margine prima di arrivare al limite si può tradurre in poco più di 6,4 miliardi in investimenti. Una cifra che non è proprio irrisoria, specie in questo periodo, ma che in teoria non può essere utilizzata vista la regola sul pareggio strutturale. il rischio che corre il Paese è però quello di lasciarsi prendere dall’entusiasmo e sforare il tetto, o perlomeno arrivare vicini a farlo. Compiere una mossa del genere, senza portare a compimento le riforme strutturali promesse, potrebbe far scivolare il governo Renzi nelle sabbie mobili. 

È la proposta lanciata dalla Fondazione Astrid presieduta da Franco Bassanini, numero uno dell’ente di via Goito, e dall’economista Marcello Messori: usare la Cdp – soggetto per Eurostat fuori dal perimetro del debito pubblico – per ristrutturare i debiti delle Pa nei confronti delle banche (che a quel punto potrebbero scontarli), con la garanzia sussidiaria dello Stato. Coinvolgere la Cdp in questo ambito, va detto, non è una novità nell’entourage del rottamatore: «Invece di destinare i soldi dei depositanti in incerti progetti di politica industriale, la Cdp dovrebbe impegnarsi a fare quello che lo Stato non riesce a fare: pagare i suoi debiti alle imprese, a partire dai crediti Iva» ha scritto sul Sole 24 Ore Luigi Zingales, già ospite della Leopolda nel 2011 e, almeno in passato, ispiratore del leader Pd.

Si potrebbe complessivamente arrivare a 50-70 miliardi di euro da spendere subito che potrebbero far quasi raddoppiare il bassissimo tasso di crescita stimato dall’Unione Europea per l’economia italiana nel 2014. Non si tratta di cosa facile, ma ci si può provare, soprattutto se si utilizzano queste risorse per rimborsare debiti delle amministrazioni pubbliche con le imprese fornitrici e per ridurre il cuneo fiscale anche se sarà difficile arrivare subito alla riduzione a «due cifre» promessa da Renzi. Del resto, le stime europee sulla crescita italiana sono state sicuramente redatte prima della nascita del nuovo governo e quindi ipotizzano semplicemente la continuazione delle tendenze attuali mentre l’obbiettivo del governo è precisamente quello di ribaltare tali tendenze. 

"(...) Perché – è vero – quando sentiamo il primo ministro e i suoi (nostri) coetanei che hanno preso il potere in questi giorni, restiamo a volte perplessi, a volte sbigottiti. Spesso, molto spesso, ci rileggiamo in pieno nelle bastonature un po’ compiaciute ma puntuali della generazione dei rottamandi. Spesso sentiamo che non c’è la cultura politica che abbiamo imparato a ritenere fondamentale, e non troviamo il peso specifico, la padronanza dei numeri e delle relazioni che servono per metterci la faccia in Italia, ma soprattutto in Europa. Vediamo, e ci spaventiamo a quel che vediamo, un’improvvisazione che spaventa, e che difficilmente fa sentire tranquilli rispetto ai mostri che dobbiamo vincere: una burocrazia impossibile, un fisco invecchiato e nemico di rischia e produce, uno welfare che non sa più rispondere alle esigenze di oggi, un sistema scolastico da rifondare, e così via. Non cose da poco. Cose da cambiare, radicalmente, e per cambiare le quali servono competenze precise, un rapporto forte ma non supino con gli apparati dello stato, una rappresentanza di interessi ampia quanto basta per vincere gli ampi controinteressi.(...)"

(...) Insomma, più cerchiamo di comprendere qual è la strategia del sindaco e più ci rendiamo conto che Renzi non è pazzo ma un abile calcolatore. Anzi, un giocatore d’azzardo che fino all’ultimo è abituato a non scoprire le proprie carte. In tutti questi mesi in fondo si è comportato così, ossia ha sempre dichiarato una cosa per poi farne un’altra. È successo con le primarie (ricordate, aveva giurato e spergiurato che non avrebbe mai fatto il segretario del Pd), è capitato con il governo (fino a meno di un mese fa assicurava in tv che non avrebbe soffiato il posto a Letta), probabilmente si ripeterà ora.
Renzi è giovane e un po’ guascone, tuttavia non può non rendersi conto che se non fa qualcosa di concreto, la sua credibilità diminuirà rapidamente e lo stesso accadrà alla sua popolarità. Dunque? La sensazione è che anche adesso che è giunto a Palazzo Chigi l’ex sindaco non abbia sospeso la sua personale campagna elettorale. Cominciata con la sfida delle primarie - le prime, quelle contro Bersani - Renzi ha continuato senza fermarsi mai e neppure la conquista della segreteria del Pd lo ha indotto allo stop. Lunedì e ieri, al Senato e alla Camera, il nuovo presidente del Consiglio non ha presentato il suo programma, ma ha tenuto un comizio. La campagna elettorale proseguirà nei prossimi giorni, quando il premier itinerante inizierà a visitare le scuole, a partire da quelle di Treviso. Renzi che telefona ai marò e alla donna sfregiata dall’ex fidanzato, Renzi che imita Papa Francesco e scende fra la gente, si fa fare le fotografie e tra poco berrà dalle bottigliette che la gente gli offre, fa tutto parte dello stesso disegno. Della stessa campagna elettorale. Perché il neo premier sa che non ce la farà. Anzi sa che non ce la può fare con un Pd che non controlla. Un Pd che sotto i suoi occhi applaude Letta, il premier che lui ha licenziato.
Sì, Renzi pur negandolo (le sue smentite non fanno testo) ha pronta l’uscita di sicurezza, ovvero le elezioni. Proverà a far qualcosa, poi dirà che non gliela lasciano fare e quindi ci porterà a votare. In fondo ha solo 39 anni. E per governare c’è tempo.

(...) Se poi le riforme segnassero il passo o si affacciassero difficoltà crescenti, Renzi può giocare la carta del voto politico anticipato. Il suo calcolo è che comunque lo farebbe da presidente del Consiglio. A quel punto la coabitazione tra l’identità di premier del Parlamento e quella di presidente anti-Palazzo non avrebbe più ragione di continuare. Renzi potrebbe togliersi i panni istituzionali e indossare gli altri, più congeniali, da politico che parla all’opinione pubblica; e che chiede voti contro chi non lo ha fatto governare come voleva. È un gioco molto azzardato, ma anche ieri il presidente del Consiglio ha rivendicato quasi il dovere di rimettere in discussione tutto. D’altronde, l’azzardo gli piace, e finora gli è andata bene: basta che vada bene anche all’Italia. 


(...) Non è antiparlamentare, Renzi. Però è anti questo parlamento. E ne viene ricambiato, dai senatori che vuole licenziare e dai deputati il cui feeling istintivo è con Bersani, e perfino con Letta nonostante ne siano stati duri critici e, per la parte Pd, i veri carnefici.
La dinamica politica non concede all’ex segretario e all’ex premier alcuna ravvicinata possibilità di rivincita. Renzi rimarrà il dominus della situazione, il controllo del Pd da parte sua è fuori discussione. Ma oggi è chiaro che la famosa «sfrenata ambizione» può dispiegarsi davvero solo con altri equilibri, altri rapporti di forza, in un altro contesto, in definitiva con un altro parlamento.

lunedì 24 febbraio 2014

"Cambiare Marcia" Sull'Ucraina

I cambiamenti repentini che avvengono in queste ore in Ucraina costringono a mantenere alte l'attenzione e la prudenza. Troppo spesso apparenti rivoluzioni democratiche si sono trasformate in piccoli o grandi incubi. In questo senso è assolutamente necessario che l'Europa mantenga un "giusto distacco" da alcune dinamiche presenti nella parte che in questo momento sta uscendo "vittoriosa". Questo non deve apparire contraddittorio rispetto ad altri momenti in cui era necessario "alzare la voce". (O meglio, la contraddizione c'è, forse, ma è parte di un percorso che è in sé - sempre - contraddizione e mutamento).

Era giusto "parteggiare" in un momento drammatico di conflitto in piazza, era ed è giusto attivarsi e contrastare la prepotenza russa, e per certi aspetti l'azione europea  -rappresentata dalla permanenza e dalla mediazione attiva di tre ministri degli esteri nel paese nelle ore decisive - è forse stata più incisiva che in altri momenti. Ma basta poco, perché l'appoggio politico diventi un un nodo che vincola eccessivamente, costringendoci magari ad avallare passaggi politici discutibili, se non pericolosi.

E' un momento molto delicato, ed è il caso di "cambiare marcia"; la giusta battaglia per una democrazia piena in Ucraina deve intersecarsi e stringersi - come sempre - con la necessaria stabilità geopolitica, e quindi con l'inevitabile vicinanza/presenza russa. Non sarà spingendo gli Ucraini a combattersi ancora fra di loro che aiuteremo questo fragile paese, peraltro sull'orlo di un fallimento economico.

Si deve essere inflessibili su alcuni principi di libertà e sui diritti civili (da garantire - soprattutto in momenti come questi - a tutti, naturalmente anche alle componenti "filorusse"), e deve essere posto - come pare abbia fatto Merkel in queste ore - il problema di un governo del paese che sia il più possibile unitario e che possa garantire la coesione del paese. 

Non facciamo diventare una battaglia ideale il prologo di una nuova guerra civile, o secessionista. Deve essere chiaro - a tutto l'est europa - che democrazia, libertà, e sicurezza dello stato sono fattori che si tengono assieme. 

FMM

Negli ultimi giorni è diventata sempre più urgente anche la questione economica: come ha detto il parlamentare Arseniy Yatseniuk, l’Ucraina si trova in «bancarotta». Secondo il nuovo ministro delle Finanze ucraino, Yuriy Kolobov, al paese servirebbero urgentemente circa 25 miliardi di dollari in aiuti esteri, che fino a pochi giorni fa sembravano poter essere in parte coperti dalla Russia: secondo un accordo firmato tra i due paesi, il governo russo avrebbe investito 15 miliardi di dollari in titoli di stato ucraini e avrebbe ridotto il prezzo del gas che fornisce all’Ucraina di circa un terzo. Dopo l’allontanamento di Yanukovych, il ministro delle Finanze russo Anton Siluanov non ha ancora chiarito se il suo governo è disposto ad avviare la prossima tranche di investimenti, pari a 2 miliardi di dollari. L’Unione Europea è comunque disposta a sostenere l’economia dell’Ucraina con un prestito da 20 miliardi di euro, ha detto il presidente della commissione Affari esteri del Parlamento europeo, Elmar Brok.
(...) Negli ultimi giorni diversi giornalisti hanno cominciato a occuparsi della Crimea, penisola sulla costa settentrionale del Mar Nero amministrata dalla Repubblica autonoma di Crimea, e della possibilità di una sua secessione dall’Ucraina per unirsi alla Russia. La Crimea, come ha scritto Simon Shuster su Time, è «l’unico pezzo di Ucraina dove la rivoluzione non è riuscita a prendere piede»: qui il nazionalismo russo è fortissimo e Sebastopoli, una delle città più grandi della Crimea dove i cittadini si sentono più russi che ucraini, è sede di una base navale russa che ospita circa 25mila soldati. Quando venerdì le opposizioni hanno preso il controllo del parlamento, in Crimea «si è diffuso il panico»: in alcune città, come Simferopoli, i cittadini hanno iniziato a firmare petizioni per creare delle brigate di difesa della Crimea da usare in caso di necessità, e diverse autorità locali hanno chiesto aiuto al governo russo.(...)

La sera di sabato 22 febbraio, dopo tre mesi di rivolte culminati con la fuga da Kiev del presidente ucraino Viktor Yanukovich, i principali giornali online del mondo titolavano: “Liberato il nemico numero uno di Yanukovich”. Per nemico numero uno intendevano una donna di 53 anni, ex oligarca dell’energia, ex primo ministro, più volte indagata dalla magistratura ucraina in controversi procedimenti giudiziari e diventata famosa in tutto il mondo dopo essere stata imprigionata per tre anni: Yulia Tymoshenko.

Le speranze del 2004 Arancione sono perdute, la Tymoshenko discreditata, nessuno nella piazza che ha rovesciato il regime filorusso dell’ex teppista Yanukovich è leader maturo, non l’ex ministro dell’Economia Yatsenyuk, non l’ex pugile Klitschko. La propaganda di Mosca (e i suoi galoppini in Italia) seminano scandalo per i neofascisti nazionalisti di «Settore Destra», ma la debolezza dell’opposizione non bilancia le colpe del regime, lo sfascio economico, la repressione dei dimostranti anche quando la piazza era ancora non violenta. Anche il falco putiniano Alexei Pushkov, presidente della Commissione Esteri del Parlamento russo, ammette «Yanukovich ha fatto una triste fine».
 E ora? Non ci sono «buoni» e «cattivi», in Ucraina tra cui scegliere, ma ricordate che Vladimir Putin non smetterà di interferire: se Kiev entra nell’area di influenza europea, o addirittura della Nato, il sogno neoimperiale di Mosca fallisce. Quando ha fatto strappare a Yanukovich, con la promessa di 15 miliardi di euro e un oceano di gas, l’accordo con i troppo cauti diplomatici europei, Putin voleva per sempre legare Kiev a Mosca, emulo della cacciata della Guardia Bianca 1919. Il Cremlino ambisce alla Crimea, che, si dice, Kruscev abbia assegnato agli ucraini durante una sbronza.
 L’ex Consigliere per la Sicurezza nazionale americano Brzezinski e l’ex presidente europeo Prodi hanno, in questi giorni, proposto che, per evitare la guerra civile tra filorussi e filo-Ue che il Cremlino non esiterebbe a scatenare come in Georgia, il paese resti libero ma neutrale, modello Finlandia. Putin si impegna a non mestare negli affari interni, Europa e Stati Uniti sostengono l’economia che è allo sfascio, ma senza alleanze militari. Gli stessi oligarchi ucraini, al sicuro nel lusso di Londra, sembrano comprenderlo, se Rinat Akhmetov, considerato dal Financial Times «l’uomo più ricco in Ucraina» e ex alleato di Yanukovich, dichiara «Voglio un’Ucraina forte, indipendente ed unita e sottolineo unita».


"Putin ha vinto l’oro nel pattinaggio, ma ha perso l’Ucraina”. È l’ironia che si scatena su Twitter verso il titolare del Cremlino, che nulla ha potuto fare contro la rivoluzione ucraina. Il canale Tv Tsn sostiene, citando una sua fonte, che il destituito presidente ucraino abbia tentato la fuga in Russia, anche se, a quanto pare, non atteso a braccia aperte. Nel giro di 24 ore Yanukovich non è solo dovuto scendere a patti con l’opposizione. Ha lasciato in tutta fretta la sua residenza lussuosa alle porte di Kiev, per rifugiarsi nel “feudo” pro-russo di Kharkov, mentre la Rada, il parlamento ucraino, votava a maggioranza il suo impeachment. “Nella residenza di Yanukovich, Mezhigorye, nei pressi di Kiev, stanno facendo entrare chiunque: lui stesso è fuggito, come anche la guardia, il personale di servizio si è disperso… Una fine ridicola per il presidente”, ha twittato Alexey Pushkov, presidente del comitato per gli Affari Esteri della Duma.​



L'Ucraina si sta disintegrando. Questo grande Stato europeo la cui frontiera occidentale è più vicina a Trieste di quanto la città giuliana sia prossima a Reggio Calabria sta piombando nella guerra civile.
E tutto ciò sotto gli occhi negligenti o impotenti dell’Occidente. L’Unione Europea, più che mai incerta e divisa, alterna la retorica della pacificazione alla patetica minaccia di sanzioni che ormai non avrebbero alcun effetto sugli equilibri geopolitici del paese - 45 milioni di abitanti per oltre 600 mila chilometri quadrati (il doppio dell’Italia) - dalle cui condotte energetiche, sempre bramate da Mosca, dipende per una quota decisiva il nostro approvvigionamento di idrocarburi.
Come ammette uno dei leader dell’opposizione, il pugilatore Vitali Klitschko, la crisi è fuori controllo. Lo dimostrano il tributo di sangue già pagato dagli ucraini - decine di morti e centinaia di feriti - e soprattutto il fatto che intere città e territori non sono più in mano al governo. Il quale è sotto assedio, barricato nei suoi palazzi. Al punto di sconsigliare i ministri degli Esteri di Germania, Francia e Polonia dal trattenersi a Kiev per facilitare un estremo negoziato fra il presidente Yanukovich e i capi del variegato cartello delle opposizioni, alcune delle quali dotate di proprie milizie.

Romano, quali sono le responsabilità politiche dell’Unione Europea?

Fino a quando l’Unione Europea continuerà a fare dichiarazioni severe facendo pressione sul governo, l’ala dura della protesta le prenderà come scusa per tornare in piazza e creare un clima di ancora maggiore tensione. Temo che ci troviamo, con le dovute differenze di contesto, di fronte a una situazione simile a quella siriana.


Cosa intende?

La protesta che vediamo è composta da nuclei diversi e spesso non riconoscibili: noi non sappiamo bene chi siano le persone in piazza. Spesso le immagini parlano da sole però: ci sono persone che confezionano bombe molotov, milizie che appaiono organizzate e pronte a combattere.


Non è un movimento pacifico?

Sappiamo che nella protesta ci sono anche elementi del vecchio nazionalismo ucraino, che è anti-russo prima di tutto e che nella storia è emerso nel momento in cui ha goduto di un appoggio esterno. È successo così con l’occupazione tedesca durante la Seconda guerra mondiale e anche durante la Prima guerra mondiale. Questo per dire che c’è molto di “vecchio” in questa protesta. Poi, certo, ci sono anche i ceti popolari in piazza che pensano che l’Ucraina starebbe meglio nell’Unione Europea, però dobbiamo fare attenzione: il giorno in cui questa battaglia fosse vinta, chi prenderebbe il potere? Chi avrebbe il controllo della piazza? Quale componente si imporrebbe sulle altre?


L’Unione Europea non vede questo rischio?

L’Europa si è sentita personalmente coinvolta, forse anche per risentimento visto che stava per concludere un accordo [commerciale di libero scambio] che è saltato all’ultimo momento. Ma anche questo accordo non è interesse di tutti i paesi membri: l’Italia, ad esempio, non mi sembra si sia schierata e non è il solo paese. Chi ha più interessi in questa faccenda sono gli stessi che hanno molto caldeggiato la rivoluzione del 2004: Polonia, Svezia e Lituania, che non vogliono vedere l’Ucraina gravitare nell’orbita russa. Ma questo è molto difficile da ottenere per Kiev.



L’Ucraina infatti continua a stare nel limbo, visto che sino a oggi con la Russia non è arrivato nessun accordo determinante sul lungo periodo. La Bankova ha virato verso il Cremlino con la speranza fare cassa rapidamente, ma le richieste russe, dall’entrata nell’Unione doganale al controllo del sistema dei gasdotti (gts), se torneranno all’ordine del giorno dovranno eventualmente essere fatte digerire sia all’opposizione sia alla popolazione. Se nel passato decisioni analoghe hanno creato convulsioni solo a livello parlamentare, dopo le ultime grandi manifestazioni è probabile che scelte radicali provochino un nuovo scontro con l'elettorato europeista. Senza contare le frange più estremiste, che non sono state ancora disinnescate. Se le future scelte di campo non porteranno benefici   concreti per la gente comune, è possibile che il malcontento popolare si diffonda oltre le regioni occidentali, roccaforti dell’opposizione filoeuropea e antirussa, e dalla capitale Kiev si riversi verso i tradizionali feudi vicini a Mosca, dall’est al sud.
 In assenza di stravolgimenti sul modello della rivoluzione del 2004, è prevedibile che l’Ucraina entri in una fase di distacco dal contesto europeo occidentale, provocato e andato a beneficio sì della Russia, ma del quale è responsabile in parte la stessa Unione Europea. Finita l’emergenza, Bruxelles dovrà tentare di riprendere il dialogo a partire dal secondo semestre del 2014, che coincide con la presidenza italiana, ma se Yanukovich rimarrà alla Bankova sino alla scadenza naturale e probabile che rapporti costruttivi siano possibili solo con un altro presidente. Resta da vedere se la strada intrapresa dopo Vilnius sarà mantenuta o vi saranno deviazioni.

giovedì 20 febbraio 2014

La Retorica Pericolosa Della Contrapposizione Popolo - Casta

In bocca al lupo a chi sta tentando di formare un governo, in queste ore. Siamo costretti a tifare per lui, perché il "rinculo" di un fallimento potrebbe costare troppo al Paese. 

Però non possiamo tacere le tracce pericolose di una retorica che non vorremmo sentire, soprattutto in un ambito che si vorrebbe progressista. La distinzione fra un'Italia popolare e reale e le élites (vd. intervista di Nardella al Corriere), la contrapposizione forzata fra un popolo puro e generoso, e una "casta" corrotta, o almeno lenta, non è una buona base per le riforme.

Lo si è già scritto: la democrazia dovrebbe riuscire a superare questo tipo di dicotomia; perché da una parte limita e contrasta il naturale formarsi di aggregati di potere, dall'altra perché richiede ai "semplici cittadini" e ai "senza potere" di non "accontentarsi" di accettare come date le dinamiche di potere, ma di costruire - da soli o in comunione con altri individui - le condizioni perché ogni potere venga controllato, limitato, valutato, messo in tensione.

Questo esercizio - quasi quotidiano - è cosa ben lontana dal protestare innocenza e dalla contrapposizione fine a se stessa; è anzi in realtà un'assunzione di responsabilità; è anche un comprendere realisticamente la situazione data, le dinamiche oggettive che si pongono nella storia. Abitare i tempi con scienza e coscienza, mai dismettendo il senso critico.

In questo senso - pur comprendendo le ragioni di chi chiede una "primazia" della politica sull'economia, di chi contesta alcune scelte economiche del passato - è secondo me da guardare con sospetto una certa retorica che accompagna l'operazione che si sta costruendo attorno al governo in formazione, in particolare rispetto alla volontà di "cambiare verso" all'economia italiana, anche attraverso il simbolico "ritorno" di un politico al Ministero dell'Economia (cosa di per sé assolutamente legittima, naturalmente).  

L'Italia ha bisogno di riforme, e forse questo nuovo governo ne farà di importanti; ma è anche importante costruire attorno alle riforme (anche per farle durare al di là di una fortunata contingenza politica) un tessuto di elaborazione e di approfondimento che è cosa molto più complessa della contrapposizione sterile - e alfine reazionaria - popolo vs casta. 

Francesco Maria Mariotti

"(...) E allora faccio notare al direttore che Guerra ha una simpatia notoria per Matteo Renzi. E lui: “Renzi catalizza tutte le aspirazioni alla novità in un paese fermo. Ma questo non basta. E mi è dispiaciuto il modo in cui è stata chiusa la vicenda di Enrico Letta”. Sembra di capire che Renzi non ti sta simpatico, direttore. “Per ora siamo alla sceneggiata dannunziana. Ma in realtà mi auguro che abbia successo. Se Renzi funziona, funziona anche l’Italia. Ma tutto è più complicato di come appare”, dice, mentre sottolinea le pause e i sottintesi. “La scena politica si sta svolgendo come se l’Europa non ci fosse. E Renzi tra un po’ sarà chiamato invece a un bagno di realismo, dovrà confermare il rispetto del vincolo del 3 per cento nel rapporto deficit/pil. Adesso lo spread è basso, tutto è calmo. Ma non è escluso che l’Italia torni a essere un’osservata speciale. Lo slancio e l’impeto giovanile vanno bene. Ma ci vuole anche ponderazione, e il soccorso di uomini che sanno stare in Europa”. Ma l’Italia, un uomo che sapeva stare in Europa l’ha avuto: Monti. E non è andata un granché bene. “La storia gli restituirà molto di quello che la cronaca gli ha sottratto. Dobbiamo a lui se non siamo finiti come la Grecia”. L’Italia lo ha triturato, Monti. Il Foglio qualche tempo fa ha paragonato Monti a Gulliver, un gigante divorato dai Lillipuziani: da Casini e da Riccardi, dalla politica di sacrestia, dalla nera pozza democristiana, quella in cui s’affogano tutti i meriti. “Monti ha sottovalutato le insidie”, dice de Bortoli. E quando parla di Monti, che è stato a lungo editorialista del Corriere, il direttore ammette di parlare di un amico. “L’Italia è strana”, dice. “Ha allergia per tutte le cose serie. E non sopporta nemmeno i governi forti. Da Craxi fino a Berlusconi. Qui da noi c’è un interesse diffuso ad avere un governo debole, ricattabile, di scarsa durata”(...)
(...) Non siete stati ingenerosi con Enrico Letta?

«Letta ha rappresentato bene l’Italia all’estero. Ma non è riuscito a mettere in campo il coraggio indispensabile per rompere quel grumo fatto di burocrazia, corporazioni, poteri costituiti che da anni non permette all’Italia di tirar fuori le sue energie migliori». 
Sta dicendo che l’establishment deve temere l’arrivo di Renzi?
«Esatto. E non mi stupisce che proprio l’establishment italiano in questi giorni si sia espresso più o meno implicitamente contro questo passaggio. Considerano Renzi come un barbaro». 
Un barbaro? 
«Il termine è forte, ma calzante: un barbaro che rompe i rituali e rappresenta un rischio per la conservazione dello statu quo. Come se l’Italia sonnolente, abituata a lucrare sulle posizioni di rendita economica, sociale e culturale, si trovasse improvvisamente e radicalmente messa in pericolo». 
A chi si riferisce? Banche, sindacati, finanza, Rai? 
«Mi riferisco a un insieme di mondi, anche all’apparenza in contrasto tra loro, che sono sopravvissuti in questo clima di lento declino, accontentandosi di mantenere posizioni dominanti, e oggi percepiscono lo stile, i contenuti, il messaggio di Renzi come qualcosa di estraneo. Matteo è un vero leader popolare. Un leader di popolo come da tanti anni non se ne vedono in Italia, e per questo capace di penetrare quella cortina di poteri costituiti, per comunicare direttamente con i cittadini. Renzi è visto come elemento destabilizzante; e dal loro punto di vista lo è. Proprio per questo rappresenta una grande opportunità per l’Italia per vivere un nuovo Rinascimento, se vogliamo usare un termine che appartiene alla storia di Firenze». (...)
Lei è stato il primo a dire che all’Economia ci vuole un politico. Perché? 

«Perché l’era dei “tecnici a prescindere” è ormai alle nostre spalle, e ha dimostrato purtroppo di non aver corrisposto alle attese. L’Italia è uno strano Paese: i politici scaricano sui tecnici le proprie responsabilità. È sbagliato affidare la spending review a un tecnico, per quanto capace. Non esiste scelta più politica che decidere quali voci di spesa pubblica tagliare. E il problema non riguarda solo i ministri, ma i ministeri». 
Si riferisce all’alta burocrazia? 
«Sì. Noi dobbiamo riformare radicalmente la burocrazia dello Stato, a partire dai vertici. Troppe volte nei corridoi si sente dire: “I ministri passano, i tecnici restano”. Dobbiamo aggredire l’iper-regolamentazione e le concentrazioni di potere e di privilegi, stipendi compresi. Basta decreti milleproroghe, specchio di un’Italia che getta sempre la palla in tribuna. Spezziamo la spirale drammatica di una burocrazia che di fronte a un problema, invece di risolverlo, inventa l’ennesima norma». 
Delrio potrebbe fare il ministro dell’Economia? 
«Non ci troverei nulla di strano. Anzi, ritengo che i sindaci oggi siano la migliore espressione della politica italiana; non fosse altro perché conoscono meglio di tutti l’Italia reale, mentre la distanza tra le istituzioni centrali e la società reale continua a crescere». 
Tra queste istituzioni include la Banca d’Italia? 
«Per certi aspetti, sì. La questione ci obbliga a una riflessione più generale dell’Europa. Il problema della distanza tra politica e società civile è ancora più vistoso sullo scenario europeo. Per questo sono preoccupato per le prossime elezioni di maggio». (...)
Il punto però, spiega Macaluso, è che al di là delle trattative tra i partiti è molto difficile oggi trovare candidati di questo tipo, che soddisfino anche il requisito della discontinuità imposto da Renzi. "Da un lato c'è stato un impoverimento culturale nella classe politica, una progressiva incapacità a governare e dall'altro i politici sono stati vittima di una pulizia etnica. Sì etnica. Da un po' di tempo è obbligatorio scegliere i tecnici per quella delegittimazione che ha travolto la politica". Ma perché Renzi ha collezionato tutti questi no?: "Credo che le persone da lui contattate abbiano capito che l'intenzione era di usarle, un po' come figurine, e non abbiamo voluto farsi strumentalizzare solo per riflettere sulla scena un'immagine di novità, discontinuità e tutti gli altri concetti che vanno di moda in questa fase"(...)

mercoledì 19 febbraio 2014

La nuova legge turca su internet (da ilPost)

Il presidente turco Abdullah Gül ha firmato nella serata di martedì 18 febbraio una legge che aumenta le capacità di controllo del governo su Internet, nonostante le molte proteste e i molti appelli che gli erano stati rivolti perché ponesse il suo veto. Il presidente ha aggiunto di aver riconosciuto valide le “obiezioni” a due punti specifici della legge e di aver chiesto una correzione.
Come riporta il quotidiano turco Hürriyet, il governo di Recep Tayyip Erdoğan ha presentato nella stessa giornata di martedì due emendamenti e il ministro delle Comunicazioni Lütfi Elvan ha contattato i tre partiti di opposizione in Parlamento. L’emendamento più importante riguarda l’aggiunta di un ruolo di supervisione giudiziaria alle decisioni di bloccare siti Internet prese dal Direttorato per la Telecomunicazione (TİB): se entro 24 ore non riceverà l’approvazione di un tribunale, la decisione del TİB decadrà.
Il Wall Street Journal scrive che la legge, approvata dal Parlamento ai primi di febbraio, dà al ministero delle Comunicazioni (e in particolare al TİB) la possibilità di bloccare contenuti online ritenuti illegali o che violino la privacy di qualcuno. Per disporre il blocco non è necessaria, almeno inizialmente, l’autorizzazione di un giudice. Oltre a questo, la legge prevede che i provider registrino le attività dei loro utenti e conservino i dati per due anni, in modo da poterli consegnare alle autorità in caso di richiesta. (...)

Iran, Ieri e Oggi (da laStampa)

Se gli eventi che portarono alla nascita della rivoluzione stupirono gli storici, la sua evoluzione rientrò in schemi più oliati, con un Terrore a seguire la caotica e “creativa” fase iniziale. Sorprendentemente, la repressione rivoluzionaria provocò più morti di quella di Mohammad Reza Pahlavi. Khomeini contò 60 mila persone uccise dallo Shah, e ancora adesso nel preambolo della costituzione islamica si parla di “decine di migliaia di morti”. Ma Emadeddin Baghi, intellettuale di spicco e rivoluzionario della prima ora(che ha passato buona parte degli ultimi anni in galera) ha ricostruito, attraverso documenti ufficiali, un numero più basso: 3164. Mentre le vittime delle purghe rivoluzionarie sarebbero diverse centinaia dopo la presa del potere e circa 8 mila tra il 1981 e il 1985, in piena guerra con l’Iraq, e negli anni successivi. La disgrazia del successore designato di Khomeini, l’ayatollah Montazeri, morto nel 2009, sarebbe stata provocata proprio dalle sue critiche alla durezza della repressione islamica: nel 1989 si era opposto al massacro degli oppositori in prigione, 2500 persone uccise in poche settimane.

In un paese diviso in molte nazionalità di cui quella persiana è soltanto una, Khomeini cercò di dare al paese un’identità esclusivamente islamica, imponendo allo stato un ingombrante profilo ideologico. Nonostante ciò il nazionalismo persiano è tornato in tempi recenti ad emergere anche in ambienti considerati conservatori, come l’entourage dell’ex presidente Ahmadinejad.

La miglior eredità della rivoluzione del 1979 resta la Costituzione che racchiude in sé un raffinato meccanismo di pesi e contrappesi. Un bilanciamento di poteri che però, si è visto negli ultimi anni, è spesso rimasto sulla carta, scavalcato da una gestione autoritaria del potere. La costituzione iraniana contiene infatti molti elementi “progressisti”, retaggio della sua componente marxista, molto attiva nel 1979. “La sinistra - spiega l’analista politica irano-americana Shereen T. Hunter - voleva un sistema socialista con un sottile rivestimento islamico, invece ottenne un sistema islamico con un sottile rivestimento di sinistra”.

Le rivoluzioni, determinate a sciogliere ogni differenza nell’ideologia che le informa, finiscono immancabilmente per da vita a classi privilegiate, come mostra il fenomeno della burocrazia di stato nei “comunismi reali”. Nell’Iran di oggi questi agglomerati di potere che si sono ritagliati un posto di riguardo nella società e nell’economia sono le grandi istituzioni caritatevoli e soprattutto la Guardia Rivoluzionaria, i pasdaran, che hanno dato vita a una specie di stato nello stato, sul modello dei militari turchi prima dell’era Erdogan (ironicamente, i militari turchi erano un modello anche per la famiglia Pahlavi). Questa struttura, insieme con l’impatto devastante delle sanzioni, almeno dal 2006, rende l’economia del paese estremamente fragile e dipendente dal petrolio. Secondo la banca centrale iraniana, l’inflazione a gennaio era del 38,4 per cento. Su una popolazione di circa 80 milioni di persone, 15 milioni vivono sotto la soglia della povertà. In questo senso, certo anche a causa della forte pressione politica esterna, le promesse rivoluzionarie di condividere socialmente la ricchezza del petrolio, non sono state mantenute.

Internet Europeo? (da laStampa)

Come già accennato, infatti, per motivi che sono quasi sempre banalmente economici - ovvero, di minimizzazione dei costi - il traffico Internet tra due destinazioni europee passa non infrequentemente per l’estero, e in particolare passa per gli Stati Uniti che, anche per aver inventato e sviluppato Internet, hanno una infrastruttura di trasmissione dati molto competitiva. Tenere il più possibile in Europa i flussi dati intra-europei è un obiettivo ampiamente condivisibile. Paesi come Usa, Cina e Russia sono probabilmente da sempre attenti alle traiettorie fisiche dei propri dati web, ed è un bene che anche l’Europa si ponga finalmente il problema. L’effettiva implementazione, però, non sarà semplice. Da una parte, infatti, bisognerà mettere da parte il dogma che la mano invisibile del mercato sia la risposta, sempre e comunque, a qualsiasi problema. Dall’altra, bisognerà accuratamente evitare di «balcanizzare» la Rete, ovvero, di spezzare l’attuale Rete globale in sotto-reti nazionali o macro-regionali. A mio avviso è possibile farlo adottando un appropriato mix di «moral suasion», incentivi e regole, ma, ripeto, non sarà semplice: occorrerà molta accortezza, anche tecnica, e un acuto senso per le possibili conseguenze inattese di scelte in apparenza innocue.

domenica 16 febbraio 2014

L'AutoSfiducia Pd: Analisi Di Un Grave Errore

Ho provato a spiegare perché secondo me la scelta fatta dal Pd è un errore, temo grave. 

Inevitabilmente il discorso risente di valutazioni personali, e forse di semplificazioni di chi vive la cosa fra "esterno" e "interno" (non sono iscritto, ma seguo abbastanza da vicino le vicende), e questo può non aiutare.

Inevitabilmente il giudizio è anche probabilmente troppo generalizzato, nei confronti della dirigenza del Pd. Sicuramente questa è un po' un'ingiustizia, e mi scuso con chi magari potrebbe sentire un eccesso di severità.

Spero comunque che la riflessione - un po' lunga - possa aiutare a farsi un'idea.

Buona domenica e buon tutto

Francesco Maria

***

Sgomberiamo il campo da moralismi: la partita per il potere è sempre cosa dura e poco raffinata. Un amico che è in politica - quando discutiamo di queste cose - cita l'eterno Rino Formica: "la politica è sangue e merda"; se non sopporti la vista del primo o l'odore della seconda è meglio che cambi mestiere. Giusto, o quasi.

Comunque, dico questo solo per precisare che il problema che si è aperto in questi giorni con l'autosfiducia Pd (la chiamerei così, per far capire il paradosso cui sembriamo assistere; paragoni con tradizioni politiche di altri paesi mi sembrano fuori luogo) votata dalla Direzione nazionale non è un problema di "buone maniere", ma politico; certo,anche di stile; ma in questo caso lo stile non è un orpello inutile, ma più banalmente il modo in cui gestisci il rapporto con gli elettori, con i cittadini, e con le istituzioni (che non sono casa tua, anche se sei un partito glorioso).

Sgomberiamo il campo anche da altri possibili fraintendimenti: a tutti noi può essere capitato di "tradire" un principio a cui si era legati, votati, verso cui si era giurata fedeltà; la carne è debole, diceva un Tizio abbastanza più saggio di molti di noi; ma soprattutto a volte la vita ti pone di fronte a dinamiche che non puoi controllare totalmente e a conflitti di valore, o a situazioni nelle quali sei comunque costretto a scegliere. 

Secondo molti si diventa "adulti" così, quando si sceglie intimamente - prima ancora che esternamente - cosa sia più importante per noi, di fronte a opzioni radicalmente alternative ed escludentesi; ci si trasforma proprio perché si "taglia" una parte di noi, la si tradisce appunto; si comprende che la realtà richiede un sacrificio, e lo si interiorizza.

Quindi è giusto, a volte, "tradire" se stessi. Ma era questo il caso? E se sì (cosa di cui è lecito dubitare), è stato il comportamento del Pd - e dei suoi dirigenti, almeno della maggior parte (purtroppo in questa sede è inevitabile generalizzare) - consono a questa scelta che non è mai affatto semplice? Così non è parso: per velocità (direi fretta) e difficoltà di spiegare.

Qui non è in questione il fatto che la scelta politica sia l'ennesima conferma dell'ambizione dell'attuale segretario del partito (per chi come me non l'ha quasi mai avuto in simpatia non sarebbe una novità; ma di per sé questo non sarebbe un problema); qui è in questione che una scelta politica non è stata portata davanti al Paese con l'adeguata attenzione - anche umana - che una decisione così lacerante avrebbe meritato.

Tanto per citare un piccolo segno (non ho purtroppo avuto possibilità di verificare i particolari, prendetelo veramente come un segno "di costume", nulla di più), poco dopo la Direzione alcuni dirigenti avrebbero festeggiato le decisioni prese con un aperitivo, non proprio un comportamento da "scelta dura e dolorosa, ma necessaria". 

Qui preciso ancora: chi scrive non è un "democratico sempre e comunque"; credo che a volte nella gestione delle cose di Stato, colui che è chiamato a responsabilità di governo debba assumersi l'onere anche di mentire, se necessario per il bene della comunità. Ma una cosa è farlo per il bene della comunità, altro è farlo per il proprio tornaconto personale. 

E se per caso - ma è veramente questo il caso? - tornaconto personale e bene della comunità si avvicinano troppo (a volte può avvenire) non c'è da stare allegri; anche per il (preteso) leader è dunque il caso di aumentare l'autosorveglianza, non al contrario "sbracare" ed eccedere (a questa sorveglianza, teoricamente, servirebbero gli organismi dirigenti di una forza politica).

Perché la politica in democrazia è bestia strana: è vero, occorre a volte furbizia, ma mai troppa; occorre anche spregiudicatezza, ma da dosare con equilibrio. Perché comunque in democrazia c'è un "sentimento pubblico" di cui devi tenere conto, c'è una "fiducia complessiva" che regge il sistema e che può essere "zittita", "messa in sordina", "messa in tensione", ma fino a un certo punto. 

Perché se poi - per qualche sfortunata combinazione di fattori (che temo si sia verificata, in questo caso) - si supera il limite invisibile e impalpabile che separa la "tragica ma necessaria menzogna di governo" dalla "recita (un po' ridicola) del politicante", la rottura della fiducia rischia di essere totale, ingenerosa, e diffusa; e forse irreparabile. Temo che sia questo il caso, anche al di là della volontà dei singoli dirigenti.

Forse la troppa fretta, le poche spiegazioni, un combinato disposto di contraddizioni sia della maggioranza che dell'opposizione interne al partito; un approccio totalmente sbagliato nei confronti della persona di Enrico Letta; un approccio troppo visibilmente "eccitato" della persona del segretario del partito; una gestione approssimativa della partita delle riforme, che ora sembrano essere state accantonate (se si vuole durare fino al 2018), dopo aver promesso la velocità, la speditezza, la conclusione di tutto in pochi mesi.

Tragica contraddizione o ridicola messa in scena? Ahinoi, sembra prevalere la seconda.

Ora siamo costretti a "tifare" un governo, perché l'alternativa rischia di essere il disastro collettivo; ma proprio per evitare questi ricatti, esiste la politica; proprio per gestire queste dinamiche e "diminuire" l'azzardo - non esaltarlo - dovrebbero esistere le forze democratiche, i partiti.

Ultime considerazioni riassuntive:

1. Il guaio principale di questa dinamica, per il Pd, è che la "colpa" del leader è stata condivisa dalla quasi totalità della Direzione nazionale. Anche qui la cosa è ben strana: anche solo per furbizia tattica, si sarebbe potuto far vedere che c'era una dialettica. Lo spettacolo di giovedì è stato come vedere un esercito che si muove tutto e troppo velocemente verso un obiettivo che è poco definito, quasi un miraggio. E vien da dire: chi cura le retrovie? una qualsiasi forza organizzata sa che deve "spargersi", non muoversi tutta verso l'indefinito. Sa che deve gestire lo strappo, non esaltarlo. Perché poi se le retrovie sono sguarnite, l'avversario ha spazio per circondarti.

2. Il problema ulteriore - e qui ritorno a qualcosa di già detto in altri ragionamenti - è che le promesse fatte prima probabilmente erano troppo audaci, ma sarebbe meglio dire quasi assurde: "saremo diversi", "serietà è dire ciò che si fa e fare ciò che si dice", "noi non siamo come loro", "i vecchi riti della politica non ci appartengono". E via così dicendo. Ma appunto è quello forse il vero errore, o una sua componente essenziale: fingere che la politica - che è sempre anche"tattica", "mezze bugie", "complotto di palazzo" - non esista, che il Grande Leader di turno possa neutralizzare le dinamiche che - mi verrebbe da dire "in natura" - esistono e che non puoi evitare. Se si fosse stati meno "nuovisti", forse la sensazione di delusione non sarebbe stata così forte.

3. La logica complessiva che segna l'itinerario dell'attuale segretario del Pd sembra seguire le tracce di Craxi, le stesse seguite da Berlusconi e anche un po' da D'Alema. "Questo paese  è ingovernabile, e ci vuole una Grande Riforma"; il Grande Alibi che fu del leader socialista e che è diventato l'alibi di tutta una classe dirigente: non riusciamo a fare le cose perché non siamo "presidenzialisti", non siamo 'Stato forte', non siamo la Francia. La Francia intanto è in forte crisi, anche se lo "nasconde" bene. E la più "banale" Germania ha spiccato il volo con partiti 'classici' senza mutare il suo quadro costituzionale. L'Italia è un paese complesso. Forse sarebbe meglio imitare la Germania. Dobbiamo governare, non 'comandare'

4. Ecco, forse in questo "comandare" - verbo che indica il voler evitare la fatica di costruire un percorso, e la difficoltà di una condivisione - troviamo la tentazione ultima che è segno di questi tempi, e di questa politica. E' tragicamente vero che la velocità delle decisioni oggi è tale che a volte è necessario assumersi una responsabilità solitaria; ma è un attimo, un passo di troppo, una disattenzione - anche umana - che si fa strada; e la decisione diventa prepotente, troppo forte, incapace di essere sorretta. E il Paese non capisce, resiste. Frena. E non c'è "gaullismo all'amatriciana" che tenga. La politica anche più coraggiosa fallisce. 

E' inevitabile che avvengano gli scandali; e forse è bene che ci sia questo "scandalo"; perché in qualche modo la verità della politica poi torna a galla.

Oggi i cittadini sofferenti non hanno bisogno di facili slogan, ma di verità. Anche magari condita da qualche forzatura, da qualche compromesso, da qualche bugia. Ma - proprio perché ci aspettano scelte difficili - la verità del percorso difficile e lungo di qualsiasi politica non può essere nascosta.

Francesco Maria Mariotti