venerdì 31 gennaio 2014

“Restituiamo agli italiani la Memoria” (Intervista a Elena Loewenthal - Moked)

Eppure in questi ultimi anni abbiamo assistito a una intensificazione del lavoro sulla Memoria e da molti questa è considerata la migliore prevenzione perché non tornino gli errori del passato.
Credo che le sollecitazioni che arrivano in campo ebraico in questa occasione dovrebbero essere riconsiderate meglio. Siamo chiamati a salire alla ribalta. Ci dedicano uno spazio, talvolta anche significativo. Ma torniamo ai motivi ispiratori del Giorno della Memoria. Il 27 gennaio fu il giorno in cui furono aperti i cancelli di Auschwitz. Il momento in cui gli altri videro la realtà della persecuzione e dello sterminio. È la memoria vista dall’esterno, non dall’interno della storia di sofferenza dei perseguitati. E così dovrebbe restare uno spazio per far crescere la consapevolezza delle popolazioni europee, per aiutare l’Europa a fare i conti con il passato. Non è roba nostra, non è un problema nostro e nessuno ci fa una cortesia. Non è uno spazio di conoscenza della cultura ebraica. E non possiamo essere noi i protagonisti di questo processo di recupero della memoria.

E questo equivoco comporta dei rischi?
L’assuefazione alla memoria di comodo, alla celebrazione della memoria, non è solo deteriore, ma anche pericolosa. Perché pone il problema al di fuori del campo dove deve trovarsi e finisce per deresponsabilizzare chi crede di fare in una giornata i conti con il problema della memoria e dell’identità dell’Europa.

La soluzione quale sarebbe?
Non ho una risposta. Ma credo che in quanto ebrei dovremmo riflettere sulla possibilità di fare un passo indietro. Di spiegare alla società che la Memoria deve essere un suo patrimonio e una sua conquista, non un momento di omaggio e di riconoscenza per rendere noi protagonisti. Dovremmo aiutare gli italiani a riappropriarsene. Più si rende in questa occasione omaggio alla cultura ebraica e meno si capisce il problema proprio e la memoria propria. Il mito degli italiani brava gente, certo fondato sul reale coraggio dimostrato da alcuni, ma contraddetto da molti altri provvedimenti e azioni di cui l’Italia porta la responsabilità, è per esempio molto cresciuto da quando il Giorno della Memoria è stato istituito. Così facendo non cresce la coscienza civile, e proprio per questo dovremmo credo chiamarci fuori.

Come vede oggi quello che accade in questa stagione? 
Siamo nel pieno di un fenomeno ipercelebrativo che non favorisce una crescita, non accresce per la popolazione italiana la capacità di fare i conti con il passato. E questo obbedisce alle norme di una società dove conta solo l’evento e tutto, dal contenuto dei giornali alle uscite in libreria, deve obbedire alla logica dell’evento. Il mercato editoriale passa direttamente dalla stagione delle strenne di dicembre alla stagione della memoria.

giovedì 30 gennaio 2014

Occhio Agli Emergenti

(...) Yellen non ha “la palla di cristallo” ma è considerata una specie di Cassandra della macroeconomia (le sue stime sono state le più accurate tra quelle dei consiglieri della Fed) e la competenza nella regolamentazione finanziaria può aiutare a temperare gli eccessi di Wall Street accanto, ovviamente, alla riduzione degli stimoli, cosa che in questi giorni agita i mercati emergenti, beneficiari della liquidità americana. Additare la Fed fa comodo pure ai governi di Argentina, Thailandia e soprattutto Turchia, sotto scrutinio degli investitori più che altro per i rivolgimenti politici interni e le politiche monetarie poco ortodosse. Il sussulto di indipendenza della Banca centrale turca, che ha alzato tutti i tassi di riferimento contravvenendo ai diktat del premier Recep Tayyip Erdogan, ieri ha risollevato la lira svalutata. Il governatore, Erdem Basci, ha riaffermato la credibilità dell’Istituto con una stretta volta a ridimensionare un’economia gonfiatasi a dismisura ma tuttora molto fragile in quanto estremamente dipendente dagli investimenti esteri.


(...) Sfortunatamente, per loro e per tutti noi, gran parte dei paesi emergenti “non hanno fatto i compiti a casa”, come direbbe la maestrina Merkel, cioè non hanno mai fatto riforme per rendere competitive le proprie economie, limitandosi a godere del boom creditizio che flussi di denaro “caldo” dall’Occidente hanno prodotto. Alcuni di questi paesi hanno così accumulato ampi deficit delle partite correnti, cioè di competitività, ed ora saranno brutalmente costretti a tirare la cinghia. Esemplare il caso della Turchia, che si ritrova con forti debiti in dollari del proprio sistema creditizio e produttivo, e riserve valutarie ormai al lumicino. Inevitabili i forti aumenti dei tassi d’interesse e la rotta di collisione tra autorità monetarie e potere politico, che dovrebbe fare l’altra metà del lavoro sotto forma di stretta fiscale. (...)


Non sono bastate le misure straordinarie. Almeno per ora. Dopo il meeting d’emergenza della banca centrale, la lira turca ha continuato il suo deprezzamento contro le altre valute. Lo stesso ha fatto il rand sudafricano. Lo stesso ha fatto il peso argentino. Lo stesso hanno fatto le valute degli emergenti. Gli investitori temono che le autorità monetarie dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e dei Mikt (Messico, Indonesia, Turchia, Corea del Sud), possano intervenire - per esempio attraverso l’introduzione di restrizioni sulla libera circolazione dei capitali - per frenare la fuga degli operatori. Il massiccio sell-off visto in queste settimane, avverte HSBC, non è che l’inizio. Il peggio, specie con l’avanzamento dell’assottigliamento del QE della Fed, deve ancora arrivare. Anche perché, lo ricorda la banca angloasiatica, il 63% delle riserve valutarie mondiali è denominato in dollari statunitensi. Più la Fed riduce la liquidità esistente, più si amplificano le distorsioni domestiche delle economie emergenti, più si restringono le vie di accesso al credito dei sistemi bancari di questi Paesi. E questo potrebbe peggiorare con l’innalzamento dei tassi d’interesse da parte delle banche centrali a livello globale, dopo il più lungo periodo di Zero-interest rate policy dal Secondo dopoguerra a oggi. In sostanza, una spirale della morte. 

http://www.linkiesta.it/brics-crisi-contagio-mondo


La Democrazia E' Conflitto (+ Rassegna stampa su "quote" Banca d'Italia)

Oggi (ieri, oramai, a essere precisi), Enrico Mentana ha detto durante il suo telegiornale che alla Camera non si erano mai viste scene come quelle che hanno posto in essere i cosiddetti "grilllini". Questa sera si è anche saputo dell'occupazione dell'aula della prima commissione, con impedimento al lavoro dei parlamentari. 

L'atteggiamento dei deputati grillini è sicuramente eccessivo e discutibile, e ci sono gli strumenti regolamentari per eventualmene punire i deputati che hanno esagerato; personalmente sono lontano anni luce da quel movimento, e rimango dell'idea che la stabilità sia un valore primario - oggi - per l'Italia, e in questo senso appoggio - pur con molti dubbi - il governo Letta.

Detto ciò, non è il caso di alzare eccessivamente i toni, nel giudicare e reagire alle "prepotenze" del movimento grillino. Credo che tutti ricordiamo scene "pesanti" in Parlamento; fa parte delle dinamiche anche dure che possono esserci fra maggioranza e opposizione. 

C'è comunque una cosa che una qualsiasi maggioranza democratica non può fare: pretendere di dettare alla minoranza come deve fare la minoranza, come deve fare opposizione. Non può. Anche se la minoranza utilizza metodi e stile discutibili.

Certo, devono esserci regole - come quella oggi richiamata dalla Presidente Boldrini - con le quali riuscire a sbloccare l'impasse parlamentare; certo, come si dice spesso, la nostra deve essere una democrazia "che decide", e quindi a un certo punto "meccanismi - tagliola" sono inevitabili.

Però - soprattutto in un momento storico come quello attuale, e ancor più in una fase delicata come quella in cui si dicute di nuove norme elettorali - non ci si può scandalizzare se una forza politica che ha sempre detto di fare opposizione dura la fa poi realmente. 

Altrimenti - al di là delle migliori intenzioni - si rischia di assomigliare a quei leader politici che dicono alle opposizioni: "Lasciateci lavorare", "Non disturbate il manovratore", e via così dicendo... 

No, spiacente. Democrazia è conflitto, anche nelle sedi del dibattito (anzi, forse deve esserlo soprattutto lì, anche per "evitare" e "assorbire", diciamo così, il conflitto fra i cittadini...). 

Meglio non dimenticarlo.

Francesco Maria

ps: sul problema delle "quote" di Banca d'Italia alcuni articoli di approfondimento

(...) L’assetto azionario della Banca va però rivisto, per almeno tre ragioni. In primo luogo, i processi di concentrazione avvenuti negli ultimi anni hanno accresciuto la percentuale del capitale della Banca detenuta dai gruppi bancari di maggiori dimensioni. Ciò non ha creato problemi di sostanza, grazie alle norme che limitano i diritti dei partecipanti, ma è necessario evitare la possibile (erronea) percezione che la Banca possa essere influenzata dai suoi maggiori azionisti.
In secondo luogo, occorre evitare che si dispieghino gli effetti negativi della legge n. 262 del 2005, mai attuata, che contempla un possibile trasferimento allo Stato della proprietà del capitale della Banca. L’equilibrio che per anni ha assicurato l’indipendenza dell’Istituto, preservandone la capacità di resistere alle pressioni politiche, non va alterato.
In terzo luogo, è necessario modificare le norme che disciplinano la struttura proprietaria per chiarire che i partecipanti non hanno diritti economici sulla parte delle riserve della Banca riveniente dal signoraggio, poiché quest’ultimo deriva esclusivamente dall’esercizio di una funzione pubblica (l’emissione di banconote) attribuita per legge alla banca centrale.(...)
Il modo più ovvio per ridurre la concentrazione dei partecipanti al capitale della Banca consiste nell’introduzione di un limite massimo alla percentuale di quote detenibili da ciascun soggetto, ampliando al tempo stesso la base azionaria. A tal fine, le quote dovrebbero essere facilmente trasferibili e in grado di attrarre potenziali acquirenti (investitori istituzionali con un orizzonte di lungo periodo).
Per raggiungere questi obiettivi è necessario: i) calcolare il valore corrente delle quote della Banca; ii) aumentare il valore del capitale della Banca (al momento puramente simbolico), trasferendo una parte di riserve a capitale; iii) attribuire ai partecipanti un flusso futuro di dividendi, il cui valore attuale netto sia pari al valore corrente stimato delle azioni della Banca (ponendo contemporaneamente fine a ogni eventuale pretesa sulle riserve statutarie); iv) fissare un limite
massimo alla quota di capitale detenibile da una singola istituzione o gruppo, stabilendo un intervallo temporale entro il quale cedere obbligatoriamente le quote eccedenti.(...)



La rivalutazione delle quote della Banca d'Italia continua a essere uno dei punti più spinosi per Il Tesoro. Una mossa che permetterà agli istituti di credito italiani di avere una posizione migliore rispetto a quella odierna nella prossima Asset Quality Review della Banca centrale europea. Potranno infatti avere più capitale a disposizione per affrontare la sorta di due diligence che sarà condotta nei prossimi dodici mesi. Allo stesso tempo, potranno godere di agevolazioni, come quelle sui dividendi. Un atteggiamento, quello tenuto dal Tesoro, che però continua a impensierire sia Commissione europea sia Bce, che stanno studiando le possibili implicazioni della misura. Mario Draghi ha spiegato oggi 5 dicembre che il consiglio direttivo della Bce non ha ancora stilato un parere in merito, mentre il Senato ha dato disco verde al decreto nonostante la bocciatura di ieri da parte della commissione Affari costituzionali.


Quello che il governo propone è che il valore nominale di queste quote sia rivalutato. Dagli attuali 156 mila euro a un valore che oscilla fra i 5 e i 7 miliardi. Fatta la rivalutazione, le banche potrebbero iscrivere a bilancio il valore rivalutato delle quote generando quindi una plusvalenza finanziaria complessiva che andrebbe dai 4 ai 6 miliardi. Plusvalenza che sarà tassata come una normale plusvalenza finanziaria. Meccanismo semplice e redditizio: con un tratto di penna il governo potrebbe alla fine recuperare circa 1-1.5 miliardi (il gettito derivante dall’imposta sulla plusvalenza), utilissimi a far quadrare i conti. Assumere una rivalutazione compresa fra i 5 e i 7 miliardi non è ipotesi di scuola. Il comitato di esperti nominati dal governo per portare avanti la rivalutazione - esperti di indubbia caratura accademica se vi compare il rettore della Bocconi Andrea Sironi insieme a Franco Gallo e Luca Papademos (qui il link al rapporto) - ha individuato tale forchetta come valore congruo per le quote di Banca d’Italia. A prima vista potrebbe sembrare che saranno gli istituti di credito a pagare per le promesse del governo di larghe intese. Non è così purtroppo.


A giorni la commissione di esperti incaricati di valutare il patrimonio di Banca d’Italiaconsegnerà il suo rapporto al governatore Ignazio Visco. Ma i principali protagonisti della cosiddetta Cabina di Regia hanno già fatto i loro calcoli e  contano su questa operazione per finanziare nuove spese o riduzioni di tasse senza coperture. Vediamo prima di cosa si tratta e poi perché è un’operazione molto pericolosa, in cui le banche che detengono quote di Banca d’Italia e il Governo possono colludere ai danni dei contribuenti.
Le banche italiane che un tempo facevano parte del settore pubblico allargato detengono ancora il 94,33 per cento del capitale di Banca d’Italia. Solo il 5 per cento è proprietà di enti pubblici come Inps e Inail. È un retaggio del passato, che risale all’epoca delle banche d’interesse nazionale. Per quanto non abbiano mai consentito a queste banche, poi divenute private, la benché minima possibilità di incidere sugli indirizzi di vigilanza, né su qualsiasi altro aspetto dell’attività della Banca d’Italia, sarebbe opportuno, prima o poi, trasferire le quote ad enti pubblici oppure a una fondazione creata ad hoc, come in Francia. Del resto è lo stesso statuto di via Nazionale a contemplare che la Banca debba essere di proprietà pubblica. Ed è difficilmente immaginabile una banca nazionale posseduta da soggetti privati stranieri, quali sono già alcuni istituti bancari che detengono le quote e, presumibilmente, altri ancora lo saranno alla luce dei processi di aggregazione in atto a livello continentale dopo la crisi. Ma a che prezzo si può organizzare il trasferimento?

martedì 21 gennaio 2014

Cambiare l'Europa - Processo liberista all’euro e all’Italia che non sa crescere (da ilFoglio.it)

Un articolo molto interessante su cosa si può cambiare in Europa. Argomento che ovviamente da qui alle prossime elezioni seguirò con maggiore attenzione. Perché l'Europa diventi sempre di più la nostra nuova patria.
FMM

(...) L’altro aspetto che secondo me è importante ricordare è che noi siamo entrati nell’euro come meccanismo di credibilità della nostra politica monetaria e della nostra politica fiscale. Se avete fatto gli studi classici, ricorderete l’esempio di Ulisse che si fa legare all’albero maestro della nave per non farsi attrarre dalle sirene, è un esempio bellissimo di quello che si chiama una politica di legarsi le mani in anticipo per un fine strategico. La nostra entrata nell’euro ha avuto esattamente questa funzione.

Questa è stata pensata contro un rischio di inflazione e di eccesso di spesa. Oggi però ci troviamo in una situazione molto diversa, dove i rischi maggiori sono i rischi di fallimento dello stato e di deflazione. Il grosso rischio è dire: noi ci siamo legati le mani per non fare certe strategie, però se Ulisse fosse andato contro gli scogli per colpa della strategia di legarsi all’albero, quella si sarebbe rivelata la strategia peggiore visto che sicuramente, finendo contro gli scogli, non si sarebbe potuto liberare. In qualche senso noi siamo oggi in questa situazione: da un lato abbiamo ottenuto grossi vantaggi che abbiamo sprecato, e dall’altro lato non abbiamo una flessibilità di cui abbiamo bisogno – di cui l’Europa avrebbe bisogno – in questo momento. Allora quali sono le cose che si possono fare in un semestre europeo a presidenza italiana per cercare di cambiare questa situazione? La mia visione è che senza un cambiamento radicale della politica europea, questa situazione non sia nel lungo periodo sostenibile. Dopo di che questo non vuol dire che non possa essere sostenuta per molti anni, ma se sostenuta per molti anni ha dei costi che vi illustrerò a breve. Allora, cosa si può fare?

Secondo me. ci sono tre canali importanti su cui operare. Il primo è molto semplice, è stato iniziato, ma non è stato realizzato in maniera corretta: ovvero come permettere una Unione bancaria che tratti tutti nello stesso modo. Qual è il problema? Lo sapete ormai tutti, c’è un circolo vizioso tra solvibilità dello stato e solvibilità delle banche, per cui in un mondo in cui le banche hanno implicitamente un supporto da parte dello stato, gli stati ricchi hanno le banche solide, gli stati poveri hanno delle banche non solide. E delle banche non solide creano problemi economici che rendono gli stati ancora meno solidi; è un circolo vizioso da cui non è facile uscire. Quindi l’idea di dire “facciamo un’assicurazione sui depositi a livello europeo”, come è stato iniziato con l’Unione bancaria, e “facciamo una vigilanza bancaria a livello europeo”, secondo me è corretta. Come è corretta la posizione tedesca di dire: “Noi non vogliamo semplicemente fare chi paga per gli errori altrui”. Il modo più corretto per risolvere questo problema è di recidere radicalmente questa connessione tra solvibilità dello stato e solvibilità delle banche, e questa garanzia implicita dello stato nei confronti delle banche. Con un collega di Harvard, ho lavorato a un meccanismo di pronto intervento sulle banche per evitare che si arrivi alla situazione in cui gli stati devono intervenire. Se noi avessimo una situazione di “pronto intervento” uguale per tutti gli stati europei, avremmo due vantaggi: il primo, interromperemmo questa spirale tra banche e stati; secondo, metteremmo tutte le banche europee sullo stesso piano. Invece il meccanismo che ha prevalso nell’Unione europea è un meccanismo in cui inizialmente – è vero – sono i creditori delle banche a pagare il costo, però alla fine c’è anche un fondo comune e in parte però rimane la possibilità per gli stati di intervenire. Perciò oggi, implicitamente, le banche tedesche hanno una maggiore solvibilità delle banche italiane.

Ricordatevi che i tedeschi, che sono contro tutti i “bailout” (o salvataggi, ndr) degli altri paesi, hanno fatto un bailout enorme delle loro banche, specie di quelle locali, all’indomani della crisi. Queste banche erano piene di titoli tossici americani e lo stato tedesco ha trasferito un grosso ammontare di risorse verso tali istituti di credito. Quindi la prima cosa da combattere è questo sistema di due pesi e due misure. (...)

Il secondo punto importante è un meccanismo di redistribuzione fiscale. Durante la crisi, in Italia c’è stata una forte pressione verso gli Eurobond. Questa mi pare una strategia sbagliata. Noi non possiamo, a livello europeo, andare a dire “voi dovete pagare i nostri crediti”, perché è una strategia che non funziona. Siccome nessun paese ha un grosso interesse a pagare i crediti altrui, noi possiamo chiedere quello che vogliamo ma non andremo da nessuna parte. Invece possiamo fare una differenza – e il semestre europeo a presidenza italiana per questo è un’enorme opportunità – dicendo: quello che noi vogliamo non è un meccanismo permanente di redistribuzione dal nord al sud, considerato che nessuno al nord vorrà questo meccanismo. Tuttavia un’area comune con una moneta comune deve avere dei meccanismi di stabilizzazione automatica con fondi comuni, quindi meccanismi che assicurino un certo “smoothing” del ciclo economico tra le varie aree europee.

Qual è il meccanismo automatico di stabilizzazione migliore che noi conosciamo? Sono i sussidi di disoccupazione; quindi la vera battaglia che noi come italiani dobbiamo fare durante il semestre europeo, è di dire: “Noi vogliamo un meccanismo di assicurazione della disoccupazione a livello europeo pagato con dei fondi europei”. Il bello di questo meccanismo è che non è un meccanismo permanente di trasferimento dal nord al sud. (...). Tra l’altro il grosso vantaggio di una iniziativa di questo tipo è anche di tipo politico, se posso permettermi di dirlo visto che io non sono un esperto in materia: nel senso che oggi l’Europa soffre una crisi di consenso generalizzato; nella misura in cui i disoccupati vedessero arrivare un assegno con il simbolo dell’Europa sopra, essi avrebbero una passione per l’Europa sicuramente molto maggiore di quella che è presente oggi. E di fronte agli estremismi che vedono l’Europa come una creazione di un’élite molto limitata, avere invece un meccanismo come quello di assicurazione contro la disoccupazione, riduce questo rischio.

Il terzo punto che è spesso ignorato ed è molto importante, riguarda chi e come disegna la regolamentazione. Naturalmente ogni paesi fa i suoi interessi; però essendo la Germania, e in parte la Francia, molto influenti, sia per dimensione sia anche per qualità del proprio personale burocratico, noi abbiamo oggi una situazione in cui la regolamentazione a livello europeo è una regolamentazione franco-tedesca. (...) Quindi la terza cosa che andrebbe fatta in questo semestre è un ripensamento degli effetti competitivi della regolamentazione, soprattutto sulle imprese del sud Europa.(...)

domenica 19 gennaio 2014

Le Trappole Della Retorica Politica, Le Questioni Realmente Importanti

Oggi sul tavolo della politica - e quindi sul "nostro" tavolo, perché la politica siamo anche noi, ci piaccia o meno - c'è la riforma elettorale. Argomento in realtà non molto importante, soprattutto se non viene accompagnato a riforme che stabilizzino realmente i governi (e che difficilmente si trovano nella legge che regola il voto; penso per esempio a sistemi di sfiducia costruttiva o regole per la formazione dei gruppi parlamentari) o che diano realmente poteri forti al premier e al governo (comunque nulla a che vedere con la "cosmesi" del presidenzialismo, secondo me).

La discussione sulle proposte che stanno girando è inoltre viziata dal fatto che ci siamo incastrati - oserei dire che ci siamo autointrappolati - su una questione mal posta ("permetteteci di scegliere il nostro rappresentante"), che in realtà non è così importante, e che rischia di "obbligarci" a giudicare negativamente scelte che non sono forse così strane (Stefano Ceccanti, costituzionalista, in queste ore sta ricordando come l'anomalia - nello scenario europeo - siano le preferenze, non le liste bloccate, già in uso in altri paesi).

Da questo caso forse si capisce che in politica è necessario agire con cautela anche nei momenti polemici, indirizzando correttamente il cosa e il come della critica (a volte soprattutto il come, evitando sempre toni apocalittici). Troppo spesso una critica mal posta prima (penso per esempio alla critica generalizzata alla Bossi-Fini sull'immigrazione, mescolata - temo impropriamente - alla questione della punibilità penale dell'immigrazione clandestina) rischia di far apparire i compromessi inevitabili del poi tutti inaccettabili.

Forse ho speso troppe parole; andiamo dunque alle questioni veramente importanti: It's the economy, stupid...
E quindi, anche in vista delle prossime scadenze elettorali per l'Europa, mi permetto di segnalare argomenti di riflessione soprattutto economica di cui trovate estratti di seguito:
  1. A proposito di Europa e di retorica della politica: interessante articolo sul Fiscal Compact, che forse non è quella mostruosità draconiana che sembra essere passata nell'immaginario; tema su cui è il caso di tornare in futuro per approfondire ulteriormente.
  2. A proposito di semplificazioni: funzionano le ricette del Fondo Monetario Internazionale? Forse sono troppo astratte? Un bell'articolo di Fabrizio Goria sui paesi che in Europa le hanno adottate e che si stanno riprendendo.
  3. Cosa fare contro la disoccupazioneAlcuni articoli - in particolare un paio del centro studi Nomisma - per tentare di trovare strumenti con cui reagire; sicuramente non basterà la ripresa e non saranno necessariamente utili gli ennesimi correttivi sul piano del diritto del lavoro.
  4. Come leggere il periodo attuale? Ci sarà un ritorno della mano pubblica nell'economiaun articolo molto interessante di Stefano Cingolani per provare a fare un punto della situazione.
  5. In ultimo tento di presentare con il richiamo di un paio di articoli la figura di Stanley Fisher, keynesiano anomalo e pragmatico, che avrà un ruolo importante nella FED, a fianco del nuovo Governatore, Janet Yellen.
Buona lettura

Francesco Maria Mariotti

Quante bugie sul Fiscal compact (da First online)

(...) Su un punto, tuttavia, sembra esserci una sostanziale convergenza di vedute: il Fiscal Compact - sottoscritto nel 2012 dal governo Monti - deve essere rivisto, se non addirittura abolito come proposto da Beppe Grillo. Le nuove regole sono considerate un ostacolo alla crescita economica. A cominciare da quella sul debito (articolo 4) che impegna i 25 paesi firmatari (il Regno Unito e Repubblica Ceca non hanno aderito) a ridurre il proprio debito di un ventesimo per la parte eccedente la soglia del 60 per cento del Pil. Ciò comporterebbe per l’Italia un taglio di 45-50 miliardi l’anno, per un totale di circa 900 miliardi di euro nell’arco dei prossimi venti anni.

Se queste sono le cifre, verrebbe da pensare che chi ha firmato il Fiscal Compact fosse in preda alla follia. In realtà, non è così. E, infatti, una lettura attenta del Trattato mostra che il taglio del debito richiesto all’Italia non ammonta a 50 miliardi l’anno, bensì ad un massimo di 7 miliardi, da effettuare una tantum. Vediamo il perché.

Per valutare l’osservanza della norma, non si deve solo considerare la riduzione di un ventesimo - nella media del triennio precedente - del debito effettivo (criterio cosiddetto backward looking). Si può tener conto anche del ciclo economico (criterio del ciclo) e/o dell’andamento del debito previsto nei due anni successivi all’applicazione della regola (criterio forward looking). In sostanza, la regola del debito richiede i rispetto di almeno uno dei suddetti tre criteri.

Chiarito questo punto, veniamo al caso italiano. In base alle previsioni contenute nella Nota di aggiornamento del Documento economico e finanziario - pubblicata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze lo scorso ottobre -, sia il criterio del ciclo sia quello forward looking sono pienamente rispettati. Chi è al governo - o chi lo era nel mese di ottobre -, non ha quindi ragioni per preoccuparsi.(...)

Il nuovo mostro globale si chiama stag-deflazione (da Linkiesta.it)

(...) Scelte monetarie coraggiose (americane, ma anche europee) hanno impedito che la grande recessione diventasse una grande depressione. Adesso, però, si vede che le banche centrali da sole non riescono ad avviare un nuovo ciclo di sviluppo. Quanto alle politiche fiscali, sono alla frutta. Se è così, ci aspetta un futuro dominato da spinte negative: popolazione in calo, aspettative crescenti e risorse calanti, mancanza di un acceleratore della forza e pervasività dell’elettronica, e soprattutto di un paradigma forte come la rivoluzione liberista che ha risposto al cambiamento dei termini di scambio provocato dall’aumento improvviso e fortissimo del petrolio e delle materie prime. Teoria e prassi allora si mossero all’unisono, in questo modo ebbero un ruolo importante, anzi determinante. Oggi non è così anche se la forza delle cose riporta in auge la mano pubblica come alternativa ai fallimenti della mano invisibile del mercato.
Il ritorno dello stato, in realtà, non appare un passo avanti, ma semmai due passi indietro ed è tutto giocato sul breve periodo; nessuno può più pensare che un governo possa gestire l’automobile, l’acciaio, le telecomunicazioni. Tanto meno nell’era web. Internet è il moderno monumento alla libertà individuale e al mercato. (...) 

Il driver, dunque, non può essere il governo. Anche perché non è possibile fare il keynesismo in un solo paese: era vero quando c’erano le frontiere nazionali è ancor più vero oggi. Lo sanno anche i keynesiani i quali, infatti, chiedono qualche forma di controllo sui capitali o di tassazione alle attività finanziarie. Con il rischio di un grave effetto boomerang: il libero scambio delle merci e dei capitali è sempre stato (fin dall’Ottocento) la chiave della crescita mondiale e il ristagno odierno s’accompagna a un inaridirsi delle fonti di finanziamento e degli investimenti. Il flusso tra le economie del G20 era pari al 20% del prodotto totale nel 2007, con la recessione è sceso al 4,3%. Paul Krugman (economista e premio Nobel, ndr) sostiene che il limite delle attuali politiche di deficit spending è che non si è speso abbastanza, i nuovi keynesiani, in altre parole, non sono puri e duri come i vecchi. Eppure, è chiaro che ormai nemmeno il governo degli Stati Uniti il quale tradizionalmente ha sempre avuto minori vincoli esterni, può spendere e spandere quanto vuole. Il signoraggio del dollaro come lo chiamava il generale de Gaulle s'è ridotto. Persino negli anni del boom il mercato non riusciva a finanziare i consumi e gli investimenti degli americani i quali si sono messi nelle mani dei cinesi; figuriamoci adesso. E anche se ci fosse un governo mondiale, non sarebbe mai in grado di controllare il gran gioco dello scambio, come lo chiamava Fernand Braudel. E per fortuna.(...)

venerdì 17 gennaio 2014

Disoccupazione: Come Reagire? Basterà La Ripresa?

Il dramma della disoccupazione rischia di aggravarsi, nonostante si percepiscano i primi segnali di ripresa. Come già scritto in passato il rischio è che la situazione si aggravi per persone che sono rimaste ferme troppo tempo. Mi pare vadano in questo senso i ragionamenti che vengono svolti negli articoli di Nomisma che propongo di seguito. 

Non so dire se la soluzione proposta (una sorta di patrimoniale che viene descritta nel secondo articolo in particolare; purtroppo in questo momento il link appare non raggiungibile) sia efficace, ma quel che è certo è che non può bastare toccare nuovamente le regole sul lavoro, anche perché i fattori importanti oggi - come forse quasi sempre - non sono quelli normativi

Prima la politica la smetterà di discutere di questioni di riforme istituzionali, e darà una tregua al paese sulle questioni di "politica politicata", prima si potranno prendere in mano le questioni economiche e aiutare i cittadini a riacquistare fiducia nel futuro.

FMM 

(...) Il mercato del lavoro del 2007 era segmentato, iniquo, escludente; ma di pieno impiego. Come valutare quello di oggi? Il raddoppio delle statistiche dalla disoccupazione non è stato causato da un peggioramento dei difetti di funzionamento che si avevano nel 2007, ma dalla recessione. Quella che si osserva è per la gran parte disoccupazione di tipo keynesiano, determinata da un livello inadeguato della domanda aggregata. I posti di lavoro disponibili sono pochi e razionati, al punto che la disoccupazione non può essere eliminata per quanto prolungato è lo sforzo di ricerca condotto dai lavoratori inoccupati e per quanto significativo è il taglio di retribuzione che essi sono disposti ad accettare pur di accedere a un lavoro. In queste condizioni vi è un’elevata probabilità che se un’impresa non assume un lavoratore in più non è tanto per un suo costo eccessivo, quanto perché, in un mercato asfittico e con rarefazione del credito, non saprebbe come utilizzarlo. A corollario di questa osservazione, è rilevabile che misure volte ad abbassare i costi espliciti e impliciti (come quelli di licenziamento) di ingresso nell’occupazione e le connesse rigidità, pur contribuendo a intensificare il ricambio nei flussi di entrata e uscita nel mercato del lavoro e a renderlo meno iniquo, non riescono a ridurre in modo sostanziale il livello complessivo della disoccupazione che dipende dallo stato dell’economia .  Si modificherà con l’incipiente ripresa questa situazione? Dato il modesto tasso di crescita atteso, c’è il rischio che il miglioramento del mercato del lavoro risulti insufficiente. (...)
In mancanza di una ripresa adeguata, la disoccupazione tende a incancrenirsi. Già oggi si osserva che una quota pari al 57% dei disoccupati è costituita da individui che sono senza lavoro da oltre un anno; tra i disoccupati sotto i 25 anni questa percentuale è del 54%. Il distacco prolungato da un’attività produttiva deteriora le abilità lavorative, rendendo queste persone meno attraenti per un datore di lavoro. Ne consegue che le probabilità di reimpiego di coloro che sono a lungo senza un’occupazione risultino, in condizioni di ripresa economica, più basse rispetto agli altri lavoratori. Ciò può essere particolarmente penalizzante per i giovani, il cui ritardato ingresso nel mondo del lavoro determina danni permanenti nelle loro future carriere retributive e contributive. Ma gli effetti avversi della disoccupazione di lungo periodo riguardano più in generale il funzionamento dell’economia. L’ampliarsi del bacino di persone inoccupate per lungo tempo rischia di alimentare la disoccupazione strutturale, ovvero quella quota di senza lavoro che è resistente al miglioramento del ciclo economico e sotto la quale non si può scendere senza creare inflazione. La disoccupazione keynesiana se non corretta con una decisa ripresa della domanda può, dunque, tradursi in un peggioramento permanente degli equilibri del mercato del lavoro.(...)
Il peggioramento della relazione tra posti vacanti e disoccupazione (più disoccupati per ogni posto vacante) non è, infatti, un fenomeno generalizzato, ma è da attribuire alla componente dei disoccupati che sono senza lavoro da oltre un anno (figg. 2a e 2b). In altri termini, la pur bassissima domanda di lavoro è rimasta per una sua quota insoddisfatta perché si è modificata la composizione del bacino dei disoccupati con una crescita della presenza di quelli di lungo periodo, caratterizzati da una minore appetibilità rispetto alle necessità delle imprese e per questo motivo non più richiesti. (...)
L’aumento prolungato della disoccupazione keynesiana porta quindi con se, in assenza di correzione, i germi di un deterioramento strutturale che è difficile da curare. Il reinserimento dei disoccupati di lungo periodo nel mondo del lavoro solleva problemi in parte diversi da quelli che riguardano l’inclusione dei giovani che si affacciano nel mercato del lavoro o degli inattivi che tornano a cercare un’occupazione. Se un disoccupato da oltre un anno viene percepito per le sue caratteristiche come non rispondente alle esigenze delle imprese, può non essere sufficiente abbassarne il costo di reclutamento per renderlo appetibile. Occorrono efficienti politiche di formazione, riorientamento e inserimento nelle imprese in espansione, politiche di cui, però, l’Italia è oggi effettivamente priva. Esse vanno associate a un adeguato sistema di assistenza sociale (dal sussidio di disoccupazione per tutti coloro che perdono il lavoro a forme universali di sostegno del reddito) che miri sì ad attivare inclusione, ma che metta anche nel conto la possibilità di fallimenti nelle operazioni di reinserimento. Questi ultimi saranno infatti tanto più probabili in un’economia in cui l’attività crescerà a ritmi molto contenuti e dove l’offerta di lavoro supererà per un prolungato periodo la domanda, talché la concorrenza tra disoccupati per l’accesso a posti scarsi tenderà a mantenere persistentemente “fuori dai cancelli” le tipologie di lavoratori che risulteranno meno attraenti per le imprese.

Per contrastare lo scenario di bassa crescita che contraddistingue la nuova normalità italiana e tornare ad avvicinarsi fra cinque anni, anziché dieci, ai livelli di benessere che i cittadini del nostro Paese avevano nel 2007, occorrerebbe un’accelerazione dell’attività economica verso ritmi del 2-2,5% all’anno tra il 2014 e il 2018[1]. Le attuali previsioni, anche le più ottimistiche, proiettano dinamiche del PIL distanti da questo sentiero, con un mercato del lavoro che non tornerà, neppure nel 2023, ai livelli pre-crisi (6% di disoccupazione). Il freno a una ripresa più robusta deriva da un difetto di domanda aggregata, come mostrano le stime dei previsori circa un ampio output gap (differenza tra domanda effettiva e prodotto potenziale) per diversi anni a venire. Se non corretta, la mancanza di domanda rischia di tradursi in un deterioramento delle capacità di sviluppo della nostra economia, incidendo, insieme con la rarefazione del credito, su dimensione ed efficienza della base produttiva. Se ciò si verificasse, l’output gap si annullerebbe non tanto per l’aumento della domanda aggregata, quanto per l’adeguamento dell’offerta potenziale alle più basse capacità di assorbimento del Paese. Una domanda maggiore è dunque oggi essenziale, più ancora delle riforme strutturali, per salvaguardare il lato dell’offerta.
Per cercare di conseguire una ripresa più forte sarebbe necessario un mutamento sostanziale nel framework europeo, con passi significativi verso una politica UE per la crescita, il ridisegno dei tempi del risanamento fiscale dei paesi periferici, una maggiore simmetria nel riequilibrio competitivo intra-euro. Si tratterebbe di una rivoluzione copernicana rispetto all’approccio finora seguito. Implicherebbe il formarsi in Europa di un coeso gruppo di pressione, costituito dai paesi che condividono problemi e interessi comuni, come Italia, Francia e Spagna. Un mutamento di alleanze tutto da costruire: complesso, pur se non impossibile. Esso richiederebbe tempi lunghi che vanno, forse, al di là di quelli a disposizione per evitare che lo scenario di debole ripresa si trasformi in una prolungata depressione.
Per questo motivo si devono cercare strade interne, di natura anche straordinaria, per il sostegno della domanda e della crescita economica. Senza rompere con l’Europa, ma operando nel pieno rispetto delle regole del Fiscal compact e inscritte in Costituzione. Nell’ambito di questi stretti paletti, il bilancio pubblico può essere modificato, a parità di saldi, in senso espansivo; ciò può essere fatto in modo più efficace e consistente di come si è tentato nella Legge di stabilità, paralizzata da interessi contrapposti, veti reciproci, ambizioni insufficienti.(...)
La strada per reperire le risorse necessarie a realizzare in modo adeguato queste due priorità e, con esse, l’obiettivo della crescita passa per una mobilitazione straordinaria del risparmio di “chi più ha” e la sua distribuzione a favore delle fasce più povere della popolazione, con elevata propensione al consumo, e del mondo produttivo impegnato nella competizione internazionale.
Si possono immaginare diverse varianti di questa operazione. Una possibilità è seguire, su dimensioni del tutto diverse, la manovra impostata dal governo nella riduzione della pressione fiscale sui lavoratori e contributiva sulle imprese, aggiungendovi le misure necessarie a neutralizzare la povertà.(...)
http://www.nomisma.it/index.php/it/soluzione-10x100 [in questo momento - ore 22 circa del 17 gennaio 2014 - il link non è raggiungibile...]

La ripresina europea
Nell’area euro, dopo due anni consecutivi di contrazione, la Banca mondiale prevede una crescita dell’1,1% quest’anno e dell’1,4 e dell’1,5% rispettivamente nel 2015 e 2016. Negli Usa il Pil è stimato a +2,8% quest’anno dal +1,8% del 2013 e a +2,9% e +3% nel 2015 e nel 2016. In Cina il Pil nel 2014 salirà del 7,7%, invariato rispetto al 2013 ma rallenterà al 7,5% nel 2015. «Gli indicatori dell’economia globale - spiega il capo economista della Banca mondiale, Kaushik Basu - mostrano un miglioramento, ma non occorre essere particolarmente astuti per vedere dei pericoli insorgere sotto la superfice. L’area euro è fuori dalla recessione ma il reddito pro-capite continua a scendere in molti paesi. Ci aspettiamo che i paesi più avanzati crescano sopra il 5% nel 2014, con alcune aree meglio delle altre, con l’Angola all’8%, la Cina al 7,7%, l’India al 6,2%. Tuttavia è importante evitare la stasi politica».

Di questo passo, tra molte chiacchiere e ancora più indecisioni su riforme e tagli alla spesa, la discesa agli Inferi dell'Italia nell'eurozona, più che un rischio, appare una scelta quasi scientifica. Ormai però in perfetta solitudine. Non a caso, in un incontro a porte chiuse a Strasburgo il presidente della Commissione, Josè Barroso, ha richiamato il nostro paese al «coraggio delle riforme, senza le quali non può poi lamentare l'assenza di crescita e di lavoro». 
di Adriana Cerretelli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Q3hhd

Si tratta della manifestazione palese che il legame nefasto tra banche e stati sovrani (il cosìdetto "doom loop"), lungi dall'essere stato spezzato, si è anzi rafforzato, nonostante i reiterati impegni di un vertice europeo dopo l'altro. Le banche hanno continuato a fare incetta di titoli sovrani, in una marcia ininterrotta. La liquidità eccezionale fornita dalla Bce (Ltro) è finita tutta lì: solo in Italia il portafoglio bancario di titoli di stato è raddoppiato da 200 miliardi di euro a fine 2011 a 403 miliardi dell'ultima rilevazione Bankitalia (novembre 2013). Nel contempo, com'è noto, i prestiti a imprese e famiglie si sono ridotti, e non vi è segno di ripresa – anzi, la stretta creditizia pare persino inasprirsi. È per questo che qualsiasi nuova iniezione di liquidità della Bce, se avviene, sarà probabilmente destinata esclusivamente al finanziamento delle imprese e delle famiglie, in una variante europea dello schema Funding for Lending della Banca d'Inghilterra.
di Alessandro Leipold - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/kipb1

Vendere Lingerie A Riyadh (ThePostInternazionale)

Attualmente, in Arabia Saudita vivono più di 27 milioni di persone, di cui il 52 per cento sono donne che vivono sotto tutela. Non possono nemmeno studiare se non hanno il consenso dei “mahrams” (padri, fratelli o parenti uomini che hanno il compito di vigilare sulle donne): la sharia, la legge islamica che ispira la giurisprudenza, impone alle donne la segregazione in casa. Molte famiglie ritengono inopportuna l'emancipazione delle donne e non permettono loro di lavorare. Da quelle parti, la grande paura è quella dell’ “ikhtilat”: la mescolanza dei sessi in pubblico.
Di prassi, la vita delle donne saudite è divisa da quella degli uomini: scuole, cure mediche e persino le file nelle banche sono rigorosamente separate. Il risultato di questa convenzione sociale è l'inettitudine delle donne alle interazioni con gli estranei, soprattutto se uomini.
Così, per avviare il processo di “femminilizzazione” della società saudita, le donne hanno avuto bisogno di frequentare dei corsi per abituarsi ai più semplici contatti. Hanno dovuto apprendere persino come sorridere: sorriso ampio alle donne, discreto agli uomini.(...)
Il processo di “femminilizzazione” della società saudita è partito da una serie di proteste di donne stanche dell'imbarazzo di comprare oggetti così legati alla sfera intima da commessi uomini poco sensibili e a volte scortesi. Così, mentre altrove fiorivano le rivoluzioni arabe, nel giugno 2011 il re Abdullah firmò una legge ad hoc. Da quel momento l'intimo, i trucchi e gli abiti da donna potevano esser venduti solo da commesse donne.
Da subito questo cambiamento è stato giudicato un «crimine» dalla somma autorità religiosa saudita, il Gran Mufti Abdul Aziz Aal ash-Shaikh. Lo scorso settembre, il ministro del lavoro saudita Adel Fakeih ha accusato l'Haia, la polizia religiosa incaricata di vigilare sull'attuazione della sharia, di non rispettare quanto stabilito dalla legge sulla “femminilizzazione”.(...)
(...) Con quanto previsto dal decreto sulla “femminilizzazione”, nonostante le difficoltà, molte donne hanno potuto sentirsi più libere. Anche tra le mura domestiche. Molte hanno raccontato di esser trattate meglio dai mariti e, spesso, durante le litiquotidiane, l'indipendenza economica è stata un'arma che le ha aiutate a rivendicare i propri diritti.

Kabul, attacco kamikaze in zona diplomatica (da Corriere.it)

Un commando di militanti armati, fra cui almeno un kamikaze ha attaccato stasera il ristorante libanese Taverna a Kabul, causando almeno 13 morti fra cittadini afghani e stranieri. Lo ha reso noto il capo della polizia di Kabul, generale Zahir Zahir. Dopo l’esplosione nel locale, si sono svolti scontri a fuoco per circa 20 minuti in cui è stata coinvolta la polizia. La Farnesina, tramite l’Unità di crisi, sta verificando se ci siano italiani coinvolti nell’attentato. Era l’ora di cena e il ristorante è uno dei più frequentato dagli stranieri che lavorano e vivono nelle vicine ambasciate. (...)

domenica 12 gennaio 2014

Libia, assassinato a Sirte il viceministro dell’Industria (da Corriere.it)

Il viceministro dell’Industria libico Hassan Al-Droui è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco a Sirte, 500 km a est di Tripoli. Lo rendono noto fonti ospedaliere e di sicurezza. «Hassan Al-Droui, viceministro dell’Industria, è stato ucciso da sconosciuti nella notte tra sabato e domenica nel corso di una visita alla sua città natale Sirte», comunicano. Droui era uno storico membro del Consiglio nazionale di transizione prima di essere confermato dall’attuale primo ministro, Ali Zedain. (...)

Uomo di guerra, uomo di pace: la morte di Ariel Sharon (rassegna stampa)

(...) Alcune delle sue gesta vengono ancora oggi insegnate ai cadetti di West Point perchè il coraggio e l’intuito lo portano a diventare uno stratega di successo. A cominciare dal colpo di mano che rovescia le sorti della Guerra del Kippur. Congedato da pochi mesi, Sharon viene sorpreso come tanti altri dall’attacco a sorpresa di Egitto e Siria nell’ottobre 1973, si precipita sul fronte del Sinai con un’auto civile, assume la guida di un’unità di riservisti e supera le linee nemiche senza ingaggiare gli avversari: attraversa il Canale di Suez protetto dalle tenebre e crea una testa di ponte fra la Seconda e Terza Armata egiziana, tagliando i rifornimenti dell’una e isolando l’altra. È il blitz che cambia le sorti della guerra, scongiura la disfatta israeliana e porta le avanguardie di Sharon a 101 km dal Cairo. L’immagine di Sharon, con una ferita bendata sulla testa, che guida le truppe sul lato opposto del Canale gli consegna una popolarità che gli apre a strada della vita politica.   (...)

Quando Begin viene rieletto nel 1981 lo nomina ministro della Difesa ed è in questa veste che diviene il protagonista dell’operazione militare “Pace in Galilea”: l’attacco contro le basi dell’Olp in Libano in risposta all’attentato contro un diplomatico israeliano a Londra. È una guerra che Sharon spinge fino ad arrivare a Beirut. Riesce nell’intento di espellere Yasser Arafat ed i suoi guerriglieri ma rimane imbrigliato nella strage di Sabra e Chatila. Sono i campi profughi nei quali, fra il 16 e il 18 settembre, vengono uccisi fra 800 e 3.500 palestinesi per mano delle milizie falangiste cristiano maronite guidate da Elie Hobeika ma il perimetro esterno dei campi è sotto il controllo degli israeliani e la Commissione Kahan, insediata a Gerusalemme, giudica Sharon “indirettamente responsabile” del massacro per aver “ignorato il pericolo di un bagno di sangue e non aver fatto nulla per impedirlo”.  

È il momento più difficile della sua vita dal quale si risolleva grazie all’impegno del Likud che lo porta a ricoprire più ministeri fino all’elezione a premier nel febbraio 2001. A sfidarlo è la Seconda Intifada, a colpi di kamikaze dentro autobus e ristoranti, che riesce a piegare con due mosse: l’operazione “Muro di Difesa” che lancia nel 2002 dentro i territori palestinesi ordinando ai soldati di “entrare nelle città sparando” e la successiva edificazione di una barriera di separazione fra insediamenti ebraici e villaggi arabi in Cisgordania. 
Sharon si convince a tal punto della necessità della separazione fisica dai palestinesi che nell’agosto del 2005 decide l’espulsione forzata di circa 10 mila israeliani da 21 insediamenti a Gaza per consentire alla Striscia di diventare il primo nucleo del nuovo Stato di Palestina. (...)


Al momento dell’ictus era primo ministro israeliano dal 2001, ma la sua carriera politica era iniziata molto prima, con parecchi incarichi di governo. Sharon era ampiamente considerato come un rappresentante della linea dei “falchi”, meno propensa a fare concessioni nei rapporti con i palestinesi, questione centrale della politica israeliana. Dopo essersi costruito una solida reputazione come difensore dei coloni ed essere stato eletto nel partito di destra Likud, Sharon stupì molti mettendo in atto il ritiro dei soldati e l’abbandono degli insediamenti nella Striscia di Gaza, nell’estate del 2005. Tra agosto e settembre, i coloni che non avevano accettato il piano di Sharon nella ventina di insediamenti della Striscia (e in quattro insediamenti nel nord della Cisgiordania compresi nel piano) furono sgomberati con la forza dall’esercito. Poco tempo dopo, Sharon annunciò l’abbandono del Likud, mentre le sue ultime mosse gli avevano attirato grandi critiche dall’ala destra del suo partito e un inedito supporto dall’elettorato di sinistra. Nel novembre 2005 Sharon fondò Kadima, un partito centrista e liberale. Nella cruciale questione israelo-palestinese, Kadima portava avanti il principio del “riallineamento”, ovvero del ritiro parziale da alcune zone della Cisgiordania occupata.


Da molti anni circola una storia che sfiora la leggenda. A Beirut, il 30 agosto del 1982, durante l'operazione "Pace in Galilea", contrassegnata dall'invasione israeliana del Libano e dalla strage dei palestinesi a Sabra e Shatila, un cecchino israeliano inquadrò nel mirino del suo fucile Yasser Arafat. Ma non tirò il grilletto. A salvare la vita al leader palestinese fu Ariel Sharon con un ordine all'ultimo minuto del quale non è mai stata data una spiegazione convincente. Che questa vicenda sia fondata o meno, il racconto rappresenta in maniera quasi emblematica una stagione politica mediorientale segnata per mezzo secolo dall'odio che ha diviso il capo storico dei palestinesi e il generale israeliano che più di ogni altro ha contrastato nella sua vita le aspirazioni di un popolo senza Stato. 

di Alberto Negri con un articolo di Ugo Tramballi - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/I2ii8

Quel ritiro lacera il Paese, ma non ferma l'ex generale. Arik sa che la scommessa di «due Stati per due popoli» - ratificata per la prima volta da un leader israeliano - si gioca in Cisgiordania e a Gerusalemme.
Per realizzarla non esita a promettere ai palestinesi la gran parte della Cisgiordania. Subito dopo si sbarazza del Likud e dà vita ad un nuovo partito centrista battezzato Kadima ovvero «avanti». Rapito dall'ennesima battaglia visionaria, non si cura dei rischi banali affrontati nel corso di una vita disordinata dove neppure colesterolo, obesità e alta pressione frenano una smodata voglia di cibo. Il primo avvertimento arriva il 18 dicembre 2005 quando un piccolo ictus lo appanna per qualche minuto. Ma Arik non tollera i rinvii. Si rialza la sera stessa, riprende la corsa verso quelle elezioni dove solo la vittoria di Kadima può garantire la realizzazione del suo progetto di pace. Ma il 4 gennaio 2006 l'ictus morde ancora. Per gli otto anni successivi vegeta in quel mondo di ombre dove la vita non è più tale e la morte non lo è ancora. I palestinesi forse non andranno al suo funerale, ma un giorno dovranno ammetterlo, solo la malattia e la morte hanno impedito ad Arik di vincere anche in tempo di pace e trasformarsi nel migliore dei loro nemici.
(...) Sharon, nella vita, ha conosciuto tutto. E’ stato un uomo di guerra e un abile combattente, ma è stato anche l’ineffabile bugiardo che, da ministro della difesa, costrinse alle dimissioni il suo primo ministro Menachem Begin, dopo la strage di Sabra e Chatila. Strage che fu compiuta dai falangisti cristiani libanesi, mentre i soldati israeliani occupanti si voltavano dall’altra parte. E’ stato un oltranzista, che non si vergognava di dire in pubblico che il presidente palestinese Yasser Arafat doveva «essere ucciso». 
Ma è stato anche il leader che, vinte le elezioni e diventato primo ministro, decise di ritirarsi unilateralmente dalla Striscia di Gaza, smantellando tutti gli insediamenti ebraici che vi si trovavano. E’ stato l’anima della destra più estrema del Likud, ma poi non ha esitato ad abbandonare il partito, ritenuto troppo estremista, per virare verso il centro e fondare il partito moderato Kadima, che poi, senza di lui, si è quasi spento lentamente. Ho incontrato Sharon non so quante volte. Ho scritto su di lui articoli durissimi, ma la sua forza era di non portare rancore, soprattutto verso i giornalisti. Posso dire che Ariel Sharon era quasi indispettito di fronte alla piaggeria di tanti zelanti sostenitori mediatici dell’ultima ora. Preferiva le domande dirette, anche le più sgradevoli.
Nell’ultima intervista che mi ha dato, promise solennemente che avrebbe compiuto «passi dolorosi». Mi guardò dritto negli occhi e disse: «Non mi crede? Vedrà di persona, e poi la riceverò per un’altra intervista». Pochi mesi dopo, decise l’uscita da Gaza. Ma quel che mi colpiva di Sharon era poco politico e molto personale: l’incontenibile piacere quando si parlava di buon cibo e di ristoranti. A Roma mi parlò del Bolognese, ma a Milano il suo palato aveva lasciato il cuore. Ricevendomi per un’intervista assieme al direttore Ferruccio de Bortoli, fece un «dotto preambolo» sulle qualità gastronomiche del ristorante Rigolo, che si trova in Largo Treves, a pochi passi da via Solferino, la sede del Corriere della sera. Ricordava dettagliatamente, a distanza di anni, alcuni piatti.
E’ strano che un generale abbia il culto dell’ironia. Sharon l’aveva. (...) Più di una volta, da primo ministro, mi aveva detto: «Non voglio che i libri di storia mi ricordino come uomo di guerra. Voglio essere ricordato come uomo di pace». Chissà cosa avrebbe fatto, Ariel Sharon, negli ultimi otto anni, tra la prima e la seconda morte. Non lo sapremo mai. Però possiamo dirgli: «Riposi in pace, signor primo ministro».

Dublino, Madrid, Lisbona, Atene: le 4 facce della crisi (F.Goria su Linkiesta)

Segnalo un bell'articolo di Fabrizio Goria sui risultati dell'azione della troika in quattro paesi europei. C'è da riflettere su un fattore: forse gli sforzi "maledetti" della troika funzionano - se e quando funzionano (Goria dettaglia bene le ambiguità e le contraddizioni degli interventi) - anche perché - soprattutto perché - la forza della troika è anche quella di un'entità "esterna" ai compromessi dei paesi "in cura". 

Proprio questo però alimenta la percezione di una "non autonomia" dei paesi, e di una lontananza dei processi decisionali nei momenti di crisi, che però sono i momenti in cui sarebbe necessario far percepire maggiormente che "nessuno rimarrà indietro". 

Nella tensione fra queste due facce della "soluzione" della crisi, vediamo lo spazio che potrebbe esserci per una politica comunitaria europea non di "facile spesa risolvi-tutto", ma di coordinamento e di indirizzo per far capire a tutti i cittadini europei che stiamo diventando una comunità. 

Se ci fosse una comunità politica coesa, forse gli sforzi comuni sarebbero stati diversi, e le sofferenze - e la percezione di solitudine, se non anche di diperazione, dei cittadini - avrebbero potuto essere minori.

FMM

La narrativa delle crisi dell’eurozona è mutata. La sua storia pure. Una lieve ripresa economica, seppur disomogenea e assai fragile, è arrivata e sul fronte finanziario le tempeste vissute fra 2010 e 2012 sono un ricordo. Il 2014 inizia con le quattro storie: due di sostanziale successo, due chiaroscurali ma comunque più positive delle aspettative. Irlanda, Spagna, Portogallo e Grecia sono i Paesi che hanno richiesto un programma di salvataggio alla troika composta da Commissione Ue, Banca centrale europea (Bce) e Fondo monetario internazionale (Fmi). I primi due ne sono usciti, il terzo lo sta per fare e il quarto, nonostante le enormi difficoltà, potrebbe farlo prima del previsto. Quattro nazioni che hanno avuto crisi diverse l’una dall’altra, quattro nazioni per le quali il tunnel della peggiore crisi dal Secondo dopoguerra sta terminando, quattro esempi di come la troika ha agito - ora bene, ora male - per fronteggiare l’emergenza.(...)

Il maggior difetto procedurale della troika in questi anni è stato forse il suo dogmatismo. O meglio la credenza, poi mutata in corsa non senza diversi ritardi sulla tabella di marcia, che si potesse applicare lo stesso modello a tutti i Paesi che hanno chiesto un sostegno finanziario. Le autorità europee, nonostante le pungolature del Fmi, hanno compreso tardi l’entità delle singole crisi sovrane, cercando poi di porre una pezza che molto spesso, vedasi il Psi sulla Grecia effettuato senza un Osi, ha fatto più danni che benefici. Il vento però ha cambiato direzione. L’uscita dai piani di salvataggio da parte di Irlanda e Spagna, e i segnali positivi che arrivano da Lisbona, possono aiutare l’intera eurozona a creare, con il supporto della Bce, una nuova normalità. A patto che non ci si dimentichi che il percorso è ancora lungo e che senza riforme (e sforzi) da parte di tutti i membri dell’area euro il rischio di un collasso potrà tornare a galla. Capito, Italia?

Chi è Stanley Fischer?

(...) Ma perché Fischer le credenziali di Fischer sono così elevate? Il banchiere centrale è un keynesiano atipico, senza pregiudizi o dogmi particolari. «Ritengo che il lavoro di John Maynard Keynes debba essere riconsiderato, in meglio, dopo questa crisi. E’ sotto gli occhi di tutti quanto sia il suo valore», disse in un’intervista nel corso del 2010. Per essere un keynesiano, ammira anche Milton Friedman, che fu suo collega quando, dal 1970 al 1973, ha insegnato all’Università di Chicago. «Le ragioni della crisi globale sono tante, non si può solo dare la colpa al liberismo, professando le politiche keynesiane come le più corrette per l’uscita dalla fase critica», spiegò Fischer. Un approccio tanto pragmatico quanto intellettualmente corretto. Il banchiere centrale israelo-statunitense aveva messo in guardia più di una volta, fra il 2005 e il 2007, gli eccessi visti nel mercato immobiliare statunitense. Secondo lui si doveva iniziare a sterilizzare liquidità fin dal principio di bolla, ma la Fed non fece così, anzi. Di fatto, era un gioco, quello del credito facile e dei subprime, che faceva gola a tutti. Alla banca centrale, alle banche statunitensi e ai cittadini. Ognuno ne traeva benefici, ma i costi sono stati devastanti. «Era facile comprendere cosa sarebbe successo coi subprime, ma si è deciso di chiudere entrambi gli occhi. Lo shock è stato forte», commentò Fischer. Del resto, conosceva bene queste dinamiche. (...)


Quale corso prenderà la Federal Reserve nel dopo-Bernanke? La banca centrale americana entra nel vivo del nuovo anno con al timone due personalità nuove. Sebbene l'approccio monetario dell'istituto non sia destinato a cambiare, resta da vedere come l'imminente numero uno Janet Yellen se la intenderà con Stanley Fischer, ex governatore della banca centrale di Israele, scelto oggi da Obama per diventare il numero due della banca centrale americana. Il duo è promettente. Con curricula eccellenti Yellen e Fischer, per citare il presidente degli Stati Uniti, costituiranno un «team fantastico». Ma forse qualche diversità di vedute tra i due non mancherà. 

di Stefania Spatti - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/zxtRT