domenica 31 agosto 2014

Bisogna prepararsi a una guerra in Europa? (ilPost)

(...) È possibile che queste siano tutte paranoie? Può darsi. E forse Putin è troppo debole per fare ciascuna di queste cose, e magari sta bluffando e gli oligarchi del suo paese lo fermeranno. Ma anche il “Mein Kampf” sembrò paranoico al pubblico tedesco e occidentale del 1933. Anche l’ordine di Stalin di «liquidare» tutte le classi e i gruppi sociali nell’Unione Sovietica ci sarebbe sembrato ugualmente folle al tempo, se solo avessimo potuto ascoltarlo.
Ma Stalin tenne fede alla sua parola e realizzò davvero quelle minacce: non perché fosse pazzo, ma perché seguì pedissequamente i suoi schemi mentali sino alla loro conclusione più logica – e anche perché non ci fu nessuno che lo fermò. Al momento, nessuno è ugualmente in grado di fermare Putin. È così paranoico, quindi, prepararsi ad una guerra devastante? O, viceversa, sarebbe da ingenui non farlo?

Il "miracolo" polacco

«Coniugare disciplina di bilancio e crescita è una sfida possibile, in Polonia lo abbiamo fatto, non c'è contraddizione, e cercheremo di raggiungere questo obiettivo anche in Europa. Avrò un atteggiamento audace e responsabile».
(Donald Tusk)


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(30 novembre 2013) 

In un paese dove non c’è niente è difficile costruire cose inutili, quindi ogni soldo speso dal governo per costruire strade, ponti o aeroporti finiva per essere utile e ben speso. E di soldi in Polonia ne arrivarono molti, soprattutto da quando, nel 2004, entrò a far parte dell’Unione Europea. Nel 2007-2013 la Polonia è stata il più grande beneficiario di fondi europei e ha ricevuto circa 100 miliardi di euro.

Nel 2012 ha ospitato, insieme all’Ucraina, i campionati europei di calcio, ricevendo un’altra iniezione di denaro. In questi anni, scrive Bloomberg Businessweek, tutto è stato ricostruito e migliorato: strade, porti, aeroporti, ferrovie e stazioni. Il contrasto con l’epoca del comunismo è molto forte: «È difficile ricordare come andavano le cose una volta se guardiamo a come vanno oggi», ha detto un gestore di fondi di investimento polacco intervistato dal settimanale.
La legislazione che tutela il lavoro è estremamente flessibile, tanto che da quando è entrata in Europa la Polonia è stata più volte minacciata di sanzioni per non rispettare la normativa europea sulla tutela dei precari. In ogni caso, il tasso di occupazione – cioè la percentuale della popolazione in età lavorativa che ha un lavoro – è continuato ad aumentare negli ultimi 10 anni: dal 51 per cento del 2003 all’attuale 60 per cento (cinque punti percentuali in più di quello italiano). Il tasso di disoccupazione, dal record del 2003 quando raggiunse il 20 per cento, è sceso fino al 7 per cento del 2008. L’anno successivo cominciò la crisi finanziaria che, nonostante tutto, si è sentita anche in Polonia.
(21/01/2014)
Nel 1988 è stata emanata la prima legge sulla libertà economica, l’anno successivo si sono tenute le prime libere elezioni dopo la seconda guerra mondiale e nel 1990 ha preso avvio un processo di riforme radicali che avrebbe portato alla formazione di moderne strutture di economia di mercato. Grazie a queste trasformazioni l’economia polacca ha iniziato a recuperare terreno rispetto ai paesi occidentali, almeno per quanto riguarda il reddito pro capite. E lo ha fatto a un ritmo mai visto prima nella storia. Alcuni economisti ritengono, con pessimismo, che questa fase di successo economico stia pian piano volgendo al termine poiché il fervore riformista è scemato, gli stimoli connessi all’entrata della Polonia nell’Ue si stanno indebolendo e lo sviluppo economico registrato sinora si fondava in larga misura sul ricorso al debito estero. Il noto editorialista Krzysztof Rybiński, ex vicepresidente della Banca nazionale polacca, dichiara che la Polonia sta andando incontro a un «decennio sprecato». Queste opinioni, però, sono in netta minoranza. Sicuramente la Polonia affronterà degli anni difficili perché dal punto di vista finanziario e commerciale è strettamente legata all’Eurozona, la quale si trova nel bel mezzo di complesse trasformazioni strutturali che incidono sulla sua crescita economica.

Ma i successi degli ultimi vent’anni non sembrano sul punto di svanire: la Polonia dovrebbe infatti continuare a recuperare terreno rispetto all’Occidente (...)

martedì 26 agosto 2014

Il problema del lavoro (Gianni Cuperlo)

La riflessione di Gianni Cuperlo - che trovate integrale su Facebook -  è interessante; anche se il problema dell'Italia è che il mix di interventi di cui ha bisogno è complesso; e quindi . diciamo così - i due diversi "approcci" alla crisi di cui parla Cuperlo vanno forse calibrati, e non si escludono reciprocamente. 


FMM 


"(...) Ci sono due modi per aggredire la creazione di lavoro. Uno è insistere sul fatto che le economie uscite meglio dalla crisi in termini di occupazione sono state quelle con più flessibilità (come quella tedesca, si dice sempre). L'altro mette in risalto un aspetto diverso. E cioè che non è bastata l'azione sulla flessibilità del mercato del lavoro a rendere più competitive alcune economie. La verità è che sono serviti investimenti pubblici e privati senza i quali non sarebbe aumentata la produttività, e dunque la crescita sarebbe stata semplicemente impossibile.
Sono proprio due modi di approcciare la crisi.
Il primo ha tra i suoi seguaci una lunga schiera di analisti ed esponenti della politica (da Ichino, Alesina, Giavazzi alla destra di Forza Italia e Ncd). Il secondo comincia a farsi largo anche sul piano teorico come dimostrano i saggi (spesso citati qui sopra) di Mariana Mazzucato o Thomas Piketty (a proposito, ma Bompiani si spiccia a mandare in libreria la traduzione?).
Ora, per la verità anche l'uso disinvolto del modello tedesco merita qualche osservazione. È vero che in questi anni i salari in Germania sono stati tenuti a freno (e la cosa non è stata priva di conseguenze sul versante della domanda interna) ma quella è stata la conseguenza di un accordo tra capitale e lavoro per preservare i livelli occupazionali durante l'unificazione del paese nei primi anni ’90.
Quell'accordo peraltro prevedeva di mantenere i livelli occupazionali, ma insieme a una riduzione dell'orario di lavoro (35 ore) e a investimenti in infrastrutture, ricerca e innovazione. Sono questi investimenti che hanno consentito alla Germania di distanziare altri paesi sul versante della produttività. Il vero disastro con il quale misurarsi non è, dunque, il costo del lavoro, ma la produttività.(...)"


lunedì 25 agosto 2014

Mario Draghi e l'Europa irriformabile (da Linkiesta.it)

(...) Nessuno dei quattro grandi paesi che adottano l’euro è davvero a posto, nessuno può alzare il ditino o indossare l’aureola del santo. Ma chi è in grado di convincerli a seguire la retta via? È questo il dilemma che Draghi ha posto indirettamente, ma con chiarezza. E si è scontrato contro un muro, perché nessuno oggi ha il potere di farlo, certo non la Ue che è ridotta sempre più a un club di nazioni chiassose e litigiose, ma nemmeno la Bce che pure è l’unica istituzione federale dotata di veri strumenti d’intervento. I cambiamenti principali finora sono stati compiuti sotto la pressione degli eventi, davanti a rischi drammatici come la crisi bancaria del 2008, il crack della Grecia nel 2010 o il collasso dell’euro nel 2012. E sono comunque rimasti cambiamenti a metà, accettati di mal grado dalla Germania che pure vanta il proprio europeismo federalista.

Draghi ha chiesto un’ulteriore cessione di sovranità e vuole un patto per le riforme da accompagnare al patto fiscale. Se si vuole dare all’euro una intelaiatura più solida è un passaggio inevitabile. Ma oggi non c’è consenso né tra i paesi del sud né in quelli del nord Europa. Dunque, la politica economica europea è in un cul de sac. La Bce alla fine sarà costretta a fare come la Fed se arriverà davvero una nuova tempesta finanziaria. Ma senza dietro un paracadute politico, nessuno può garantire che sia davvero efficace. Draghi lo sa e lo ha detto. Anche la sua diventerà una predica inutile?

Il rischio è ancor più forte se si passa alla riforma delle riforme, quella del sistema finanziario dove è cominciato il grande crack. Qui i passi sono stati ben più timidi di quelli compiuti dalle politiche fiscali dei governi. I grandi protagonisti, le megabanche, i supermarket della moneta, i fondi di investimento, hanno continuato ad assumere rischi come se nulla fosse e poco è cambiato del loro comportamento. Sono migliorati gli strumenti di controllo, anche se non a sufficienza, ma sono sempre interventi ex post, nulla che possa in alcun modo prevenire lo scoppio a catena di nuove bolle e una crisi sistemica. (...)

FRANCESCO, CACCIARI E LA GUERRA GIUSTA (da Treccani.it)

(...) Al contrario, secondo Galli della Loggia, le guerre sono tutte inutili stragi, ma hanno quasi sempre «il notevole effetto di cambiare il mondo». Saremmo dunque non solo di fronte a un grave errore di prospettiva storica, ma anche a una criminalizzazione della guerra in quanto tale. Nel nome di un’ideologia oggi dominante «intrisa di individualismo e di umanitarismo, molto cosmopolita e razionalista, molto politicamente corretta».
L’intero ragionamento appare in verità improntato alla contrapposizione, un po’ consunta, tra la visione irenica della realtà e quella del primato della realpolitik sempre e comunque. Galli della Loggia ha ragione quando critica la de-storicizzazione della Prima Guerra Mondiale, ma è evidente che il discorso andrebbe esteso alla più generale perdita di interesse nella nostra società per lo studio scientifico del passato (e per la storiografia nel senso alto del termine), nel nome di una memoria individuale o comunitaria depurata di ogni capacità critica, volta a sostenere rivendicazioni identitarie e/o politicamente corrette. In questo modo il passato, sia esso l’Impero romano o l’indipendenza dell’India, diviene unicamente una cava di materiali inerti cui attingere per giustificare qualunque cosa, persino le peggiori fandonie. Contro le quali non vi sono più anticorpi culturali e civili che possono venire solo da una formazione scolastica degna di questo nome. Complice anche il fatto che gli studiosi accademici faticano a trovare la via per una divulgazione del sapere storico che non si limiti a scimmiottare le mode giornalistiche. Se sottraiamo la guerra da una seria discussione e analisi scientifica, in primo luogo storica, in grado di decostruirla facendo piazza pulita di incrostazioni retoriche e propagandistiche (di cui anche la storiografia porta molte responsabilità), essa finisce per restare prigioniera di due interpretazioni ugualmente manichee: la guerra come male assoluto o come male necessario (talora auspicabile). Si tratta tuttavia di un binario morto, poiché l’opzione morale soccombe storicamente di fronte a quella politica.     È evidente che siamo di fronte a un tema, il rapporto fra gli esseri umani e la guerra, fra i più complessi della storia della nostra specie. È soprattutto con l’avvento del Cristianesimo che il problema ha assunto la dimensione etica e religiosa che ancor oggi viviamo: (...)

La Libia chiede un intervento internazionale per ristabilire la sicurezza (da ilfoglio.it)

In occasione del vertice in corso al Cairo tra i paesi del Nord Africa sulla crisi libica, l'ambasciatore di Tripoli ha richiesto l'intervento internazionale per proteggere i pozzi petroliferi e gli aeroporti del paese. La richiesta è seguita all'attacco lanciato con missili Grad all'aeroporto di Labraq, nell'est del paese e uno dei pochi ancora funzionanti dopo la conquista da parte degli islamisti di quello di Tripoli, avvenuta tre giorni fa. L'ambasciatore Mohammed Jibril ha detto, a margine della conferenza, che "esistono diverse forme di intervento che la comunità internazionale potrebbe adottare" in Libia. La Conferenza ha finito per appoggiare la posizione (più cauta) dell'Egitto e che prevede il disarmo delle milizie, il sostegno al Parlamento eletto all'inizio dell'estate e la ricostruzione delle istituzioni pubbliche.

Fra gli organizzatori dell'incontro in corso al Cairo, l'Egitto e l'Algeria erano quelli maggiormente coinvolti dalla grave crisi in cui versa la Libia dal giorno della deposizione di Muhammar Gheddafi. Gli algerini, in particolare, sono i maggiori indiziati riguaardo ai misteriosi raid aerei che in questi giorni sono stati condotti contro gli islamisti del clan di Misurata. (...)

lunedì 18 agosto 2014

Per Uscire Dalla Crisi

Tracce di un percorso di uscita dalla crisi.

1.creazione di un ministero economia federale europeo

2. Emissione eurobond subordinati a un programma di riforme comuni agli stati nazionali

3.mix di investimenti pubblici e privati su programmi definiti a livello comunitario

4.temporaneo Qe da parte Bce al fine di dare tempo agli stati di fare riforme

5.creazione area libero scambio con Stati Uniti

6.accordi multilaterali su argomenti definiti fra Usa, Europa e Cina, comprensivi di una comune politica monetaria

venerdì 1 agosto 2014

La Resa Dei Conti

L'illusione di non dover fare i conti con i limiti finanziari del Paese, e con le evidenti difficoltà economiche del momento, è - finalmente - finita.

Il Presidente del Consiglio aveva detto che gli 80 euro erano "più che coperti"; aveva suonato la tromba della battaglia con l'Europa per avere più "flessibilità"; ha continuato a negare la necessità di una manovra in autunno.

Forse la manovra si potrà evitare, ma le tensioni di oggi intorno alla spending review e alle possibili dimissioni di Cottarelli indicano che questo Governo sembra non rendersi conto degli sforzi che siamo chiamati a fare, Europa o non Europa, per rimanere in equilibrio dal punto di vista finanziario.

Basta con continui annunci, basta con riforme istituzionali di dubbia rilevanza. Ora è necessario difendere i risparmi degli italiani e i conti pubblici del Paese. Se questo Governo non è in grado di farlo, è necessario cambiare, e in fretta.

FMM

(...) Se la campagna del Senato va a buon fine, il governo la utilizzerà per dire: abbiamo cominciato a cambiare l’Italia, adesso non rompeteci troppo l’anima sui conti. Se si dovesse impantanare in guerra di trincea, la utilizzerà per dire: c’impediscono di cambiare l’Italia, meglio tornare alle urne. Nel primo caso ci sarà il tempo per cambiare la legge elettorale, magari usando anche il dialogo con i pentastellati. Nel secondo si accetterà di votare (sempre che il Colle copra l’operazione con lo stesso partecipe trasposto con cui copre i ludi senatoriali) con un sistema meno certo nel risultato, puntando a gruppi parlamentari più direttamente e personalmente controllabili. In ambedue i casi l’obiettivo è quello di non far precedere il voto da un assestamento dei conti, che non gioverebbe alla credibilità e popolarità di Renzi. Questo il panorama tattico. Ma poi c’è la sostanza, coriacea assai.
Intanto perché il cambiamento del Senato non si tradurrà in una più veloce a corriva attività legislativa, se non passando prima per le urne. Ciò per l’inaggirabile motivo che anche in caso di cambiamento costituzionale non è che il Senato sparisca all’istante, ma occorre che sia sciolto quello presente. Poi perché ignorare l’aggiustamento dei conti ci porterà ad avere un debito ancora più alto, quindi a veder crescere la massa tumorale che ci soffoca. La tanto reclamata e declamata elasticità non giova minimamente né all’economia reale né al tenore di vita dei cittadini, aiuta i governi a non prendere atto dei propri insuccessi. Vale per tutti, non solo per l’Italia. Noi, però, siamo i più esposti, proprio perché intestatari del debito più potenzialmente esplosivo.(...)


E’ dalla trincea delle banche che s’ode, finalmente, qualche colpo sensato contro la piega negativa presa dall’Europa economica. Nulla a che vedere con la geremiade sui parametri o con la biascicata litania sulla flessibilità, che sono cose per politici orecchianti. Anzi, all’opposto, Mario Draghi ribadisce quel che è oramai assodato: i trattati si rispettano tutti e senza deroga alcuna, i conti devono tornare, il rigore nel redigerli non ha alternative. Punto. Non è quello il fronte su cui combattere, se non per perdere. E mentre il conformismo editoriale si agita e concentra su quel che non è né utile né possibile, è significativo registrare la convergenza fra il presidente della Banca centrale europea e il presidente dell’Associazione bancaria italiana su un punto che è determinante. Se la cosa non fosse divenuta quasi un insulto (il che, a sua volta, è vilipendio della ragione), verrebbe da dire: finalmente due voci politiche, senza piagnistei contabili.
Draghi non ha chiesto maggiori poteri per la Bce, ma maggiori poteri per i governi. Fate attenzione, è decisivo: non si esce dalla crisi solo usando la cassetta degli attrezzi finanziari, si devono coordinare le politiche relative alle riforme del mercato interno europeo, denominate “strutturali”. Detto in modo diverso: non serve cedere altra sovranità monetaria, perché quella è oramai andata tutta, serve cedere sovranità politica, a favore di qualche cosa che somigli a un governo europeo. Ed è la cosa più insidiosa fin qui sostenuta, per la centralità imperiale germanica. Non si devono invitare i tedeschi a curarsi di più gli affari loro, come erroneamente è stato recentemente fatto da Matteo Renzi, ma a mettere maggiormente in comune gli affari di tutti. Il che, naturalmente, esclude che qualcuno pensi di fare il furbo (che poi è uno stupido) sui propri conti nazionali.(...)


(...) Quindi: se la richiesta di tagliare 17+10 miliardi, entro la fine dell’anno, è da considerarsi totalmente alternativa all’imporre nuove tasse e imposte, che la si saluti con soddisfazione; se è un modo per coprire altra spesa corrente, in un gioco dilapidante delle tre carte, che la si avversi con determinazione, perché porta dritto a più alta pressione fiscale. Posto che, come mettevamo in evidenza giusto ieri, dall’interno del governo si manifestano linee diverse e incompatibili fra loro, forse varrebbe la pena di farne oggetto di un dibattito parlamentare. Perché si può anche conservare l’immunità dalle inchieste giudiziarie (e si dovrebbe farlo senza ipocrisie), ma nessuno sarà immune dall’avere taciuto il rischio che corrono i conti di un Paese in cui la spesa è variabile indipendente dalla (de)crescita.


Come che sia, attendiamo fiduciosi. Sapendo che le “clausole di salvaguardia” esistono e lottano assieme a noi, o più propriamente contro di noi. Ulteriore nota a margine: Padoan, con grande onestà intellettuale, informa che al momento gli 80 euro sono disponibili solo per il 2014 ma che impegno solenne, suo e del governo, è quello di rendere permanente tale aumento. Lungi da noi l’idea di dubitare della parola di Padoan (di quella di Renzi si, ma è altro discorso), ma Padoan non controlla tutte le leve, e di conseguenza non ha potere sugli esiti.


Niente di nuovo sotto il sole. O forse sì: cresce il rischio che, per manifesta disperazione, qualcuno decida di attaccare frontalmente il risparmio degli italiani, non pago di quanto fatto finora con patrimoniali immobiliari e mobiliari, e con l’inasprimento della tassazione sui redditi di capitale diversi da quelli provenienti da debito pubblico