venerdì 30 maggio 2014

Dopo Il Voto, In Europa


Dal 22 al 25 maggio i 28 stati membri dell’UE, compresa l’Italia, hanno votato per il rinnovo del Parlamento europeo, l’unica istituzione europea a essere eletta direttamente dai cittadini.
Dopo il voto sono iniziate anche le trattative per decidere diverse nomine, a partire da quella del presidente della Commissione, e le trattative per la formazione dei nuovi equilibri (cioè dei gruppi politici) all’interno del Parlamento. Ma chi andrà dove e a fare cosa?

Prima cosa importante da sapere: le principali istituzioni dell’UE sono il Parlamento, il Consiglio europeo, il Consiglio, la Commissione europea, la Corte di giustizia dell’UE, la Banca centrale europea e la Corte dei conti. Ci sono poi vari organismi e comitati.
 
Si è detto che la Germania ha esercitato un dominio non una leadership e che la sua politica si è ri-nazionalizzata. Vero, ma non perché l’attuale classe dirigente voglia andarsene per la propria strada, ma perché è convinta che il suo modello di successo possa essere esportato e replicato. I risultati elettorali non sono tali da modificare questa linea politica, ma certo indurranno a cambiar tattica. Lo si vedrà subito, con i primi incontri a Bruxelles, e ancor meglio la settimana prossima, il 5 giugno, quando la Banca centrale europea è chiamata ad adottare la nuova politica monetaria per fermare la deflazione e rilanciare la crescita. A quel punto, Kaiser Draghi prenderà di nuovo in mano le redini delleconomia. La Bundesbank continuerà ad avere il mal di pancia, ma dovrà prendersi un imodium.
Il risultato clamoroso di Renzi mette l’Italia sugli scudi e rende importante il semestre di presidenza (normalmente mera routine), tanto più in questa Europa senza assi preferenziali. Berlino, rimasta orfana di Parigi, ascolterà Roma? La risposta più gettonata è sì a condizione che il governo italiano si presenti al tavolo con le riforme ben avviate (mercato del lavoro, amministrazione pubblica, giustizia civile, sistema elettorale, tutte le slide illustrate anche agli uomini della Merkel). È vero, ma non basta. L’Italia dovrà essere in grado di avanzare proposte concrete per sbloccare il doppio impasse nel quale si dibatte l’Unione e che ha favorito le convulsioni anti-europeiste: la moneta senza sovrano e la tecnocrazia senza politica.
 
Per la Francia invece è in questione quella sintesi fra vocazione europea e fierezza nazionale che ha dettato il suo ruolo nel processo di unificazione e nell’intero contesto internazionale. Quello che era l'asse Parigi- Bonn, poi Berlino-Parigi, è ora ulteriormente sbilanciato, come già sottolineava Affarinternazionali. Vi subentra una stella, di cui la capitale tedesca occupa il centro e quella francese è certo una delle punte, ma non la sola. La gestione della stella è la sfida che si pone oggi alla Cancelliera tedesca e ai suoi partner socialdemocratici. Una storia lunga e spesso tragica è prodiga di ammaestramenti. Un primo è che la Germania è stata sempre più capace di costruire (e ricostruire) potenza nazionale che di formare coalizioni internazionali forti e solidali. Il rischio inerente alla centralità è l’isolamento. Un secondo, più recente ammaestramento è che la sovranità non è condizione necessaria alla potenza. Qui il rischio che discende dalla centralità è la tentazione del recupero sovranista, di cui abbiamo già avuto alcune avvisaglie. L’espansione dell’economia e un minimo di politica estera comune sono i prossimi banchi di prova. -

giovedì 29 maggio 2014

La Golden Rule dei sogni (da Phastidio.net)

Pare che il premier Matteo Renzi proverà nuovamente, in sede europea, a chiedere l’esclusione degli investimenti pubblici dal computo del rapporto deficit-Pil. Si tratta di una antica aspirazione dei politici italiani, sinora sistematicamente frustrata perché più che altro rimasta nel libro dei sogni, essendo stata sempre ignorata a livello comunutario. Cambierà qualcosa, oggi?
L’idea di Renzi sarebbe quella di escludere dal calcolo gli investimenti pubblici, inclusi quelli per scuola e ricerca. Inoltre, il premier italiano vorrebbe escludere dal calcolo del deficit-Pil anche il cofinanziamento nazionale ai fondi strutturali europei. Questi ultimi si svolgono in regime di matching funds, cioè per ogni euro erogato dalla Ue vi è un euro di spesa pubblica da parte del paese destinatario. All’Italia arriveranno, tra il 2014 ed il 2020, fondi comunitari pari a 43 miliardi di euro, ed altrettanti dovranno essere messi dal nostro governo. Metterli a deficit potrebbe dare un aiutino, ma solo se tali fondi avranno impatto elevato in termini di efficacia di sistema sulla crescita.
Il problema di queste iniziative politiche è sempre quello: la definizione di ciò che è “investimento”, ed i relativi margini per giochetti contabili nazionali. L’occasione fa il governo ladro (letteralmente), e ci vuole davvero poco per camuffare spesa corrente in spesa per investimenti. Quindi, ammesso e non concesso che il paese sia in grado di spendere in modo efficace ed efficiente i fondi comunitari (la vera rivoluzione di cui avremmo bisogno), servirebbe comunque una supervisione molto stretta da parte della Ue, ad evitare abusi e frodi contabili. Per ottenere ciò si potrebbe pensare quindi a mettere in campo lo strumento degli accordi di partnership bilaterale, già vagheggiato dalla Merkel.
Solo che la declinazione tedesca di questi accordi era quella di una camicia di forza e di una sorta di “nuovo memorandum”, per niente light, per paesi che non sono in assistenza della Troika, mentre Renzi non si spinge a dettagliare le modalità di controllo ma vuole solo ottenere “flessibilità contro riforme”. (...)

mercoledì 28 maggio 2014

Escalation in Ucraina (da laStampa.it)

Precipita la situazione a Donetsk, cinta d’assedio dalle forze militari ucraine che hanno intimato ai ribelli separatisti di lasciare la città, o verranno «colpiti con precisione». Una minaccia che ieri si è trasformata in bagno di sangue. Almeno 100 gli uccisi nella battaglia per l’aeroporto internazionale della città, dilagata presto nei quartieri residenziali limitrofi. E arrivata a lambire la stazione centrale, a due passi dalla zona degli alberghi affollati di giornalisti stranieri e civili in cerca di rifugio. (...)
L’autoproclamata Repubblica popolare accusa le forze ucraine di crimini contro l’umanità: almeno 15 miliziani feriti, che venivano trasportati a bordo di due camion, «con insegne mediche», sono stati uccisi dal fuoco degli rpg. Spari anche contro un’ambulanza, denunciano ancora i ribelli che chiedono «l’intervento personale di Putin, in qualsiasi forma». Ma, lo ammettono, sperano che da Mosca decida di intervenire militarmente. Diametralmente opposta la posizione dei fedeli a Kiev, che accusano la Russia di favorire l’ingresso nel Paese di «terroristi e mercenari». Non sono mancati gli scontri a fuoco al confine, dove secondo la versione ucraina, convogli carichi di uomini armati hanno tentato di infiltrarsi per dare man forte ai “fratelli dell’est”. Blindati e militari armati di tutto punto hanno accerchiato il perimetro esterno della città, per impedire l’afflusso di volontari e miliziani pronti a difendere Donetsk a ogni costo. Ma molti, forse qualche centinaia, sono già arrivati nelle ultime 48 ore. Anche loro sono bene equipaggiati, fucili automatici, rpg a spalla, e zaini che sembrano carichi di esplosivo. 
La tensione è alle stelle: ne hanno fatto le spese i quattro osservatori Osce fermati ieri sera, e ora nelle mani dei ribelli. (...)

Vittoria Netta, Ma Il Voto Non Decide Tutto (da Talpa Democratica)

Segnalo che su Talpa Democratica è stato gentilmente pubblicata una mia riflessione sul voto europeo, schematizzata per punti.
Buona lettura

Francesco Maria

***

Fattori “oggettivi”, e in linea di massima positivi:

1. Vittoria netta. Renzi si conferma campione dal punto di vista elettorale
2. E’ stato arginato Grillo.
3. C’è qualche speranza di incidere in Europa, per proporre cambiamenti sulle politiche della crescita (...)

Fattori “critici”:
1. Sembra “scomparire” una opposizione organizzata; a destra è in atto una grave crisi, che può indurre un atteggiamento non costruttivo sulle riforme
2. La situazione europea è a rischio instabilità: per dire uno dei tanti possibili problemi, come si dichiareranno gli euroscettici nel caso la crisi russo-ucraina peggiorasse (come sta già avvenendo)?(...)

Fattori per cui la valutazione non cambia e non può cambiare, quale che sia la percentuale di consenso:

1. Le coperture degli 80 euro sono molto discutibili, oggi e soprattutto negli anni futuri; permane la sensazione che si sia voluto “imporre” l’obiettivo politico al di là delle compatibilità economiche.
1bis. Sui problemi di bilancio non si ammettono improvvisazioni per l’Italia, né “pagherò” leggeri. Le coperture e il processo di risanamento devono essere chiari soprattutto per gli investitori esteri, ma non solo per loro.
2. La riforma del Senato e la proposta di riforma elettorale rimangono grandemente imperfette (è un eufemismo; sarebbe meglio buttarle nel cestino e rifarle da zero)(...)

martedì 27 maggio 2014

Chi Governa Il Mondo? (una lezione di Sabino Cassese - da Firstonline.info)

Segnalo un interessante intervento di Sabino Cassese, che spiega molto bene la complessità degli intrecci decisionali nel mondo "globalizzato". Visto che siamo in ore in cui rischia di tornare l'illusione che la politica possa facilmente decidere dei destini degli uomini, è bene immergersi nella rete non semplice che ci accompagna quotidianamente.

FMM

Potrebbe lo stato del Massacchussets, preoccupato dall’innalzamento del livello del mare, affrontare da solo il problema del global warming? Potrebbero gli Usa governare da soli internet? E ancora, potrebbero i giapponesi affrontare il problema di preservare il tonno, specie per definizione migratoria? Può un solo Stato combattere il problema del terrorismo globale? Con queste domande Sabino Cassese, giudice della Corte Costituzionale e professore emerito di “Storia e teoria dello Stato” alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ci introduce nel mondo della complessa governance globale durante l’incontro “Conversazioni in Borsa”, organizzato a PiazzaAffari dall’associazione The Ruling companies. 
La risposta a queste domande, precisa Cassese, è ovvia: “C’è un ordine di problemi che va oltre lo Stato, che richiede soluzioni a livello globale che sono state trovate in regimi regolatori globali”. E così sono nate autorità sovranazionali che regolano alcuni problemi in alcuni settori: da internet con l’Icann, all’Onu, passando per il tonno e la finanza con la Basel Committee. (...)


“Di fronte alla domanda ‘chi governa il mondo?’ – afferma Cassese – è sbagliata sia la risposta ‘gli Stati più potenti come Usa e Cina’, sia ‘le organizzazioni sovranazionali’. C’è uno spazio in cui si alternano in maniera dinamica queste due realtà”. Il paragone va a un quadro di Jackson Pollock, dove le linee si distribuiscono come un marble cake (ossia un dolce dai tratti indefiniti). Tradotto: non illudiamoci di pensare che ci siano livelli di governo. “Si sta costruendo una rete complicatissima – spiega Cassese – in cui le linee salgono, scendono e si intersecano. Oggi ci sono sempre più multiple legittimazioni, fenomeni che una volta erano impensabili”. 
Cassese cita il cosidetto “Governing by indicators”, ossia la tendenza sempre più presente di fare riferimento a degli indicatori in cui ci si colloca in un contesto globale e ci si misura in relazione agli altri Stati. E il “Government to government trade”, ossia la pratica di scambiarsi servizi tra Stati (per esempio la Francia gestisce le valute di alcuni Stati Africani). “Il senso del discorso – spiega Cassese - è che abbiamo un quadro molto complesso del quadro Multi level government, non ci sono più piani, piuttosto un’intersecazione dei poteri a seconda dei settori. Per comprendere questa realtà bisogna abbandonare i vecchi paradigmi”. (...)


Per regimi regolatori si intendono quattro diverse tipologie: le organizzazioni internazionali, i network di regolatori nazionali come il Comitato di Basilea, i regolatori privati e i regolatori ibridi. I regimi regolatori globali fissano standard, fanno attività di esecuzione o di controllo di esecuzione, svolgono attività di risoluzione dei conflitti. “Hanno i tre poteri fondamentali degli Stati secondo Montesquieu: normativo, esecutivo, giudiziario”, rileva Cassese, “ma hanno un problema: chi le legittima? Non tutte sono costituite da Stati nazionali come l’Onu, molte autorità sono istituite da altre autorità. Si autogenerano. Ma chi le autorizza? In Europa è quello che si chiama deficit di democrazia rappresentativa”. 

E qui, fa notare il giurista, si supplisce con “tre surrogati della democrazia rappresentativa” che costituisce il tallone d’Achille delle organizzazioni sovranazionali. In altre parole, queste realtà prima di prendere decisioni fanno consultazioni, creano panel, raccolgono opinioni. In secondo luogo, modificano ”l’orizzontal accountability. A che titolo gli Stati europei entrano negli affari della Turchia?”, si chiede Cassese rispondendo che “ogni struttura nazionale non è più responsabile solo nei confronti di un popolo ma verso altri Stati e organizzazioni internazionali”. Il terzo surrogato, infine, sono le Corti Costituzionali.(...)

In questo quadro attuale così complicato la principale qualità del politico è avere la dote del negoziatore. “Parlando in generale a livello mondiale prevale chi ha capacità da negoziatore, chi conosce bene i dossier, qualcuno che vada un po’ oltre la conoscenza della lingua napoletana, conosca un po’ le altre culture e abbia la capacità di dialogo. I nostri politici non sono preparati a questo perché la negoziazione non è la loro forza”, è l’identikit del politico delineato da Cassese in risposta a una domanda di un giornalista. 

Infine, sollecitato da una domanda del professor Giacomo Vaciago, Cassese riflette sul rapporto tra governo e comando: si può governare senza comandare, rileva Cassese, portando come esempio le misure retaliatorie del Wto che non ha il potere di imporre agli Stati Uniti una legge o cancellarne una francese. Perché nel mondo ci sono dei circuiti secondari, qualcosa in via di sviluppo, che ci fa ripensare l’idea del comando, ossia la possibilità di ottenere lo stesso risultato senza il comando. “Il governo mondiale – conclude Cassese - deve essere esercitato nel modo in cui i Papi esercitano il loro potere, ossia senza cararmati”.


lunedì 26 maggio 2014

"Ebrei contro Israele", Un libro poco utile (da Kolot.it)

Segnalo che il sito Kolot ha pubblicato una mia recensione del libro di Giulio Meotti, Ebrei contro Israele, edizioni Belforte.

FMM

(...) Provo a spiegare le ragioni della mia perplessità: il libro di Meotti è un’accusa verso una galassia di posizioni critiche verso Israele, testimoniate in vario modo da uomini e donne di tradizione e origini ebraiche; tali posizioni vengono classificate da Meotti tutte come antisioniste, e accusate di “legittimare” – proprio perché espresse in ambito ebraico – in generale l’antisionismo  e anche l’antisemitismo.

Forza particolare viene messa nell’accusa a una parte della Diaspora, rimproverata dall’autore di volersi presentare come progressista a spese di Israele; alcuni di questi esponenti si mostrerebbero nemici dello stato ebraico, addirittura – secondo l’autore – sposando quella sorta di paradosso nefasto di assimilazione al nazismo per cui “i perseguitati di un tempo sono diventati persecutori oggi”. Gli esempi che Meotti fa sono molteplici, presi da diversi punti della storia recente e da diversi punti del globo.

Proprio questa ricchezza apparente di esempi, a mio avviso, da ipotetico punto di forza per quella che poteva essere un’utilissima discussione si fa invece punto di debolezza: il testo di Meotti ha infatti una particolare costruzione, anzi forse una non-costruzione (in alcuni punti, per esempio pp. 78 e 80 nella doppia citazione di Sion Segre Amar, si ha l’impressione che il testo poteva essere meglio coordinato), per cui la narrazione è continua, un capitolo unico come scritto di getto. In questo flusso le citazioni degli episodi sono brevi, molteplici, e poco ordinati. Ricchezza di contenuto? Purtroppo non è questa l’impressione che se ne ha, piuttosto diventa difficile una analisi seria e approfondita dell’argomento. (...)

domenica 25 maggio 2014

È morto Wojciech Jaruzelski (da ilPost.it)

Domenica 25 maggio è morto Wojciech Jaruzelski, aveva 90 anni ed è stato l’ultimo leader comunista della Polonia. È tuttora una figura controversa della storia polacca. Fu l’avversario di Lech Walesa e del suo sindacato Solidarność, contro il quale impose la legge marziale e chiese l’intervento dell’Unione Sovietica. Ma fu anche il politico che permise alla Polonia una transizione morbida dal comunismo alle libere elezioni, più ordinata e meno sanguinosa di quella di molti altri paesi comunisti.

sabato 24 maggio 2014

TTIP: Deregulation Selvaggia O Possibilità Di Progresso?

Se ne discute molto, ma senza continuità, e come al solito si rischia di semplificare molto il discorso, e di ridurre la cosa a un sì/no troppo generali. 

Sto parlando del TTIP, dell'accordo di libero scambio che si sta discutendo fra Stati Uniti e Unione europea. In gioco non sono tanto le tariffe doganali, ma una più ampia armonizzazione della regolamentazione del mercato, che significherebbe di fatto creare un'area unitaria fra Usa e Europa.

Tutto questo crea timori, credo in parte giustificati, in parte no; molto comprensibili, comunque, soprattutto dopo alcune vicende (Datagate), che hanno fatto percepire una eccessiva spregiudicatezza degli Stati Uniti rispetto all'osservanza di limiti e leggi nei confronti degli alleati europei. L'idea di "armonizzare" le norme rischia di sembrare un "abbattere" le norme, e i dubbi non vanno sottovalutati. 

Proprio i fautori dell'accordo dovrebbero per primi comprendere che è essenziale "accompagnare" questo cambiamento con un consenso che deve essere diffuso, razionale, confortato da conoscenza dell'argomento.
Dobbiamo andare più in profondità e trasparenza sugli accordi che si stanno perfezionando. 

Il TTIP è una grande opportunità, e il libero scambio non è un arrendersi alle multinazionali; ma perché questa paura non diventi prevalente, e perché questi accordi funzionino veramente da volano di progresso, la politica non deve scomparire, ma integrare, accompagnare, gestire dove è possibile. 

Difendere quel che è giusto difendere (per esempio il nostro approccio al problema privacy), ma saper accompgnare l'apertura quando necessaria.

Di seguito qualche articolo (purtroppo quasi tutti non recentissimi) per tentare di capire meglio. (Ringrazio Alessandro Zunino per la segnalazione dell'articolo di Libération)

Francesco Maria Mariotti

(...) Il cuore del trattato è l’armonizzazione normativa e regolamentare, che potrebbe diventare un possibile modello per altri futuri accordi commerciali.

Una ricerca indipendente (seppure finanziata dalla Commissione europea) parla di benefici pari a quasi 200 miliardi di euro. In realtà, considerato che l’impatto economico, soprattutto in Europa, è difficilmente valutabile, ad oggi l’unica certezza è che gli Stati Uniti e l’Unione Europea diventerebbero un solo grande mercato. Tutti gli aspetti relativi a regolamentazione e supply chain verrebbero unificati, con vantaggi immediati per le aziende capaci di sfruttare efficacemente le neonate economie di scala – a cominciare dalle grandi multinazionali, che infatti sono tra i maggiori sostenitori dell’accordo.

Gli ostacoli negoziali da superare sono enormi e non tutti di carattere economico: il clima di sfiducia reciproca causato dal datagate ne è un ottimo esempio. Le conseguenze dello scandalo sembrano aver intaccato profondamente i rapporti di fiducia tra UE e Stati Uniti, e hanno già rallentato il passo dei negoziati nella fase iniziale.

Alla diffidenza da parte delle élites politiche europee nei confronti degli Stati Uniti si somma lo scarso sostegno – o perfino la crescente opposizione – di un’opinione pubblica confusa da un accordo i cui contorni non sono ancora ben definiti. Ad oggi, tre sono i nodi più complicati nell’ambito delle trattative: la clausola relativa alla protezione degli investimenti, la protezione dei dati personali dei cittadini europei, e la commercializzazione di prodotti agricoli e i relativi standard di sicurezza alimentare (che si riflettono sull'infinita diatriba sugli OGM e la carne americana).

La clausola di protezione degli investimenti (investor-state dispute settlement, ISDS), permetterà agli investitori privati di citare in giudizio i governi nazionali presso una corte d’arbitrato, nel caso in cui gli investitori ritengano che nuove leggi locali minaccino i loro investimenti. Una clausola controversa che ad oggi ha scatenato proteste su entrambe le sponde dell’oceano, sia da parte della società civile che di molti governi europei. A livello politico, il maggiore oppositore è il governo tedesco, il quale ritiene il ricorso a corti esterne (di fatto aggirando le giurisdizioni nazionali) un attacco inaccettabile alla sua sovranità.(...)


(...) Le obiezioni alla TTIP che provengono dalla Francia possono raggrupparsi in tre grandi categorie. Per cominciare – ed è una critica mossa anche da giornali liberali e vicini al mondo imprenditoriale come Les Echos – si dubita fortemente che l'accordo porti i benefici promessi dalla Commissione europea. Secondo questa visione, una volta messa in opera la Partnership, effettivamente il volume di scambi transatlantico potrebbe aumentare; ma in assenza di una robusta crescita del reddito e dunque della domanda individuale, ciò avverrebbe a discapito di flussi commerciali già esistenti.

In particolare, considerando che la Cina è attualmente tra i principali partner economici di tutti i paesi europei, il vero risultato dell'accordo tra Bruxelles e Washington sarebbe quello di alzare una barriera commerciale nei confronti di Pechino – grazie al nuovo quadro normativo comune, al quale le merci cinesi si adatterebbero con maggiore difficoltà. Non è un segreto che, parallelamente a questi negoziati, sia Stati Uniti che Unione Europea siano impegnati nella stipula di ulteriori accordi commerciali con paesi terzi, tutti accomunati dalla stessa caratteristica: abbandonano la prospettiva del consenso multilaterale a livello globale in favore di quella bilaterale (o “multi-bilaterale”), con l'obiettivo primario di escludere la Cina.

La seconda obiezione riflette ormai una sorta di condivisione di alcune delle critiche francesi da parte di altri paesi europei: si tratta degli strascichi del caso datagate, cioè la scoperta dello spionaggio sistematico condotto da parte dell'Agenzia nazionale per la sicurezza americana (NSA) con la collaborazione di alcune imprese di alta tecnologia, ai danni del mondo politico e industriale europeo. A seguito dello scandalo, molti paesi tra cui la Germania hanno completamente modificato il loro atteggiamento nei confronti del processo negoziale: questo di fatto è ora bloccato a un livello superficiale, senza che i temi più importanti vengano davvero toccati. Ancora a inizio febbraio, la ministra francese del Commercio estero Nicole Bricq, in occasione della visita di Hollande negli USA, era costretta a promettere alla sua controparte che si sarebbe cominciato "presto" a fare sul serio.

Ecco perché per molti analisti francesi in realtà la TTIP è "nata morta". Inoltre, si fa notare come la segretezza dei negoziati abbia sollevato forti perplessità anche nell'opinione pubblica americana, e che il Congresso abbia negato al presidente Barack Obama una "corsia preferenziale" che avrebbe permesso un'approvazione più rapida. Quindi, sapendo che ormai è impossibile rispettare la scadenza di fine 2014, si considera probabile anche uno sforamento della scadenza di fine 2015: un ritardo, questo, che sarebbe decisivo – con esiti imprevedibili – in quanto coinciderebbe anche con la fine dell'attuale amministrazione Obama.

Infine, un elemento ha contribuito più di altri a suscitare la contrarietà dell'opinione pubblica, dei sindacati e delle associazioni non governative – nonché di molti governi: la previsione di un tribunale arbitrale a cui le imprese potrebbero ricorrere qualora ritenessero che gli Stati non rispettino i principi del libero scambio contenuti nell'accordo. Secondo questo punto di vista, un tale organo di giustizia consegnerebbe nelle mani delle multinazionali le chiavi della legislazione europea sul lavoro e l'industria, ed esporrebbe gli Stati al rischio di dover versare enormi risarcimenti.(...)


Depuis lundi, à Arlington, en Virginie, en face de Washington, les négociateurs européens, emmenés par Ignacio Garcia Bercero, et américains, dirigés par Dan Mullaney, se retrouvent pour une nouvelle semaine de pourparlers. C’est la cinquième fois que les deux délégations se réunissent depuis l’ouverture, en juillet 2013, des négociations du Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP) ou Partenariat Transatlantique pour le Commerce et l’Investissement (PTCI) qui vise à créer un marché commun euro-américains où les biens, les services et les capitaux circuleront sans entrave.
Cet accord de libre-échange dit de « nouvelle génération », voulu par la Commission européenne et son président, José Manuel Durao Barroso, mais aussi par les vingt-huit États membres, est de plus en plus contesté par la société civile européenne, mais aussi par une partie de la classe politique. Ainsi, la levée de boucliers en Allemagne contre l’instauration d’un tribunal arbitral - qui permettra aux entreprises de poursuivre les États si elles estiment que le TTIP n’est pas respecté (lire l'excellent article de Chritian Losson) - a contraint l’exécutif européen à suspendre, le 21 janvier, les discussions sur ce point, le temps de mener une « consultation publique » qui lui permettra de prendre la température des opposants. Elles ne reprendront qu’en juin, au lendemain des élections européennes du 25 mai…

(...)These companies (along with hundreds of others) are using the investor-state dispute rules embedded in trade treaties signed by the countries they are suing. The rules are enforced by panels which have none of the safeguards we expect in our own courts. The hearings are held in secret. The judges are corporate lawyers, many of whom work for companies of the kind whose cases they hear. Citizens and communities affected by their decisions have no legal standing. There is no right of appeal on the merits of the case. Yet they can overthrow the sovereignty of parliaments and the rulings of supreme courts.
You don't believe it? Here's what one of the judges on these tribunals says about his work. "When I wake up at night and think about arbitration, it never ceases to amaze me that sovereign states have agreed to investment arbitration at all ... Three private individuals are entrusted with the power to review, without any restriction or appeal procedure, all actions of the government, all decisions of the courts, and all laws and regulations emanating from parliament."
There are no corresponding rights for citizens. We can't use these tribunals to demand better protections from corporate greed. As theDemocracy Centre says, this is "a privatised justice system for global corporations".(...)

(...) I have never had Monbiot down as an ungenerous character, but to ignore all of this in favour of blowing up a controversy around one small part of the negotiations, known as investor protection, seems to me positively Scrooge-like. Investor protection is a standard part of free-trade agreements – it was designed to support businesses investing in countries where the rule of law is unpredictable, to say the least. Clearly the US falls in a somewhat different category and those clauses will need to be negotiated carefully to avoid any pitfalls – but to dismiss the whole deal because of one comparatively minor element of it would be lunacy.
This talk of shadowy corporations is all the more misleading given that, in my view, the deal's advantages will prove to be far more noticeable for smaller enterprises than for larger corporations. This is because the most important task for the regulators will be to establish that where a car part or a cake or a beauty product has been tested as safe in the EU, the US will allow its import without requiring a whole new series of similar-but-slightly different tests – and vice versa. This is not about reducing safety levels. It is simply common sense. Would any of us on holiday in the US decline to hire that all-American SUV, or say no to that unfeasibly enormous vat of fizzy pop on the grounds that the regulations "are not the same as the EU's"?
And while it is of course true to say that these changes will help big business, it is also true to say that big business often has a vested interest in overly complex regulation. They can afford armies of staff to satisfy reams of regulation, but their smaller rivals cannot and so are squeezed out. So while leftwing radicals can attempt to skew the facts, it's my view that the TTIP is much more a deal for the small widget maker from the West Midlands than it is for the multinational corporate giant.(...)

venerdì 23 maggio 2014

Elezioni Parlamentari Subito Per La Libia?

Personalmente ho l'impressione che la posizione espressa dalle diplomazie che più sotto riporto sia un tanticchio "accademica"... però speriamo sia seguita dalla capacità di giocare anche sul terreno della forza bruta. 

Cosa fare con quello che appre uno strano colpo di stato che sta dividendo il paese? Invocare le elezioni in questa situazione non basta, se non si è capaci di contrattare con le principali fazioni in battaglia. E non basta, se non si ha chiarezza sull'orizzonte da perseguire.

La democrazia nasce quasi sempre "sotto tutela". Non si deve aver paura di proporre - e imporre "tutele"; e lo si deve fare con la consapevolezza che non siamo attori "esterni". 

L'autodeterminazione dei popoli non è un principio sacro, ma politico; quando è stato proclamato a gran voce come se fosse un dogma, ha creato danni; meglio essere chiari sul fatto che i nostri interessi sono attori legittimi del percorso del futuro della Libia.

In questa chiarezza, c'è la possibilità di dare un vero aiuto alla Libia. E di evitare un disastro per loro e per noi.

FMM

Elezioni parlamentari da realizzare in Libia a stretto giro, con la conseguente nomina di un primo ministro, al fine di favorire il dialogo tra le fazioni: questo il senso dell’iniziativa italiana - diffusa ieri sera dalla nostra ambasciata a Tripoli - che raccoglie intorno a se’ il consenso di tre paesi membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti) e di Germania e Unione Europea (il cosiddetto formato P3+3). 
 
 
Libya is at a crossroads. On one side lies the achievement of the transition through the political process and the forging of a Constitutional Charter based on nationally agreed principles, with a view to achieving the goals of the 17th of February revolution and fostering the rule of law, the respect of human rights and the welfare of its citizens.
 On the other lies chaos, fragmentation, violence and terrorism.
The European Union, France, Germany, Italy, the United Kingdom and the United States, deeply concerned by the repeated acts of violence, call on all sides to refrain from the use of force and to address differences by political means. We stand ready to support an inclusive reconciliation process in order to gather all the Libyans in support of the political transition, with the support of the United Nations.
 We emphasize the importance of carrying on the transition in a peaceful and democratic way. We insist, in this framework, on the opportunity of holding parliamentary elections as soon as possible. The democratic constitutional process has begun its work to codify the principles of democracy that will protect all citizens of Libya, irrespective of geographic or tribal affiliation.
The process leading to a peaceful transition of power should be based upon broad consensus, avoiding any acts which seek to undermine that process.
Building upon Rome Conference Conclusions, we will work to facilitate dialogue and reconciliation as the key to the stabilization process, in the national interest of Libya and of the security of the region, with the coordination of the UN.
Persistent divisions amongst Libyans will gravely challenge the ability of the international community to assist Libya.

L'occidente resta in attesa, osservando l'evolversi della situazione sul campo. Il Guardian ha riportato alcune indiscrezioni filtrate da ambienti dell'intelligence americana. Secondo diversi funzionari, gli Stati Uniti sarebbero stati colti di sorpresa dall'avanzata di Haftar. Ciononostante, il generale potrebbe inaspettatamente riportare gli Stati Uniti a ricoprire un ruolo attivo nel paese dopo le polemiche scoppiate per l'assassinio dell'ambasciatore Chris Stevens a Bengasi e gli scarsi successi ottenuti nella lotta contro il jihadismo. I funzionari della Cia hanno ribadito di non essere implicati nell'offensiva di Haftar, ma non hanno escluso di poterlo sostenere in futuro se dovesse aver successo.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/23482

giovedì 22 maggio 2014

I dati sull’immigrazione nel mondo (da ilPost)

(...) Le conclusioni principali del documento, in breve
– I flussi migratori verso i paesi dell’OCSE sono rimasti costanti tra il 2011 e il 2012 a circa 4 milioni. Dal 2007 al 2012 sono però diminuiti del 14%.
– Tra il 2011 e il 2012 i flussi migratori verso l’Italia sono diminuiti del 19%, quelli verso la Spagna sono diminuiti del 22% – e le stesse quote sono dimezzate rispetto al 2007 – e quelli verso il Regno Unito sono diminuiti dell’11% e hanno raggiunto il livello più basso dal 2003.
– I flussi migratori verso la Germania sono aumentati di un terzo tra 2011 e 2012. La Germania ora è il secondo paese dell’OCSE con il più alto flusso di immigrazione, dopo gli Stati Uniti.
– La migrazione verso l’Unione Europea da paesi esterni all’Unione è calata del 12%, seguendo il trend di diminuzione iniziato nel 2008.
– I flussi migratori verso gli Stati Uniti, che sono il primo paese dell’OCSE per numero di immigrati, sono diminuiti del 3%.(...)

Ricchezza sprecata (Davide Giacalone)


"(...) Fra i cortilanti della politica italiana si sente dire che dovremmo “andare in Europa” (dove credono di essere? lo sanno che l’Italia è un Paese fondatore?) per ottenere più deficit. Bei fresconi! Così aumenteremo il debito, con quello gli interessi che paghiamo, e con quelli le virtù che sprechiamo. Fra le urla delle risse si sentono tesi bislacche: aumentiamo i soldi in tasca alla ggente (ad esempio con 80 euro), così cresce la domanda e con quella lo sviluppo, mettendo in atto una manovra anticiclica. Hanno scambiato il ciclo con il triciclo: se aumenti i soldi senza aumentare la produttività ti limiti a perdere competitività, quindi a diventare più povero; una volta impoveritoti devi trovare i soldi per pagare gli interessi, quindi tassi di più gli stessi cui hai dato i soldi. I soldi in più sono politiche di sviluppo tanto quanto le scarpe che regalava Achille Lauro erano politiche per la mobilità.

Morale: un Paese che ha i numeri riportati in tabella, se abbattesse il debito, dovrebbe avere carburante per correre più veloce di ogni altro, invece lo pompiamo dentro serbatoi i cui buchi ci ostiniamo a non tappare. Anzi, crediamo sia sociale e solidale allargarli.(...)"


La Libia Verso Il Baratro

Un generale anti-islamico, l’ombra dell’Egitto e lo spettro di un’altra guerra per procura fra le nazioni arabe: questa è la Libia teatro del blitz militare di Khalifa Haftar, già oppositore di Gheddafi, contro le milizie di Bengasi. Haftar viene dai ranghi dell’esercito del colonnello Muammar Gheddafi, circa 25 anni fa guidò in Ciad una fallita insurrezione contro Tripoli e negli ultimi anni ha vissuto da esule in Virginia, tornando in patria solo dopo il cambio di regime. Haftar viene dalla Cirenaica ed è questa origine che lo trasforma in un leader militare credibile perché sono i legami, personali e di clan, con tribù e caserme di Bengasi, che gli hanno consentito di prendere l’iniziativa e dare l’assalto - venerdì scorso - alla città-roccaforte degli islamici.
 La sfida di Haftar alle milizie jihadiste è netta, dichiarata, a viso aperto evocando quanto avvenuto in Egitto da parte dei militari di Abdel Fattah Al-Sisi contro i Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi. Più volte, nelle ultime 72 ore, i colonnelli di Haftar hanno paragonato i jihadisti della Cirenaica ai Fratelli Musulmani e ciò rafforza l’impressione di una riedizione libica della svolta anti-islamica avvenuta in Egitto nel 2013. Sul fronte opposto ad Haftar c’è il traballante governo di Tripoli che si è trovato obbligato a fare appello alle milizie islamiche per difendersi dal generale ribelle. La contrapposizione fra Tripoli e Haftar sta producendo conseguenze a pioggia: quella più recente è nell’annuncio del governo di indire elezioni parlamentari il 25 giugno - le prime dal rovesciamento di Gheddafi - ma ciò che più conta sono le reazioni in atto nelle capitali arabe, ognuna delle quali segue un cammino differente.

L’ex colonnello libico che ha provocato il caos a Bengasi si chiama Khalifa Haftar. Il suo potere e la sua influenza in quella zona sono così forti che l’esercito libico – che in parte gli si oppone, anche se alcuni generali sono passati dalla sua parte – ha dovuto imporre una no-fly zone sopra la città, per evitare che le sue forze paramilitari usassero mezzi aerei per colpire i miliziani islamisti. Domenica Haftar ha anche annunciato di avere attaccato il Parlamento di Tripoli e di averne sospeso le attività. Haftar si è detto interessato a competere per la presidenza: un ruolo rimasto vacante dalla fine della rivoluzione libica, in attesa dell’approvazione di una nuova Costituzione.
La situazione in Libia è per certi versi incredibile e unica. Per dare un’idea: prima dell’annuncio della data delle prossime elezioni, i parlamentari libici si sono incontrati in un hotel il cui indirizzo avrebbe dovuto rimanere segreto. Sull’hotel poco dopo sono caduti dei missili (non ci sono stati feriti). Intanto la situazione sul campo rimane molto caotica. Le milizie alleate all’ex colonnello Hafter si sono posizionate sulla strada che porta verso l’aeroporto di Tripoli, che si trova poco più a sud della capitale; le milizie islamiste provenienti da Misurata, altra città libica nella quale in passato ci sono stati diversi incidenti e violenze, si sono posizionate invece nei pressi di Tripoli, e secondo il Wall Street Journal sarebbero intenzionate a entrare in città. La situazione a Bengasi rimane invece molto confusa, e non è chiaro chi comanda cosa.

Nato in Kuwait da genitori indiani poi immigrati negli Stati Uniti, Currun ha ottenuto due anni fa un Master alla Erasmus University di Rotterdam con una tesi sulla pirateria somala, tema di cui non ha mai smesso di occuparsi (di recente un suo articolo è apparso sul New York Times). La vita accademica, però, non fa per lui. Agile, alto, con un fisico da atleta e capelli corti scurissimi, Curran ha lo spirito del ribelle e i modi impeccabili di un signore d’altri tempi. Dopo un periodo in India e a Chicago, ha deciso di tornare alla sua passione per i diritti umani in Africa e ora guida un team di quattro persone e una ventina di volontari nel cuore di Tripoli. Il suo gruppo documenta gli abusi commessi nel passato e nel presente, e offre assistenza alle vittime. Almeno diecimila persone sono scomparse dopo la rivoluzione, e il compito di questi volontari è scoprire che ne è stato di loro: un lavoro talmente delicato, che la sede dell’Organizzazione è segreta.
 «La cosa più complessa in queste ore è distinguere i fatti dalla finzione», mi dice Currun al telefono da Tripoli in una delle nostre recenti conversazioni. «La situazione è tesa. Ci sono stati un’ottantina di morti nel fine settimana, e diverse centinaia di feriti. Gli analisti fanno scenari, ma è impossibile capire fino in fondo quali siano le motivazioni di questi eserciti e le loro alleanze future». Il nuovo uomo forte, il generale Haftar, ha promesso al Paese di metter fine all’insicurezza, soprattutto nell’Est del Paese. «La situazione a Bengasi è fuori controllo. Avvocati, medici, professionisti vengono trucidati con la scusa del collaborazionismo col passato regime, ma sono vendette private». La Libia di oggi è un Paese allo stremo, in preda al terrore. Non stupisce che Haftar abbia un certo sostegno nella popolazione.

martedì 20 maggio 2014

Il Disastro Della Libia, La Non-Politica Italiana, Le Poche Cose da Fare

Il disastro della Libia - che questo minuscolo blog aveva segnalato come probabile fin dai tempi della retorica della "guerra di liberazione" - è ora davanti a noi. 

Di fronte a quanto sta succedendo dobbiamo porre alcune questioni, contingenti e di lungo periodo:

1. la classe dirigente italiana - non solo quella politica, ma in questo caso soprattutto quella politica - sembra totalmente incapace di opporre una qualsiasi "resistenza" alle campagne mediatiche che di volta in volta sorgono e muoiono nel volgere di pochissimo tempo; campagne brevi, forse anche non "intenzionali", ma che sono in grado di provocare gravissime distorsioni negli scenari politici; questa "fragilità culturale" del sistema italiano rischia di essere una tara insopportabile per qualsiasi strategia politica ed economica che voglia vedere una rinascita di questo Paese.

2. La distinzione destra-sinistra, o quella riformisti-conservatori vale poco di fronte a discorsi di strategia nazionale; in questo senso possiamo dismettere tranquillamente molti dei dibattiti che abbiamo fatto in questi anni, e anche negli ultimi tempi. Se si perdono di vista i "fondamentali", se sfuggono le "occasioni di crescita", discutere del numero di contratti da stipulare in un anno serve a ben poco.

3. Sembra fare eccezione allo sconsolante panorama italiano, l'ex premier Romano Prodi, che ha almeno la libertà e la spregiudicatezza di vedere la centralità della questione energetica, messa a rischio da questa situazione come da quella ucraina (vd. il post dedicato alla proposta)

4. Per arrivare al caso concreto Libia: purtroppo il tempo è poco e le cose da fare non sono molte; da quel che si percepisce in maniera confusa forse è impossibile "guidare" le cose, conviene "accompagnarle", tentando di sfruttare al meglio i cambiamenti in atto, contrattando duramente con i nostri alleati. Provo ad azzardare alcune questioni, anche se non ho competenze strategiche:

4.1. Si tenti di capire se nell'azione paramilitare ora in atto c'è l'appoggio degli americani e dei francesi, e ci si accordi con loro sul cosa fare; sia detto con poca ipocrisia: meglio un golpe ben fatto che il disordine, c'è poco da discutere di fronte all'ipotesi di una guerra civile, che ormai è già in corso. 

4.2. Per essere più chiari, qualsiasi scelta deve avere per noi un "ritorno"; se un governo non-fondamentalista - anche se di stampo militare - può portare una stabilità a noi utile, allora si appoggi con tutte le forze questa sorta di "colpo di stato".

4.3. La scelta deve essere chiara e condivisa dalle forze occidentali che operano nell'area; gli Stati Uniti ci chiesero di operare per la sicurezza di quel Paese e noi dobbiamo imporre che qualsiasi passaggio venga condiviso. L'Afghanistan non è per noi vitale come il Mediterraneo: anche se sarebbe giusto teoricamente continuare ancora la missione a Kabul, facciamo capire quali sono le nostre priorità.

4.4. Da parte della Francia dobbiamo essere in grado di avere lealtà e cooperazione: la possibile "bomba migratoria" che potrebbe nascere da un peggioramento della situazione non può che riguardare anche loro: è il caso di dirlo apertamente; se non ci aiutano in modo chiaro, la situazione sfuggirà di mano e il "disastro" colpirà anche loro.

4.5. Si ponga il problema libico anche in sede ONU, e con le nuove superpotenze come la Cina, che ha fortissimi interessi in Africa: se la situazione non si risolve in breve tempo, avremo - lo abbiamo già, in realtà - uno stato fallito. Deve essere chiaro che tutta la comunità internazionale deve aiutarci a garantire una qualche forma di stabilità, anche nel caso si dovesse accettare una sorta di spartizione di fatto della Libia. Se ci deve essere una qualche forma di "amministrazione controllata" di questi territori, noi dobbiamo poter essere protagonisti di qualsiasi passaggio.

4.6. Abbiamo portato in Italia personale militare libico per addestramento; a quale parte dell'esercito appartenevano? Siamo in grado di capire con chi abbiamo condiviso la nostra esperienza militare? abbiamo mantenuto contatti? questi contatti possono aiutarci?

4.7. Massima allerta sul fronte delle investigazioni, anche interne: quali sono i rischi effettivi di immigrazione di fanatici con intenzioni violente? Anche questa minaccia va condivisa con tutti gli alleati, chiarendo che se non ci danno una mano a gestire la situazione, i rischi non saranno solo dell'Italia.

Il tempo è pochissimo, e queste sembrano le poche cose da fare. E forse non solo queste, visto che è sempre necessario giocare su più tavoli. In questo momento è necessario essere realisti e spregiudicati.

Francesco Maria Mariotti

In Libia le forze armate comandate dal generale deposto Khalifa Hiftar hanno dichiarato guerra al terrorismo jihadista mettendo in dubbio l'autorità del governo di Tripoli. Venerdì scorso, il generale 71enne ha lanciato un'offensiva bombardando alcuni quartieri della città orientale di Bengasi. A Tripoli, i gruppi armati messi insieme dal "generale", hanno assaltato il parlamento. La sede dell'assemblea nazionale è stata evacuata dopo essere stata circondata da diversi veicoli corazzati entrati nella capitale dalla strada che la collega all'aeroporto di Tripoli. 



La volontà del generale Hiftar è quella di riuscire laddove il governo centrale di Tripoli ha fallito sin dal rovesciamento del regime di Muammar Gheddafi: ristabilire la sicurezza nel paese riunendo in un unico esercito le diverse milizie che detengono il controllo della Libia sul terreno. L'offensiva dell'esercito parallelo di Hiftar ha generato un'escalation nei combattimenti contro le brigate degli integralisti islamici con un'intensità di sparatorie e bombardamenti che ricorda quella del 2011. Il governo libico, dopo il weekend, ha imposto una no-fly zone sui cieli di Bengasi, dove si contano al momento 70 morti e circa 140 feriti in seguito all'offensiva militare.


Dopo l'occupazione del parlamento, il generale Mokhtar Farnana, membro delle forze di Hiftar, si è rivolto alla televisione nazionale annunciando la formazione di un'assemblea costituente composta da 60 membri che dovrebbe prendere il posto dell'attuale parlamento. Rivendicando l'assalto, Farnana ha affermato di avere l'appoggio del popolo libico e di aver dichiarato guerra al terrorismo islamico.


Hifter è un personaggio un po' misterioso: schierato contro Gheddafi durante la rivolta di tre anni fa, originariamente vicino agli islamisti, fondatore di un partitino che non ha ottenuto neppure un seggio al Parlamento, se ne è andato in esilio volontario in America dove- secondo voci non confermate - avrebbe preso domicilio a pochi chilometri dalla sede della Cia a Langley. Rientrato in Libia all'inizio di quest'anno, è già stato coinvolto in una rivolta contro il potere costituito in febbraio, risoltasi in nulla. Adesso ci sta riprovando, assicurando di non cercare il potere ma di puntare solo a riportare l'ordine in un Paese in cui i poteri del governo si fermano a pochi metri dal Palazzo e, a causa del caos provocato dall'esistenza di 170 diverse milizie l'una contro l'altra armate, la produzione petrolifera, unica fonte di entrate, è precipitata da 1,5 milioni a 250-300 mila barili l'anno. In questo quadro, appare assai significativo che il generale, rifiutando l'etichetta di golpista, abbia chiesto l'aiuto internazionale per «rimuovere il cancro del terrorismo dalla Libia».


Potrebbe diventare, Haftar, l'uomo forte che riprende il controllo di una situazione sfuggita di mano a tutti, come dimostrano non solo il crollo dell'estrazione degli idrocarburi, la fuga delle imprese straniere (negli ultimi mesi ci sono stati anche i rapimenti di tre lavoratori italiani) ma anche le incontrollate partenze di massa dai suoi porti di profughi africani diretti in Italia? Nelle cancellerie occidentali, e nelle grandi compagnie petrolifere, molti sicuramente se lo augurano, anche perché in seguito alla crisi ucraina le forniture di gas e di greggio dalla Libia sono tornate ad essere più importanti.



Il nome di Khalifa Haftar non è nuovo nella storia recente della Libia. Daniele Raineri, giornalista italiano del Foglio che si occupa soprattutto di paesi arabi e Medio Oriente, aveva raccontato di Haftar già lo scorso febbraio, dopo che l’ex generale aveva fatto circolare un messaggio video in uniforme in cui chiedeva alle forze armate di «salvare» il paese. In quell’occasione, Raineri aveva raccontato la storia di Haftar:

"Nel 1983 era il comandante delle truppe di terra libiche quando Muammar Gheddafi ordinò l’invasione del confinante Ciad, poi disertò e andò a vivere in America (Virginia), per tornare in Libia quando scoppiò la rivoluzione contro Gheddafi nel 2011 a cercare un ruolo di primo piano. Nel luglio dell’anno scorso il generale della rivoluzione contro Gheddafi (secondo lui) oppure ora semplice colonnello (secondo altre fonti) ha fatto circolare un piano in dieci punti per tirare fuori il paese dallo stallo politico. Due punti importanti: uno è il congelamento del Congresso nazionale e l’instaurazione di un governo provvisorio, pronto a dichiarare lo stato d’emergenza per – è l’altro punto – combattere contro le milizie e sbarazzarsi finalmente di loro. Il proposito di combattere contro le milizie ribelli che a più di due anni dalla morte di Gheddafi non si sono ancora rassegnate al dopoguerra, non si fanno domare e rendono la Libia uno stato spezzettato in tante signorie guardate da jeep con mitragliatrici è l’unico punto che consegna a Haftar tanti consensi fra i libici, stanchi dell’instabilità."


lunedì 19 maggio 2014

Andiamo A Prendere Il Petrolio (la proposta di Romano Prodi)


L'importante articolo di Romano Prodi sulla possibilità di estrarre petrolio, in particolare in giacimenti di mare.

Di fronte alla persistente precarietà energetica a cui ci condannano le crisi internazionali, la proposta di Prodi appare importante, assolutamente da discutere in tempi molto brevi.

FMM


Come i governi precedenti anche l’attuale governo non sa dove trovare i soldi per fare fronte ai suoi molteplici impegni. Eppure una parte modesta ma non trascurabile di questi soldi la può semplicemente trovare scavando - non scherzo - sotto terra. Ci troviamo infatti in una situazione curiosa, per non dire paradossale, che vede il nostro Paese al primo posto per riserve di petrolio in Europa, esclusi i grandi produttori del Mare del Nord (Norvegia e UK). Nel gas ci attestiamo in quarta posizione per riserve e solo in sesta per produzione. Abbiamo quindi risorse non sfruttate, unicamente come conseguenza della decisione di non utilizzarle. In poche parole: vogliamo continuare a farci del male.

Nonostante l’attività di esplorazione delle nuove riserve sia ormai bloccata da un decennio, con un numero di metri perforati inferiori a un decimo di quelli del dopoguerra, l'Italia potrebbe - sulla base dei progetti già individuati - almeno raddoppiare la sua produzione di idrocarburi (petrolio e metano) a circa 22 milioni di tonnellate equivalenti petrolio entro il 2020. Solo con questo significherebbe alleggerire la nostra bilancia dei pagamenti di circa 5 miliardi di euro ed aumentare le entrate fiscali dello Stato di 2,5 miliardi ogni anno. Si attiverebbero inoltre investimenti per oltre 15 miliardi, dando lavoro alle decine di nostre imprese che operano in ogni angolo del mondo ma sono impossibilitate a farlo nel loro Paese.(...)



(...) Ha rotto un Tabù , Professore …
Beh insomma, non mi ero riproposto questo! Semplicemente, quando ho letto le dichiarazioni del Ministro degli Esteri della Croazia ho deciso di documentarmi. La conclusione che ho tratto dalla lettura è che se i dati dei Croati sono veri – e la controparte italiana mi ha confermato che lo sono - siamo davanti a un caso classico, quello di un bicchiere con una sola cannuccia. Meglio averne due di cannucce, non le pare? I dati ci dicono che ci sono altre situazioni in sviluppo nel Mediterraneo su cui si appuntano interessi per la estrazione. Mi sono dunque limitato ad analizzare il perché e a dire che, pur usando tutte le possibile precauzioni, non ci possiamo permettere di lasciare lo sfruttamento della nostra energia in mano altrui.
Nel dire questo lei però mette insieme una triade Prodi- Petrolio- Mediterraneo, cioè l’incrocio fra sinistra e trivellazioni su territorio italiano, che è stato un vero e proprio tabù negli ultimi decenni, una innominabile discussione.
Io dico l’ovvio. Quel giacimento di cui parliamo verrà sfruttato. I Croati sono pronti ad acquisirne i diritti e sono pronti industrialmente all’operazione. Se lo facciamo metà noi e metà gli altri è meglio , no? Ovviamente la sicurezza e la protezione dell’ambiente sono per tutti una priorità, il “principio di precauzione” ha la precedenza su tutto, ma la risposta ai rischi industriali non è il non fare, ma la capacità di governarli. Usando la testa, possiamo raggiungere livelli che ci danno sicurezza. (...)
La strategia. Quello che succede a sud è lo specchio di quello che avviene anche nel Nord dell’Adriatico. Mentre le concessioni italiane rimangono al palo, frenate da complicati iter procedurali e da una cascata di autorizzazioni (comprese quelle della Regione Veneto) per iniziare solo a pensare di installare una piattaforma, la Croazia ha messo il turbo ai suoi progetti di sfruttamento, in modo da anticipare Roma e accaparrarsi i migliori giacimenti nel mare comune.