giovedì 28 novembre 2013

Dubbi Democratici - Il Populismo Che Non Governi

C'è un dato positivo, uno solo a mio avviso, nel percorso elettorale di Renzi. E cioè il tentativo - più o meno esplicito - del sindaco di Firenze di "catturare politicamente" il malcontento dei cittadini, un misto di malumore, rabbia, e a tratti disperazione che si è creato nel nostro paese con solide ragioni e che per il momento ha trovato pochi sbocchi politici, spesso non utili a un reale miglioramento delle cose. Tutta la retorica antipolitica (o meglio "anticasta") - dalla "rottamazione" in poi - avrebbe un senso, se fosse capace di sottrarre voti alla pura protesta per incanalarli verso obiettivi più concreti.

Detto ciò, però il problema dello "stile" politico che accompagna la campagna di Renzi, che oramai dura molti mesi, a me pare sia pesante; perché in realtà questione non solo di stile; ma problema di una campagna che in qualche modo si fa facilmente "populista" (mi perdonino gli amici renziani, non mi viene una parola migliore...) e che rischia di non sortire gli effetti positivi che al momento ci si aspetta.

Dal caso Ablyazov alla legge di stabilità, dal no (anche comprensibile, ma mal presentato) a grazia e indulto al caso Cancellieri, Renzi sembra voler dire di continuo: "io sono in sintonia con il paese reale, io saprò fare meglio; contro tutto ilvecchio (in cui vengono accomunati Berlusconi, Letta, e - sia pure in modo meno appariscente, ma comunque con forza - lo stesso Napolitano) io saprò vincere in nome di tutti voi, che non ne potete più di loro".

Renzi per fortuna non è solo un populista; e sicuramente alcuni contenuti (oggi Michele Emiliano a Omnibus annunciava alcune idee in tema di giustizia) possono essere interessanti.

Ma quando inizi a cavalcare la demagogia, o hai la forza di governarla (ma devi essere veramente molto bravo) o il rischio è che tu venga disarcionato, senza tanti complimenti. Magari anche senza cadute apparenti o plateali; perché forse rimarrai formalmente capo, ma la tua politica sarà sempre "sotto ricatto", sotto il ricatto della delusione, e della reazione del disincanto, che spesso colpisce gli innamoramenti politici...

Per dirla in breve, i rischi che mi sembra corra Renzi, ma con lui - purtroppo - tutti noi, sono due:

1. una volta che si critica così ripetutamente il governo (teoricamente amico) e si alzano le pretese, quando arriva il proprio turno non ci si può abbassare a nessun compromesso: si è criticato Letta su Ablyazov? Cosa succederà quando ci sarà un qualsiasi incidente di questo tipo in un futuro governo Renzi? Si volevano le dimissioni di Cancellieri? Alla prima telefonata sospetta di uno dei suoi ministri, sarà lecito scatenare la guerra... Si critica la legge di stabilità? L'anno prossimo - se ci sarà un governo Renzi (io spero ci sia ancora Letta) - si dovrà saper fare molto meglio ( e l'anno prossimo il Fiscal Compact - se non vado errato - inizia a chiedere il rientro del debito). Insomma; come ha detto lo stesso sindaco di Firenze: "non ci saranno più alibi". Ottimo, teoricamente. Ma se non si è in grado di soddisfare tutte le pretese che si sono volute alimentare facendo polemica contro il vecchio, il rischio di un "rinculo" è molto alto. 

Sono tanti gli uomini forti che hanno tentato di cambiare l'Italia con energia, promettendo Grandi Riforme o addirittura Rivoluzioni (liberali...); non pare ci siano riusciti. Perché? Qui veniamo al secondo punto, che è forse l'altra faccia del primo

2. L'idea  di politica che Renzi esprime è semplice; anche se alla fine del suo ultimo discorso alla Leopoda è sembrato voler porre un freno ("guardate che non basto io"), tutta la dinamica di questi giorni è fatalmente (anche per ragioni di competizione) focalizzata su di lui, sulla sua personale capacità, sulla forza che il capo potrà mettere nel portare avanti le sue idee. Ma questo non basta, in Italia. Per gli stessi motivi per cui sarebbe fallimentare una riforma presidenzialista, una politica dell'uomo forte può forse funzionare per qualche mese, ma va poi fatalmente a scontrarsi con il fatto che un uomo solo al comando non può gestire un paese complesso e stratificato come il nostro. 

L'impatto delle riforme - se fatte - crea inevitabilmente malcontento e lacera quella "facile alleanza" che - dietro al capo - si crea in fase elettorale, quando le promesse non vengono verificate, e non si guarda con attenzione alle conseguenze delle parole. 

L'uomo solo al comando rischia così di rimanere intrappolato nelle dinamiche parlamentari, che sempre ci saranno, e che magari prendono avvio da questioni concrete. Il capo che diceva di non voler occuparsi della bassa e volgare politica (quella che facevano i vecchi) rischia così di dover venire a compromessi molto tattici e di poco respiro (vi ricorda qualcuno? Anche Berlusconi si presentò - ed era, in un certo senso - uomo forte e nuovo)...

Non basta più - se mai è bastato - cambiare il "vertice" del paese. Una vera politica di riforme è fatta anche di "accompagnamento nel quotidiano": troppe volte belle riforme progressiste sono diventate pesanti - e vissute come negative - per la mancanza di attenzione alle quotidiane conseguenze che portavano, per la mancanza di ascolto dei cittadini coinvolti (si pensi a come è stato tradito l'art.18 dello Statuto dei lavoratori, che troppi cittadini e troppe aziende oggi vivono come nodo di privilegio, e non garanzia di diritti, come dovrebbe essere).
Ad accompagnare le riforme, forse, servirebbero buoni partiti, infatti.

Ho già scritto troppo. Solo un'ultima annotazione: poche ore fa è decaduto Berlusconi, come anni fa Craxi fu sconfitto, non proprio politicamente. Dopo la "caduta" di Craxi, non vinse la parte progressista. Anni dopo, Veltroni vinse le primarie, e cominciò a fare "pungolo" al governo Prodi, naturalmente con le migliori intenzioni. Alle successive elezioni, non vinse la parte progressista. 

Oggi pungolo al governo amico e caduta non-politica dell'avversario si fanno vicini. 

Non si fa altrettano prossima, temo, neanche questa volta, la vittoria di un'idea d'Italia laica, liberale e realmente progressista.

Francesco Maria Mariotti

Afghanistan, terra di scontro tra Cina e America (da Linkiesta.it)

(...) Non ci sono dubbi, però, sul fatto che l’Asia centrale sia già uno dei campi principali del confronto tra le due maggiori economie del pianeta, Cina e Stati Uniti. È sufficiente guardare ai progetti energetici. Da una parte la pipeline che i cinesi vogliono costruire fino al porto pakistano di Gwadar, dall’altra la "nuova via della seta" che gli americani intendono mettere in piedi per trasferire il gas turkmeno verso l’India. Solo mantenendo una forte presenza militare in Afghanistan gli americani potrebbero tenere a bada i cinesi, che stanno mettendo in campo il loro peso economico e con grande pragmatismo strizzano l’occhio a tutti, talebani compresi.
Già negli anni Novanta, dopo la presa del potere da parte degli studenti coranici, la Cina aveva avviato contatti con il mullah Omar. Il timore principale di Pechino era che l’Afghanistan talebano diventasse una base operativa per i separatisti uiguri dello Xinjiang - una regione della Cina occidentale - turcomanni e di religione islamica. Anche dopo l’intervento della Nato a Kabul, i cinesi, pur conservando buoni rapporti con Karzai, hanno mantenuto un canale di comunicazione con la shura di Quetta, un gruppo di talebani afghani del vicino Pakistan. Adesso che anche gli americani, in vista del ritiro, hanno avviato contatti coi taliban - sebbene i primi tentativi di intesa, in Qatar, si siano immediatamente arenati - l’attivismo cinese si è fatto più intenso.
Probabilmente anche al Dragone non converrebbe il prevalere della cosiddetta “opzione zero”, che porterebbe gli Stati Uniti a mollare del tutto gli ormeggi, come in Iraq. Ciò che interessa primariamente alla Cina è la stabilità, l’ordine, premessa necessaria per il business. Se a questo provvedono gli americani, tanto meglio. Ma Pechino vuole essere preparata ad ogni evenienza. Il focus è sempre orientato sulle risorse minerarie afghane, necessarie per continuare ad alimentare il motore dell’economia più dinamica del G-20.(...)

Penny Lane

WASHINGTON - Una base segreta a Guantanamo. Chiamata in codice «Penny Lane» e attiva almeno fino al 2006. Un centro d’addestramento protetto dai Marines e gestito dalla Cia finalizzato ad un’operazione ambiziosa: trasformare alcuni prigionieri di Guantanamo in infiltrati. Gli agenti doppi - secondo le rivelazioni dell’Associated Press - sono stati liberati, sono rientrati in Al Qaeda e avrebbero partecipato all’eliminazione di numerosi terroristi.

RICCO STIPENDIO E FAMIGLIE SALVE - Il programma ha riguardato un numero ristretto di detenuti, persone che hanno deciso per ragioni diverse di rompere con il passato jihadista. In cambio hanno ottenuto un ricco stipendio, il trasferimento delle famiglie in luoghi sicuri, nuove identità. La Cia li ha selezionati poco dopo il loro arrivo nel campo di prigionia cercando di capire chi potesse essere un buon candidato. Un’azione svolta con cautela perché il terrorista poteva sempre fingere e ingannare i «controllori».(...)

Il "Contratto" Tedesco

​La riluttanza dei socialdemocratici dopo l'esperienza di Grande Coalizione del 2005-2009 dalla quale uscirono con il peggior risultato elettorale della loro storia è stata superata grazie a generose concessioni su lavoro e pensioni e una parziale retromarcia rispetto alla flessibilità contrattuale introdotta negli anni 90 dalle riforme Hartz. Il programma di coalizione prevede un aumento della spesa di 23 miliardi di euro, la metà delle inziali richieste della Spd che ha dovuto anche rinunciare a un aumento delle aliqtuote fiscali per i redditi più alti. Le due linee rosse della cancelleria sono infatti state "nessun incremento delle tasse né del debito".

di Roberta Miraglia - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/KJp0F

mercoledì 27 novembre 2013

Isole Senkaku, scintille fra Usa e Cina (laStampa)

Monito di Washington a Pechino sulle isole Senkatu. Nell’arco di poche ore, prima il Dipartimento di Stato e poi il Pentagono hanno emesso comunicati scritti nei quali si chiede alla Cina di "evitare un’escalation nel Mar della Cina Orientale". Il motivo sono gli sconfinamenti nelle acque delle isole Senkatu, amministrate dal Giappone ma rivendicate da Pechino e Taipei, seguiti alla decisione di estendere su di loro lo "spazio di difesa aerea cinese". Pechino ha inoltre minacciato di "agire" se "aerei non identificati come cinesi" dovessero sorvolare le isole disabitate e Tokio ha reagito parlando di "scelta inaccettabile", capace di innescare "eventi imprevedibili". La decisione dell’amministrazione Obama di sostenere l’alleato giapponese lascia intendere la gravità delle tensioni sino-nipponiche che saranno in cima all’agenda di un viaggio in Estremo Oriente che il vicepresidente Joe Biden si appresta a fare all’inizio di dicembre.(...)

martedì 26 novembre 2013

CAOS IN LIBIA: ARRIVA LA MISSIONE UE ALLE FRONTIERE (da AnalisiDifesa)

La Libia é alle prese con il caos delle milizie armate che agiscono quasi indisturbate nel paese dalla caduta del regime di Gheddafi. Una situazione che se non sarà risolta rapidamente da Tripoli potrebbe infiammare anche altri paesi della regione come Ciad, Algeria, Tunisia ed Egitto e accrescere il flusso dei profughi che lasciano il paese per trovare rifugio in Europa. ”Queste bande armate -spiega all’Adnkronos un autorevole osservatore- sono diventate piccole mafie. Non sono politicizzate e pensano solo a fare soldi mettendo in atto ricatti, prendendo ostaggi. Credo che la situazione potrebbe degenerare a meno che venissero inviate forze internazionali”. L’invio di ‘caschi blu in Libia, secondo questo osservatore, ”sarebbe molto auspicabile” anche perché ”ne va dell’interesse della Libia e dell’Europa che si confronta con il problema dell’immigrazione clandestina e che potrebbe subire le ripercussioni legate ad un’eventuale interruzione degli approvvigionamenti di gas e petrolio”.

La situazione in Libia, poi, si spiega, ”rischia di infiammare il Nordafrica e tutta la regione. C’é una quantità di armi colossale che potrebbe avere conseguenze negative per il Ciad, l’Algeria, l’Egitto e la Tunisia”. Pertanto, aggiunge, ”sarebbe auspicabile l’arrivo di ‘caschi blu’ per pacificare il Paese ed effettuare un vero disarmo. Nelle settimane a venire se il Governo libico non arrivera’ a risolvere il problema sarà auspicabile l’invio di ‘caschi blu”Dopo i violenti scontri del 15 novembre, avvenuti nel quartiere di Ghargur, roccaforte degli ex ribelli di Misurata, e che causarono oltre 50 vittime, il Governo libico sembra aver ripreso, almeno per ora, il controllo della situazione sull’onda dell’emozione suscitata del tragico venerdi’ di sangue. La maggior parte dei miliziani di Misurata hanno iniziato il ritiro graduale dalla capitale. Anche altre milizie, quelle di Jado, Nalut e Gharian, avrebbero lasciato la capitale volontariamente. Ma si tratta di una tregua che potrebbe essere solo momentanea.

La maggior parte delle milizie, che fanno capo per per lo più alle diversi tribù del Paese, hanno lasciato la capitale con il loro arsenale. Un ritiro, quindi, che potrebbe essere solo temporaneo anche perché dal primo gennaio Tripoli ha annunciato che non verserà più alcun salario a questi gruppi, a meno che questi non si arruolino nelle nuove forze di sicurezza nazionali, che erano stati finanziati con lo scopo di creare forze di sicurezze semi-ufficiali sotto la tutela dei ministeri dell’Interno e della Difesa.(...)

la missione EUBAM (European Union Border Assistance Mission) sarà composta da 111 funzionari di polizia disarmati e dovrà costituire una forza di Guardie di Frontiera di 9 mila uomini e una Guardia Costiera composta da 6.400 unità per controllare 1.800 chilometri di coste e i 4 mila di confine terrestre libico.(...)

Circa i contributi internazionali per addestrare le nuove forze libiche l’Italia svolge al momento il ruolo più importante: 60 ufficiali della guardie di frontiera sono in addestramento a Vicenza presso il Centro di eccellenza per le Stability Police Units, 65 militari libici sono alla scuola di Fanteria di Cesano, 280 agenti di polizia militare vengono istruiti dai carabinieri a Tripoli insieme a 150 poliziotti civili.  La francia sta addestrando 75 guardie del corpo per i membri del governo libico. 30 militari dell’aeronautica, 20 ufficiali di marina e 72 subacquei.  Secondo indiscrezioni i britannici stanno addestrando in Irlanda i funzionari dell’intelligence libico mentre a Tripoli hanno inserito un loro “Defence Assistance Team” all’interno del Ministero della Difesa e un “consigliere strategico” al Ministero degli Interni. La Germania sta finanziando la messa in sicurezza di siti chimici e armamenti  quali i missili antiaerei portatili mentre gli Stati Uniti progettano di addestrare in Bulgaria fino a 8 mila militari libici. La Turchia ha addestrato 804 agenti di polizia e 250 ufficiali dell’esercito mentre un team NATO di 10 esperti si recherà spesso a Tripoli per fornire consulenza (...)

Iran: Accordo Inevitabile? O Inutile?

L'accordo tra il "5+ 1" (Usa, Inghilterra, Francia, Russia e Cina, più la Germania) e l’Iran è difficile da valutare: sembra essere inevitabile, forse anche per certi aspetti "positivo", al tempo stesso inutile. E comunque porta con sé una quota di "rischio" che non può essere sottovalutata, e che rende molto comprensibile la dura reazione israeliana. 

Inevitabile, perché ormai le mosse dei giocatori si erano portate su un territorio dal quale "ritirarsi" era forse impossibile, a meno di non voler aprire una fase "drammatica" ed "esplicita" del conflitto (la fase "implicita" e coperta essendo già in corso).

Positivo, sia pur detto con moltissime cautele, perché almeno sulla carta vengono posti limiti all'attività iraniana, pur con inevitabili ambiguità; e questi limiti - teoricamente - possono servire a "sorvegliare" Teheran, che è chiamata ad accettare le ispezioni dell'ONU, senza più alcun alibi (non che prima le motivazioni per rifiutarle fossero reali e fondate, ma è comunque importante togliere quasiasi pretesto); il problema è naturalmente capire se le ispezioni riusciranno a essere così stringenti da verificare effettivamente le eventuali violazioni al patto.

Inutile, perché questi sei mesi di prova possono funzionare, ma se il Medio Oriente tutto non viene coinvolto - e in questo senso all'orizzonte c'è anche la drammatica questione siriana - questo accordo non porrà certo le basi di una pace duratura (solo in un quadro di pace ogni paese potrebbe legittimamente rivendicare autonomia nelle scelte energetiche).

Anzi: come segnalato in uno degli articoli qui sotto riportati, il rischio è che l'accordo segni una "stabilizzazione" del regime iraniano, che può trovare ossigeno (anche finanziario) con il quale resistere ai segnali e ai tentativi di cambiamento.

E' proprio questa - in ultimo - la posta in palio con il nucleare, per Teheran: non un'improbabile guerra atomica, ma il "congelamento" della situazione politica interna, l'alzare il prezzo di qualsiasi possibile cambiamento profondo.

Non potendo e non volendo alzare la tensione, forse l'Occidente non poteva fare altro, per il momento.

Una scelta inevitabile, dunque. Ai fatti decidere se sarà stato un primo felice passo, o un azzardo che pagheremo più caro, più avanti.

Meglio prepararsi a tutto.

Francesco Maria Mariotti

Non è tutto oro quel che luccica. L’accordo tra il “5+1” (Usa, Inghilterra, Francia, Russia e Cina, più la Germania) e l’Iran suscita perplessità e malcontento in più di un attore del grande gioco mediorientale, e non solo. La sospensione per sei mesi delle sanzioni sulla Repubblica Islamica iraniana, ottenuta in cambio di alcune concessioni all’Occidente sul programma nucleare, promette di portare circa sette miliardi di dollari nelle casse di Teheran. Un miglioramento, anche se lieve, delle condizioni economiche del Paese verrebbe sfruttato dal regime degli Ayatollah per legittimare la propria permanenza al potere, messa in crisi dalle proteste del 2009 e dal peggioramento delle condizioni di vita di milioni di iraniani, stretti tra disoccupazione e inflazione. I primi “sconfitti” di questo accordo sarebbero quindi gli oppositori interni del regime.(...)

«L’intesa sicuramente rafforza la Repubblica Islamica nel suo complesso», spiega Pejman Abdolmohammadi, docente di Storia e istituzioni dei paesi islamici all’Università di Genova. «La questione è abbastanza complessa. I “falchi” del clero sciita e dei Pasdaran stanno già attaccando l’accordo raggiunto, sostenendo che ci si è spinti troppi avanti, ma si tratta del solito gioco delle parti. L’ala moderata rappresentata da Rohani e dal ministro degli Esteri Zarif è riuscita nell’impresa di ottenere al tavolo dei negoziati l’allentamento delle sanzioni, con conseguenze economiche favorevoli per la popolazione iraniana, stabilizzando di fatto la Repubblica Islamica. Questa è una cosa positiva per tutti i suoi sostenitori».(...)



A riassumere il capitolo meno noto della diplomazia dell’amministrazione Obama è stato il luogo della Casa Bianca scelto per annunciarne il successo: la State Dining Room, con alle spalle il grande ritratto di Abramo Lincoln. Proprio a Lincoln infatti Obama si riferì nel discorso di insediamento a Washington, il 20 gennaio 2009, ispirandosi alla sua scelta di «cooperare con i nemici» dopo la vittoria nella guerra civile per mandare un messaggio esplicito all’Iran: «Tenderemo la mano, se voi aprirete il pugno».


Cosa concede l'Iran in cambio dell'alleggerimento delle sanzioni? Il Paese non ha ceduto, per il momento, sull'arricchimento dell'uranio a scopi civili ma deve neutralizzare l'uranio già arricchito al 20% (considerato vicino a quello necessario per armi atomiche) riconvertendolo o diluendolo fino al 5 per cento. Nell'accordo la comunità internazionale concede infatti a Teheran di continuare ad arricchire l'uranio fino al 5 per cento. Le centrifughe in grado di effettuare un arricchimento superiore dovranno essere disattivate e il Paese non ne produrrà di nuove. Questa parte dell'accordo comporta che circa la metà delle centrifughe in funzione a Natanz e tre quarti di quelle di Fordow verranno rese inoperative. Congelerà le attività nell'impianto di acqua pesante di Arak che, se costruito, potrebbe produrre plutonio per un'arma nucleare. 

di Roberta Miraglia. Con un articolo di Roberto Bongiorni - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/deALF

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lunedì 25 novembre 2013

Cosa Sta Succedendo in Ucraina?

Nove anni dopo la «rivoluzione arancione l’Ucraina torna in piazza, anzi, «l’euro-piazza», come è stata battezzata la protesta contro la decisione del governo di sospendere il negoziato con l’Europa. A Kiev 100 mila persone sono arrivate al Maidan Nezalezhnosti, la piazza dell’Indipendenza dove nel 2004 Yulia Timoshenko e Viktor Yushenko avevano strappato il potere a Viktor Yanukovich. Che è di nuovo il nemico principale: la ex premier ieri dal carcere ha chiesto alla piazza di «spazzare via» il presidente.


Siria - Quali Vie di Uscita?

(...) Il pessimo stato in cui versa è l’effetto diretto delle spaccature fra quelli che sono (o che erano) i suoi principali sponsor regionali e internazionali. Turchia e Qatar, un tempo i due supporter più importanti dell’Esercito Libero e della Coalizione nazionale siriana, oggi sembrano aver deciso di rivedere completamente il proprio impegno “in prima linea”. Da una parte Ankara sta cominciando ad ammettere gli errori di calcolo commessi quando due anni e mezzo fa quando decise di puntare tutto su una rapida caduta di Assad; recrudescenza degli attacchi curdi, centinaia di migliaia di rifugiati nell’est del paese, continui incidenti di confine e, soprattutto, l’inaspettata tenacia del regime di Damasco hanno costretto Erdogan a rivalutare la propria politica siriana e ad adottare un più basso profilo. Dall’altra il Qatar si sta ancora leccando le ferite dopo il clamoroso scacco subito con la caduta di Morsi in Egitto che ha frantumato l’ambizioso disegno qatarino di divenire una potenza regionale di primo piano spodestando gli alleati-rivali sauditi attraverso il sostegno alla Fratellanza musulmana internazionale.

Oggi il nuovo “padrino” dell’opposizione siriana è l’Arabia Saudita (seguita silenziosamente dagli Emirati Arabi Uniti), che dopo il golpe in Egitto ha frettolosa-mente giocato il proprio “asso piglia tutto” diventando il primo sponsor del nuovo regime militare al Cairo e spodestando gli uomini del Qatar dai posti chiave dell’Esercito Libero e della Coalizione nazionale siriana. Lo scopo che guida la mano di Riyadh in Siria è ovviamente in primo luogo la volontà di sottrarre allo storico nemico, l’Iran, il suo alleato chiave nel mondo arabo. Ma non solo. Col tempo e con il crescere delle milizie legate ad al-Qaeda sul territorio siriano è diventato di primaria importanza per i sauditi anche arginare il fenomeno qaedista. Dopo il grave scorno subito dal mancato attacco statunitense – che ha portato a un raffreddamento probabilmente senza precedenti nei rapporti fra Riyadh e Washington – i sauditi sembrano aver deciso di far da sé, alla solita maniera: addestramento e armamento di salafiti “buoni” per contrastare i salafiti “cattivi”, con buona pace dei valori laici e di unità nazionale che guidavano i primi passi della rivoluzione siriana. La pressione saudita ha portato all’ulteriore smantellamento dell’Esercito libero siriano, che ha visto un’ulteriore scissione interna guidata dalle brigate più intrise di valori religiosi. Queste ultime, quasi un terzo del totale, sono andate a formare “l’Esercito dell’Islam”, finanziato da Riyadh con l’intenzione di creare una forza islamista in grado di contrastare le formazioni di al-Nusra e di al-Qaeda in Iraq e nel Levante, espressioni dirette della galassia jihadista internazionale in Siria.(...)


Si sarebbe tentati dal dire che è l’effetto dell’accordo del P5+1 (i membri permanenti del Consiglio di sicurezza Onu più i tedeschi) con Teheran sul nucleare, ma sarebbe troppo facile. Anche se sarebbe sbagliato non valutarlo come segno di un clima che sta cambiando. L’Onu ha annunciato che, dopo tanti rinvii, la conferenza internazionale per trovare una soluzione alla crisi siriana di terrà finalmente a Ginevra il 22 gennaio. 

Il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov, mentre partecipava oggi al Media forum italo-russo insieme con la collega Emma Bonino, ha sottolineato: “La conferenza si poteva fare prima di gennaio se non ci fosse stato l’egoismo politico dell’opposizione siriana”.  

Come è noto l’opposizione è un complicato arcipelago composto da forze che si rifanno a vari sponsor come l’Arabia Saudita e la Turchia, la Francia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti, e altre, molto forti sul campo, che si rifanno all’estremismo salafita vicino all’icona terroristica di Al Qaeda.  

Il grosso ostacolo finora era che nessun gruppo, neppure quelli più moderati voleva trattare con Assad. (...) 

Perché il 25 novembre - Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne

(...) L'auto sulla quale viaggiavano le tre sorelle e l'autista viene intercettato e i passaggeri vengono costretti a scendere dal veicolo e condotti in un luogo appartato in una piantagione di canna da zucchero e uccisi a bastonate; i loro corpi vennero poi rimessi nel veicolo sul quale stavano viaggiando che venne fatto precipitare per un dirupo per simulare un incidente. Con la morte delle sorelle Mirabal Trujillo credette di aver eliminato un problema, ma ciò causò grandi ripercussioni nell'opinione pubblica dominicana (nonostante la censura), molte coscienze si scossero e il movimento culminò con l'assassino di Trujillo nel 1961.
Nel nostro paese e nel mondo il 25 di novembre si commemora il Giorno Internazionale della Non Violenza nei Confronti della Donna La commemorazione di questa data ha origine al primo Incontro Internazionale Femminista, celebrato in Colombia, nell’anno 1980. In quell' incontro la Repubblica Dominicana propose questa data in onore alle tre sorelle Dominicane Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal. In modo progressivo, molti paesi si sono uniti nella commemorazione di questo giorno, come simbolo del clamore e della denuncia di fronte al maltrattamento fisico e psicologico verso le donne e le bambine. Nel 1998, l’assemblea Generale delle Nazioni Unite ha approvato all’unanimità la internazionalizzazione della commemorazione di questa data. Il 17 dicembre 1999 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò la risoluzione 54/134 con cui scelse la data del 25 novembre per la Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, in omaggio alle sorelle Mirabal.(...)

sabato 23 novembre 2013

La frattura che si allarga nell’Islam (laStampa.it)

(...) La realtà è ben diversa, non solo perché – dal Marocco alle Filippine – vediamo una grande varietà di modi di essere musulmani (a seconda della storia di ciascun popolo, delle particolarità culturali, delle appartenenze etniche) ma anche perché esistono, oltre alle differenze, vere e proprie fratture, di cui la più importante è la contrapposizione sunniti-sciiti. 

E’ una contrapposizione che ricorda, nella sua radicalità e ricorrente carica di violenza, quella che è esistita per secoli fra il ramo cattolico e quello protestante della cristianità. Lo scontro fra queste due diverse interpretazioni del messaggio cristiano aveva in origine radici dottrinali, teologiche, anche se ben presto si intrecciò con dimensioni politiche, dinastiche, territoriali. Nel caso dell’Islam, una religione della «ortoprassi» piuttosto che della «ortodossia», la spaccatura fu fin dall’inizio determinata non da divergenze teologiche, ma da una questione di potere: quella della successione a Maometto, che gli sciiti volevano per discendenza familiare e i sunniti secondo i tradizionali meccanismi tribali di selezione dei capi. (...)

Spada Affilata: La Cina Si Prepara Alla Guerra? (Corriere.it)

Giovedì ha volato per la prima volta un drone con motore a getto e tecnologia stealth made in China. Si chiama Lijian: Spada affilata. Verrà usato in operazioni antiterrorismo, ricognizione, combattimento, dice la stampa cinese. La tecnologia stealth (furtiva o invisibile) permette di sfuggire ai radar.


Un apparecchio senza pilota che secondo gli esperti occidentali somiglia nel disegno alle ali a forma di pipistrello dell’RQ-170 Sentinel, prodotto dalla Lockheed Martin e impiegato dagli americani fin dal 2007. La tecnologia bellica cinese è all’inseguimento. Ma si è avvicinata: l’Esercito popolare di liberazione ha già sviluppato piccoli droni per uso tattico e corto raggio e altri apparecchi senza pilota che somigliano in modo impressionante agli americani Reaper e Predator, usati nella caccia ai terroristi di Al Qaeda dal Medio Oriente al Pakistan e all’Afghanistan.

Anche i cinesi sono in grado di armare i loro droni: recentemente un alto ufficiale dell’ufficio antidroga ha detto al Quotidiano del Popolo che l’uso di un drone è stato preso in considerazione per eliminare un trafficante birmano che si nascondeva nella foresta di Myanmar ed era ricercato per l’uccisione di 13 marinai di un peschereccio cinese. Il narcotrafficante fu poi arrestato e giustiziato dopo un processo.

Un altro impiego dei droni è la ricognizione aerea e Pechino potrebbe inviarli anche a pattugliare la zona delle isole Diaoyu/Senkaku, controllate dal Giappone. Tokyo, che chiama le isole Senkaku, minaccia di aprire il fuoco sugli apparecchi che violano lo spazio aereo. Pechino, che le chiama Diaoyu, replica che l’abbattimento di un velivolo, anche senza pilota come un drone, «sarebbe un atto di guerra». (...)




Iran: Scelte Rischiose?

GINEVRA - «Siamo vicini a un accordo». Arriva da Teheran la notizia che, dopo tre giorni intensi di negoziati a Ginevra, l’Iran e le potenze occidentali avrebbero trovato un’accordo sullo spinoso dossier nucleare. Venerdì sera il viceministro iraniano Abbas Araqchi, secondo quanto ha riferito l’agenzia stampaMehr, ha soffiato sul fuoco della speranza di un’intesa dopo che a innescare le aspettative erano stati poco prima gli Stati Uniti annunciando che il segretario di Stato John Kerry era in partenza per Ginevra. Secondo quanto poi aveva riferito laPress Tv, sulla base di fonti negoziali, la questione si sarebbe sbloccata quando i delegati del 5+1 avrebbero accettato di riconoscere il diritto di Teheran ad arricchire in proprio l’uranio. (...) 

LA CAUTELA USA - Un tam-tam di voci seguite anche alle dichiarazioni del ministro degli Esteri iraniano Mohammad Kavad Zarif che, ancora prima da Ginevra, aveva parlato di progressi «del 90 per cento», anche se restano da risolvere «una o due questioni». Dal Dipartimento di Stato Usa comunque resta un filo di cautela sulla questione: «Il segretario si recherà a Ginevra con l’obiettivo di continuare a dare una mano per far ridurre le divergenze, e progredire sempre di più verso un accordo», ha spiegato il portavoce Jen Psaki spiegando che Kerry si sarebbe consultato con l’alto rappresentante dell’Unione Europea, Catherine Ashton, e con la delegazione di negoziatori sul posto e che comunque la sua partenza in ogni caso «non costituisce una previsione sull’esito» dei negoziati. Venerdì a Ginevra era arrivato anche il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov.(...)

venerdì 22 novembre 2013

Torna Lo Stato? O E' Una Pericolosa Illusione?

Torna lo Stato come protagonista dell'economia? Come garante di quel "lungo periodo" e di quella solidità di cui si sente bisogno in uno scenario sempre più pesante di crisi, di mancanza di lavoro? Per certi aspetti questa "riscoperta" è naturale, e forse anche benvenuta, ed è figlia di questa crisi e della avversione a soluzioni che vengono etichettate come "neoliberiste" (anche se a volte si tengono sotto questo "cappello" idee molto diverse fra loro, visto che per esempio a sinistra spesso si è indicato in Mario Monti un esponente del neoliberismo, mentre è molto più vicino alle idee dell'economia sociale di mercato). 

Al tempo stesso proprio il fatto che questa ricerca di "nuove" strade sia frutto di una "reazione" deve indurci a prudenza su facili entusiasmi rispetto alle possibilità di "mosse risolutive", che siano messe in campo dallo Stato o anche dalle Banche centrali, a cui spesso viene chiesto di sostituire la politica.

Alcune considerazioni, che in parte ritrovate negli articoli che segnalo di seguito:

1. Nessuna ardita mossa monetaria - di svalutazione o di "iniezione" di liquidità o simili - potrà da sola portare a risolvere la crisi. Una mossa estrema della BCE, per esempio, potrebbe servire se - e solo se - accompagnata da un salto di qualità politico dell'Unione europea. E comunque sarebbe forse un "guadagnare tempo": importante, magari, ma non risolutivo.

2. Gli Stati non possono essere protagonisti come un tempo della politica economica, proprio perché lo scenario complessivo è cambiato, e la globalizzazione - che non è una novità, è una tendenza sempre presente nella storia economica del mondo - costringe a fare i conti con confini sempre più mobili, sempre meno definiti, sempre meno "controllabili".

3. Per questo il rischio più grande - lo segnala uno degli articoli - è che l'idea di un nuovo ruolo della mano pubblica nel gioco economico (in sé forse inevitabile) è che esso si coniughi con protezionismi e vincoli, in ultima istanza difesa (anche comprensibile) dal futuro. E dai protezionismi e vincoli di tipo economico può sorgere di peggio.

Le elezioni politiche europee potranno essere un test importante anche da questo punto di vista, se saremo capaci di interrogarci sui nuovi scenari che si aprono. 

L'importante è che non perdiamo di vista che l'unità del mondo è alla fine inevitabile sbocco di questa strana vicenda umana di cui siamo protagonisti. Rallentare nel percorso può essere forse necessario, ma sarà sempre una soluzione temporanea. 

La politica che non veda questa finalità sarà sempre a rischio di cadute, errori, e forse  di (inutili?) spargimenti di sangue.

Francesco Maria Mariotti

I banchieri centrali rivendicano di avere altre frecce nei loro archi, tra cui la fissazione di obiettivi più audaci del mero controllo dell’inflazione, l’acquisto di asset più disparati o anche l’imposizione di tassi negativi sui depositi delle banche presso gli Istituti centrali, proprio per cercare di “punire” l’eccesso di risparmio immobile e convincere così a prestare e a investire. Wolf alle Banche centrali interventiste crede eccome. Ma non basta, aggiunge. Assieme a Summers, che a dire il vero già nel 2010 sostenne con ardore un teorema simile, dice che è il momento che lo stato attivista faccia quello che l’imprenditore loffio ha paura di fare: cioè decida dove e come dirottare la massa di risparmi a disposizione. Non a caso è stato Wolf, in queste settimane, a rilanciare con una sua recensione il libro dell’economista italo-americana Mariana Mazzucato. “The Entrepreneurial State”, pubblicato originariamente nel 2011, due anni dopo ha goduto di stampa migliore: sarà il segno dei tempi, l’insoddisfazione con le politiche di austerity e con le riforme strutturali che hanno effetto solo nel medio-lungo termine, fatto sta che oggi sul Financial Times non è uno scandalo definire “brilliant” un volume che intende falsificare “il mito di un settore dinamico privato contrapposto a un settore pubblico pigro” (vedi articolo sotto di Stefano Cingolani).

Va pur detto che altri economisti, come Raghuram Rajan, pur partendo da diagnosi in qualche modo simili a quelle di Wolf, diffidano dal trasformare i banchieri centrali nei nuovi re taumaturghi. Rajan, allevato a Chicago e oggi governatore della Banca centrale indiana, ritiene pure lui che a suon di credito facile, e quindi di debito, si sia tentato negli ultimi decenni di camuffare le difficoltà del mondo sviluppato, cioè la sopraggiunta incapacità del nostro occidente di creare ricchezza ai ritmi di un tempo. Secondo lui, però, la via d’uscita dal dilemma del risparmio in eccesso non la forniscono gli investimenti pubblici: meglio la via lunga delle riforme pro competitività, della concorrenza temperata dalle pari opportunità (di partenza) per tutti.


(...) Si chiama Mariana Mazzucato, è una donna italiana cresciuta negli Stati Uniti e trapiantata a Londra, non una econo-star, ma quasi. Lilli Gruber l’ha invitata una settimana fa a “Otto e mezzo” dove ha duellato con Michele Boldrin. Sembrava una riedizione di Beauty and the Beast nel senso che Boldrin difendeva la “bestialità” del mercato e la Mazzucato l’armonia di uno stato che si fa imprenditore. Perché la ricetta, quella che ha sapore d’antico, è proprio questa.

“Le innovazioni che hanno consentito la rivoluzione dell’information technology, ma anche quelle che hanno fatto sì che Steve Jobs creasse i suoi prodotti più smart, ebbene tutte vengono da ricerche pubbliche, da programmi statali, molti di loro addirittura militari”, dice la Mazzucato. Cosa c’è di inedito? E’ ben noto che fu la rete Arpanet a tenere in grembo internet, il touch screen, il Gps, gli algoritmi di Google, l’ingegneria genetica (negli Stati Uniti si spendono 32 miliardi di dollari l’anno per l’innovazione biomedica). Ma tutto questo, secondo la professoressa dell’Università del Sussex, fa cadere totem e tabù eretti dalla (contro)rivoluzione neoliberista. Lo stato non è un retaggio del passato, innova e si rinnova; non è un freno ma al contrario è il motore di ogni salto tecnologico; non è il barelliere che raccoglie morti e feriti dalla distruzione creatrice del mercato, bensì si fa attore in prima persona. Guai a rappresentarlo con le fattezze mostruose del Leviatano, assomiglia piuttosto a uno Steve Jobs collettivo.

“The Entrepreneurial State”, il libro che ha lanciato Mariana Mazzucato, è uscito nel giugno scorso, ma è frutto di un lungo lavoro per rivalutare il ruolo dello stato nel capitalismo moderno, compiuto con il think tank Demos, a sua volta parte di un progetto della Fondazione Ford chiamato Reforming Global Finance. Insomma, siamo nel cuore del sistema, non in un pensatoio gauchiste. E la stessa Mazzucato, nonostante penda decisamente verso i laburisti, viene consultata regolarmente dai conservatori a Westminster e a Downing Street. David Cameron l’ascolta per capire come rilanciare la “Little England” (definizione dell’Economist). Se prendiamo la classifica delle multinazionali, del resto, vediamo che tra le prime spiccano i colossi di stato (cinesi, russi, brasiliani) e anche grandi banche e imprese industriali occidentali nelle quali i governi hanno un ruolo attivo.(...)

La Mazzucato esalta il ruolo pubblico nella riconversione verso “l’economia verde”. Ebbene proprio in questi mesi l’eccesso di sovvenzioni alle fonti rinnovabili ha provocato in Germania una vera crisi energetica, mettendo in ginocchio colossi elettrici come Eon. “Perché non ha elencato anche tutti gli investimenti sprecati dai governi nel tentativo di tenere in piedi progetti poco economici?”, la bacchetta l’Economist. Di quante finte Silicon Valley pagate dai contribuenti sono lastricate le pianure europee? Formata in ottime scuole e con numerose esperienze alle spalle (anche alla Bocconi), certo non le manca la conoscenza della materia. Ma il suo entusiasmo la spinge a dimenticare che dal complesso militar-industriale denunciato da Dwight Eisenhower al Nuovo stato industriale teorizzato da Kenneth Galbraith, la letteratura anglo-americana è piena di analisi e discussioni sul ruolo attivo e innovatore di una mano pubblica che crea le condizioni perché la mano invisibile del mercato sviluppi le sue energie. Una cosa, però, è dire che lo stato fornisce gli ingredienti e apparecchia la tavola, un’altra è sostenere che si possa sostituire all’imprenditore nel creare piatti appetitosi e salutari, combinando il bello e l’utile. Jobs è unico e non si replica.

Non solo. Ai tempi di Eisenhower e Galbraith, lo stato aveva una dimensione nazionale, per quanto grande. Difendeva la propria valuta, controllava il flusso di capitali indirizzandolo verso i propri interessi, proteggeva le industrie strategiche. Perché il ritorno dello stato imprenditore s’accompagna inevitabilmente a robusti limiti al libero scambio e alla globalizzazione. “La fine del laissez faire”, del resto, è uno dei testi di John M. Keynes più citati dalla Mazzucato. E’ probabile che il mondo si stia già muovendo in questa direzione: secondo l’Economist ovunque si costruiscono castelli e fortilizi. E l’ironia della storia mostra che la critica da sinistra al mercato provoca per lo più ritorni conservatori, neocorporativi, protezionistici. Tira un’aria non da Nuova frontiera anni 60, ma da primo Dopoguerra. 


giovedì 21 novembre 2013

Bilancio Europeo: Luci e Ombre

L'Aula di Strasburgo ha dato il via libera al maxi bilancio europeo che finanzierà le politiche dell'Unione per i prossimi sette anni.
Un accordo segnato da luci e ombre che, ancora una volta, riflettono la crisi e l'incertezza di questi anni.
L'ombra più lunga sono i numeri assoluti: le risorse messe in gioco per finanziare l'ambizioso programma Europa2020, per un`Europa della crescita intelligente sostenibile e inclusiva, si fermano a 959 miliardi di euro, contro i 1045 che chiedevano Commissione e Parlamento.
Il problema non è solo la riduzione: è soprattutto il fatto che, per la prima volta, i finanziamenti complessivi per la coesione, l`agricoltura, la ricerca, sono ridotte anziché aumentate. 
La ragione è semplice: gli Stati membri hanno bilanci in sofferenza e stentano a finanziare il bilancio europeo che, a oggi, dipende ancora integralmente da quelli dei singoli Paesi membri.
Gli aspetti positivi del maxi bilancio pero, sono molti.
Prima di tutto saranno subito disponibili quasi due miliardi e mezzo di euro per sostenere l`occupazione, dei giovani e la ricerca e per rafforzare il nuovo programma Erasmus per tutti.
Risorse importantissime in questo momento, soprattutto per i Paesi più in difficoltà.
Altri aspetti positivi riguardano i meccanismi di spesa dei finanziamenti: se le risorse non aumentano, sarà comunque decisamente ridotto il rischio di "perderle".
Le somme non utilizzate, infatti, costituiranno una sorta di "salvadanaio" che potrà essere usato negli anni futuri.
Suona, infine, un campanello di allarme per i Paesi, come il nostro, sotto sforzo per rimanere nei parametri europei: si chiama "condizionalità macroeconomica".
In pratica, i finanziamenti europei sono collegati alla corretta gestione economica di un Paese e, in caso di mancato rispetto degli impegni, possono essere sospesi.
E' chiaro che questa regola mira a rafforzare una buona gestione dei conti ma, nei fatti, rischia di penalizzare uno Stato membro già in difficoltà, svuotando di significato il senso della politica di coesione.
Tagliare i finanziamenti ai Paesi che sono in crisi, produce solo una crisi peggiore.
Purtroppo nonostante la posizione contraria di una parte consistente del Parlamento questo principio apre un capitolo di incertezza su una parte importante del bilancio europeo per molti Paesi.


Non è ancora stato possibile dotare l'Unione di risorse proprie, gli eurobond (e qualsiasi delle diverse ipotesi e opzioni di messa in comune dei debiti sovrani) sono duramente osteggiati, di tassa sulle transazioni finanziarie come risorsa propria dell´Unione non si parla più e le risorse ordinarie sono state robustamente ridotte. Le conseguenze sono immediate: ci sono meno fondi per le politiche di coesione proprio quando le rotture sociali tra i territori e nei territori aumentano per effetto dell´indebolimento del welfare; cala la dotazione del fondo sociale in concomitanza con l´aumento della disoccupazione; anche uno strumento come la "garanzia giovani" (che non crea certo nuovi posti di lavoro ma protegge come fanno in genere gli ammortizzatori sociali le fasce giovanili più deboli) ha a disposizione una quantità modestissima di finanziamenti e per questo diviene un simboli sostanzialmente inefficace.
La schizofrenia insita nel definire l´obiettivo ambizioso e non creare poi le condizioni per realizzarlo cade pesantemente sulle condizioni materiali della vita delle persone che finiscono per non credere più agli impegni che la politica e le Istituzioni prendono con loro. Le perplessità nascono dallo scarto crescente tra il dire e il fare, non è determinato da ostilità ideologiche verso l'Europa o da strumentali calcoli politici; per questo scetticismo si consolida è più difficile da rimuovere. Ne deriva un contributo forte alla contrarietà dei cittadini alle Istituzioni europee. Il tema riguarda tutti, progressisti e conservatori, e viene prima delle proposte di merito relative alla politica economica e sociale.
Contrastare questa deriva negativa e pericolosa è possibile, ma richiede una scelta netta di metodo e di coerenza politica. È indispensabile usare sempre il linguaggio della verità e non accreditare mai ipotesi che si sa non realizzabili. Ciò vuol dire non solo rifuggire dalla demagogia, cosa che si dovrebbe sempre fare, ma avere il coraggio di affrontare i temi più difficili anche mettendo in conto di avere difficoltà nel costruire consenso tra i propri rappresentanti.

Cristiani In Medio Oriente (da VaticanInsider)

(...) Il Pontefice ha quindi rivolto il suo pensiero al Medio Oriente, «terra benedetta in cui Cristo è vissuto, morto e risorto. In essa – l’ho avvertito anche oggi dalla voce dei Patriarchi presenti – la luce della fede non si è spenta, anzi risplende vivace. Ogni cattolico ha perciò un debito di riconoscenza verso le Chiese che vivono in quella regione. Da esse possiamo, fra l’altro, imparare la fatica dell’esercizio quotidiano di spirito ecumenico e dialogo interreligioso».

 «La Siria, l’Iraq, l’Egitto, e altre aree della Terra Santa, - ha proseguito Bergoglio - talora grondano lacrime. Il Vescovo di Roma non si darà pace finché vi saranno uomini e donne, di qualsiasi religione,colpiti nella loro dignità, privati del necessario alla sopravvivenza, derubati del futuro, costretti alla condizione di profughi e rifugiati. Oggi, insieme ai Pastori delle Chiese d’Oriente, facciamo appello a che sia rispettato il diritto di tutti ad una vita dignitosa e a professare liberamente la propria fede. Non ci rassegniamo a pensare il Medio Oriente senza i cristiani, che da duemila anni vi confessano il nome di Gesù, inseriti quali cittadini a pieno titolo nella vita sociale,culturale e religiosa delle nazioni a cui appartengono».(...)

Libia: Secessione Petrolifera? (da Linkiesta)

L’instabilità libica sta avendo forti ripercussioni non solamente sul piano politico e della sicurezza ma anche sul fondamentale settore produttivo del paese, quello dell’energia. Dall’inizio di giugno 2013, l’estrazione di idrocarburi ha cominciato a subire gravi interruzioni. Il controllo delle infrastrutture e dei giacimenti di gas e petrolio è stato coinvolto nella battaglia per il predominio del paese. Si è arrivati a un estremo impensabile: alcune milizie della Cirenaica costituitesi sotto la sigla di “Bureau Politico della Cirenaica” (Pbc) e sotto la leadership dall’ex responsabile  delle guardie petrolifere della regione, il comandante Ibrahim Jathran, avendo il controllo di alcuni tra i più importanti terminal come quelli di Marsa el-Brega e Zuetina, hanno decretato la nascita della “Libyan Oil and Gas Corporation”. Si tratta di un’organizzazione preposta a vendere il petrolio e il gas della Cirenaica, con sede a Tobruk e con a capo Abd Rabbo al Barassi.
Del resto, in tutta la Libia il panorama petrolifero è deficitario, tanto che “mettersi in proprio” non sembrerebbe il peggiore dei mali. Secondo le statistiche del Middle East Economic Survey, nel solo mese di agosto – mese nel quale il crollo della produzione ha registrato livelli molto preoccupanti – sette impianti di estrazione su diciassette hanno fermato la produzione, mentre altri hanno avuto una forte riduzione perché oggetto di scioperi selvaggi da parte dei lavoratori del settore, delle guardie preposte al controllo delle infrastrutture o colpiti dai sabotaggi delle milizie armate. Complessivamente, nel mese di agosto si sono prodotti 980 mila barili al giorno in meno rispetto al volume previsto, mentre a settembre la produzione è crollata a circa 500 mila b/d – circa un terzo del livello di inizio anno, registrando il picco massimo di interruzioni non pianificate dal marzo 2011, quando i pozzi erano fermi a causa della guerra civile.(...)

Iran: Trattativa Continua?

Il testo dell’intesa

Il testo di partenza, secondo fonti di più Paesi coinvolti nella sua redazione, prevede un «accordo in due fasi» con un «quadro interinale» destinato a essere sostituito da una «"intesa generale» entro sei mesi. Gli elementi del «quadro interinale» - Interim Framework Agreement - sono tre. Primo: l’Iran congela la produzione di uranio arricchito al 20 per cento. Secondo: l’Iran non attiva nuove centrifughe per arricchire l’uranio al 3,5 per cento. Terzo: l’Iran accetta un più rigido sistema di ispezioni internazionali nei propri siti nucleari. In cambio l’Iran ottiene una riduzione delle sanzioni su esportazione di greggio e di commercio in petrolchimici, auto, oro e componenti di aerei per un valore stimato di almeno 20 miliardi di dollari.

I nodi da sciogliere

La seduta plenaria a Ginevra fra i rappresentanti dei 5+1 (Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna più Germania) e l’Iran viene aggiornata dopo appena 10 minuti lasciando spazio ai bilaterali per tentare di sciogliere numerosi nodi. Anzitutto il diritto di arricchire uranio che l’Iran rivendica e Washington non vuole riconoscere perché la formula di compromesso proposta da Teheran - «abbiamo il diritto ma gli altri possono non riconoscerlo» - solleva obiezioni. Collegato a tale «diritto» c’è la questione delle centrifughe di ultima generazione IR-2m che Teheran possiede, non ha ancora attivato e non si trova obbligata dalla bozza a consegnare o distruggere. Poiché, secondo il rapporto dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea) del 14 novembre, l’Iran possiede 196 kg di uranio arricchito al 20 per cento - 10 in più di agosto - e per confezionare un’atomica ne servono 220-250 kg il traguardo potrebbe essere superato con poche settimane di attività delle nuove centrifughe.


Leggi anche il dossier dell'ISPI

Parla Carlo Cottarelli

C’è chi dice: in Italia la spesa al netto degli interessi non è molto più alta che altrove. Cosa risponde?
«Se escludiamo gli interessi sul debito - troppi - e le pensioni è vero. Ma con questo debito non possiamo permetterci sprechi. Se possiamo essere più bravi dei tedeschi nel calcio, possiamo farlo anche nella revisione della spesa».


E la Sanità? Il ministro Beatrice Lorenzin sostiene che i risparmi saranno studiati all’interno del suo dicastero e Cottarelli è d’accordo. «Non siamo mica in conflitto. La revisione della spesa la deve fare prima di tutti la pubblica amministrazione», dice il commissario arrivato a Roma, al ministero dell’Economia, dal Fondo monetario internazionale. Le cose da fare, spiega, sono due: capire se si può fare la stessa attività, dare lo stesso servizio, a costi più bassi. E individuare e togliere i servizi non necessari. «Non si tratta di toccare lo stato sociale che è un fondamento dell’economia italiana». Ma, ripete, anche in questo settore occorre eliminare gli sprechi e «i servizi non necessari». 

Ancora più delicato è l’argomento pensioni. L’Italia, riconosce, «ha fatto un’ottima riforma che assicura la riduzione dei flussi di spesa per i prossimi 20 anni. Pochi paesi sono risusciti a farla». Ma per il presente «il paese ha un grosso problema: una spesa in rapporto al Pil che è troppo alta, tra le più alte al mondo». Sarà necessario, aggiunge, «toccare le pensioni d’oro e d’argento. L’approccio della legge di Stabilità è di congelare la perequazione. So che esistono difficoltà a livello costituzionale. Ma c’è una scelta da fare» afferma.


Minicorso di scienza per politici (e non solo) (Anna Meldolesi)

Sarebbe bello se i politici fossero informati e aggiornati su tutte le materie scientifiche che di diritto o di rovescio toccano la sfera pubblica e il loro lavoro di policy-making, ma è impossibile. I cambiamenti climatici, le biotecnologie, la differenza che passa fra le terapie vere e quelle fasulle, la sperimentazione animale e via continuando. Le cose da sapere sono davvero troppe. E poi questo dovrebbe essere il lavoro dei consulenti scientifici, figure affermate nel mondo anglosassone e pressoché inesistenti da noi. Sarebbe utile però che i policy-maker (e non solo loro) capissero qualcosa di come funziona la scienza. In questo modo potrebbero fare le domande giuste agli scienziati e soprattutto potrebbero interpretare bene le loro risposte. Nature prova a contribuire con il numero in uscita oggi, pubblicando “Twenty tips for interpreting scientific claims”, a firma di W. J. Sutgerland, D. Spiegelhalter e M. A. Burgman. Ecco la lista dei concetti chiave per capire i risultati scientifici limitando al massimo i fraintendimenti. Comincio dal mio preferito.
La percezione di un rischio non rispecchia la sua entità. Spesso sovrastimiamo pericoli piccoli e remoti ma sottostimiamo rischi ben più grandi o più concreti. Magari viviamo sulle pendici del Vesuvio ma non ci fidiamo della sicurezza dei vaccini (l’esempio è mio, non di Nature). Le domande da fare sono: quanto è probabile che accada? Stiamo valutando correttamente i possibili danni e i possibili benefici legati alle nostre scelte?
La correlazione non implica causazione. Il fatto che due fenomeni si presentino insieme non significa che uno causi l’altro. Ad esempio se le alghe aumentano e i pesci muoiono, non è detto che siano le prime a uccidere i secondi. Dietro entrambi i fenomeni può esserci un terzo fattore.(...)