domenica 29 settembre 2013

La Conferenza di Monaco, 75 anni fa (ilPost)

(...) Gli incontri cominciarono subito e alle discussioni non partecipò alcuna delegazione cecoslovacca, anche se alcuni membri del governo erano presenti in città. Fu una condizione imposta da Hitler a cui né Chamberlain né Daladier si opposero. Le discussioni andarono avanti tutto il giorno sulla base del cosiddetto “piano italiano”, che in realtà era stato preparato dal ministero degli esteri tedesco.
In sostanza l’unica cosa ad essere discussa fu quanta parte della Cecoslovacchia avrebbe dovuto essere annessa alla Germania nazista. A ora di cena, mentre i delegati italiani e tedeschi partecipavano a una festa voluta da Hitler, Chamberlain e Daladier incontrarono i cecoslovacchi e gli chiesero di accettare l’accordo o sarebbero stati lasciati soli ad opporsi alla Germania.
All’una e trenta di notte del 30 settembre l’accordo di Monaco venne firmato dalle quattro grandi potenze. La Germania otteneva quasi tutti i territori che aveva chiesto, una striscia lungo il confine occidentale del paese. Altri pezzi di Cecoslovacchia sarebbero stati annessi dalla Polonia e dall’Ungheria. Una commissione internazionale si sarebbe occupata di determinare altre eventuali questioni territoriali.(...)

La Guerra e Il Giusto Mezzo (ilSole24Ore)

Un conto, infatti, è ragionare in linea di principio sull'orrore del fungo atomico, com'era d'uso negli anni Sessanta, ai tempi delle grandi marce per la pace. Un altro, invece, schierarsi dinnanzi a un conflitto convenzionale, quale fu la prima guerra del Golfo, in cui Bobbio rifiutò di diventare il «bersaglio comodo di tutti i pacifisti da strapazzo». Il filosofo era, anagraficamente, un figlio dello spirito di Monaco e del cedimento al Führer, e nel Rais di Bagdad pensò di scorgere, a torto o a ragione, l'ombra di un nuovo Hitler. «Possibile – scrisse al suo allievo Enrico Peyretti – che non venga mai in mente al pacifista assoluto che il rifiuto totale della violenza contribuisca a far prosperare la razza dei violenti?» 

Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/u3j9q

Per l'Italia

Sono un "governista" non pentito, anche se fin dai primi giorni del governo Letta ho sentito la mancanza della squadra di Monti
A mio avviso l'errore di fondo era credere che "la politica" potesse riprendere in mano la situazione, e - come ha detto Stefano Menichini oggi a Omnibus - che si potesse "restituire" agli elettori ciò che era stato "tolto" dal governo Monti, mentre il Paese non era e non è ancora pronto a dichiarare superata l'emergenza (consiglio caldamente questo articolo di Cerretelli).

La cosa più importante oggi la dice Saccomanni al Sole24Ore: i conti sono a posto, e i mercati lo sanno. Si tratta di farlo capire al mondo, anche "scenograficamente", facendo rimanere salda la cabina di regia del paese.
La politica deve saper ritrovare - decidano con quali trucchi, se con astensioni programmate o con nuovi gruppi parlamentari, poco importa - lo spazio di manovra che nelle emergenze siamo sempre stati capaci di sfruttare.

Letta dimissionario ad oltranza, Letta bis, Bernabè, Saccomanni stesso: nomi possibili per un eventuale - ma non strettamente necessario - nuovo governo che dia anche la "scusa" ai poco responsabili per fingere un po' di responsabilità. Il tempo di fare almeno una legge elettorale che dia sicurezza per future maggioranze (oppure ci penserà la Corte Costituzionale di Amato e Mattarella, come ipotizzava oggi Bordin a Omnibus, con qualche sentenza "originale"?), magari l'inserimento della "sfiducia costruttiva" per evitare continue fibrillazioni, legge di stabilità. 

Il meglio sarebbe continuare anche nel semestre europeo, ma sarà difficile.
Comunque non è possibile illuderci con parole d'ordine facili come "il ritorno della politica" o simili. 

E in ogni caso: Il governo Letta anche dimissionario è in carica fino a che non ne nasce uno nuovo. I tempi possono essere inaspettatamente lunghi e Napolitano sa quali sono i nostri interessi. 

Buon lavoro, e manteniamo la calma.

FMM

Saccomanni al Sole 24 Ore: «Conti a posto, i mercati lo sanno»

«Grazie ai nostri sforzi i conti pubblici dell'Italia sono a posto - spiega il ministro dell'Economia, a poche ore dall'annuncio delle dimissioni dei ministri del Pdl - Siamo in linea con gli obiettivi e con gli impegni europei. Abbiamo uno 0,1% di Pil da dover correggere, ma nel decreto che abbiamo portato venerdì in Consiglio dei ministri quella correzione già era stata individuata e c'è ancora tutto il tempo per approvarla prima della fine dell'anno». 

Il problema è che dalle prossime ore rischia di non esserci più il governo. E non c'è da fare solo quella correzione. C'è da approvare la legge fondamentale del nostro bilancio, quella legge di stabilità che in base alla nuova governance europea dovrà essere approvata anche a Bruxelles. «La legge di stabilità – sottolinea Saccomani – è un atto obbligatorio. Non ci si può esimere da questo. Un governo la farà. Aspettiamo di vedere l'evolversi del quadro politico, ma non c'è nessuna ragione per cui non la possa fare questo governo, anche – eventualmente – da dimissionario». 

di Fabrizio Forquet con un articolo di Isabella Bufacchi - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/uTcnX

Il Momento Peggiore (F.Forquet, Sole24Ore)

Sono tutti passaggi essenziali per provare ad agganciare i flebili segnali di ripresa internazionale di fine anno. Passaggi ai quali l'Italia rischia ora di arrivare senza un governo. Laddove non solo servirebbe un governo, ma servirebbe anche un governo credibile. Perché è chiaro che a nulla servirà un Esecutivo che dalla prossima settimana dovesse ricominciare a ballare sull'Imu, dopo lo spettacolo indecoroso sull'Iva cui abbiamo assistito fino alla tarda serata di ieri.

di Fabrizio Forquet - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Ro2Wl

Ora basta, pensate al Paese (Mario Calabresi su laStampa.it)


"(...) È quasi inutile mettersi a ricordare la situazione nella quale siamo: la mancanza di lavoro, di speranze, di prospettive; il coraggio che moltissimi devono mettere in campo ogni giorno per andare avanti; la disperazione di chi deve abbassare una saracinesca per sempre o di chi ha ricevuto la lettera di licenziamento. Inutile anche gridarlo di fronte a chi è sordo ai problemi di tutti. 

Nei Paesi normali, quelli noiosi in cui le elezioni si tengono a scadenze fisse, i cambi di governo sono considerati traumatici perché ogni volta bisogna rimettere in moto la macchina con guidatori nuovi. Noi ci permettiamo il lusso - suicida - di farlo per la seconda volta nello stesso anno. Con un disprezzo totale della vita dei cittadini e dei loro problemi. 

In Francia è appena stata varata una commissione che dovrà stilare un rapporto per immaginare come sarà il Paese tra dieci anni, per programmare politiche capaci di interpretare e guidare i cambiamenti. Il nostro orizzonte invece si è ridotto ad una manciata di ore. Non abbiamo nemmeno più la vista breve, sembriamo condannati alla cecità. (...)

Tra quindici giorni andrà presentata la legge di stabilità, il passaggio chiave per chi come noi ha i conti pubblici a rischio; il 15 novembre arriveranno le pagelle europee; il nostro debito è risalito pericolosamente; il Fondo Monetario proprio due giorni fa è tornato a parlare di Italia a rischio: E noi, che avremmo un disperato bisogno di uno scudo di protezione e di credibilità, ci presentiamo al giudizio nudi e disarmati. 
Questa settimana Letta era a parlare a Wall Street, per rassicurare sulla nostra stabilità, pensate allo sconcerto o alle risate (a seconda che ci amino o no) che si stanno facendo in giro per il mondo. 
Avremmo bisogno di alzare la testa, dare spazio all’energia e alla razionalità e provare a immaginare e costruire, partendo dai problemi reali, un’altra Italia. (...)

Gli italiani meritano rispetto. È tempo di chiarezza, di passaggi netti, definitivi. 
Sappiamo con certezza che la maggioranza dei politici del Pdl non approva questa decisione. Sarebbe ora che trovassero la dignità e la forza di non scambiare l’affetto, la fedeltà e la riconoscenza per il Capo con l’adesione a un gesto che fa del male a tutto il Paese. 
E sarebbe il tempo in cui tutti quelli che pensano di appartenere ad una comunità fatta di sessanta milioni di persone e non ad una parte, avessero il coraggio di dire: «Questa volta viene prima l’Italia»"


sabato 28 settembre 2013

Chiarimento Alla Luce Del Sole

Fonti di Palazzo Chigi hanno riferito le prime valutazioni di Letta: «Il chiarimento -avrebbe detto- deve avvenire in Parlamento, alla luce del sole e di fronte ai cittadini». Sempre Letta afferma: «Il tentativo di rovesciare la frittata sulle ragioni dell'aumento dell'Iva è contraddetto dai fatti che sono sotto gli occhi di tutti perché il mancato intervento è frutto delle dimissioni dei parlamentari Pdl e quindi del fatto che non era garantita la conversione del dl in legge». E sempre fonti di Palazzo Chigi riferiscono altre esternazioni attribuire al premier: «La decisione presa ieri in Consiglio dei ministri a proposito del mancato rinvio dell'aumento dell'Iva, si apprende da fonti di palazzo Chigi, è stata assunta concordemente anche dai ministri Pdl».

Così la Farnesina riorganizza i consolati sulle rotte energetiche (da ilFoglio.it)

Una volta era la via della seta. Oggi è la strada dell’energia e degli affari. Così, spinto anche da esigenze dettate dalla continua stretta sui conti pubblici, il ministro degli Esteri Emma Bonino ha cominciato a ridisegnare la mappa dei consolati italiani all’estero con un obiettivo: puntare sui paesi emergenti che non conoscono crisi economica e sono forti nel campo energetico e industriale. Per questo, a breve, nasceranno tre nuovi consolati: ad Ashgabat, capitale del Turkmenistan, a Chongqing in Cina e a Ho Chi Minh in Vietnam dove ormai ci sono più aziende che risaie. A presentare il piano alle commissioni Affari esteri di Camera e Senato è stata Marta Dassù, viceministro che sta seguendo il dossier in modo scrupoloso.
“Il nostro paese vive sull’estero, esiste un’Italia fuori dall’Italia, perché il nostro paese dipende fortemente dall’import di energie e materie prime e possiamo rilanciarci solo guardando ai nuovi mercati”, ha detto il numero due della Farnesina. Insomma basta alla vecchia logica dei consolati per vecchi emigrati, che oramai sono più che integrati con i paesi dove vivono, e più presenza verso quei paesi che crescono a velocità doppia o più che doppia rispetto al nostro. Così, visto che il capitolo a favore dell’emigrazione dopo i tagli della spending review avviata dal governo Monti l’anno scorso è ridotto a un miliardo e trecento milioni di euro, per far nascere le nuove strutture bisogna chiudere 14 sedi. E bisogna farlo a tappe spedite. Una prima tranche prevede la soppressione entro il prossimo 30 novembre di otto consolati. Cancellato quello di Tolosa in Francia, quello di Mons in Belgio, via quello di Spalato in Croazia e Scutari in Albania, così come quello ad Alessandria d’Egitto, di Sion, Neuchâtel e Wettingen in Svizzera. Su queste chiusure, tranne qualche voce sparuta, ad esempio su Spalato e Scutari, in teoria strategici in quanto i Balcani fanno parte delle politiche di sviluppo di molte aziende italiane, non si sono levate mozioni d’ordine.(...)

mercoledì 25 settembre 2013

Chi E' Carlo Cottarelli?

Oggi a Otto e Mezzo il ministro Saccomanni ha di fatto confermato che sarebbe sua intenzione nominare un commissario straordinario per la spending review. Pur non dando una risposta totalmente esplicita alla domanda di Gruber, ha dato la sensazione che il nome indicato dalla giornalista sia la scelta più probabile. Si parla quindi di Carlo Cottarelli, attualmente direttore del dipartimento per gli affari fiscali e di bilancio del Fondo Monetario internazionale. Di seguito qualche link per conoscerlo meglio.

FMM

Da ormai due mesi per esempio Saccomanni annuncia l' intenzione di nominare «in tempi brevi» un commissario straordinario per la spending review. Secondo varie fonti con conoscenza diretta del dossier, Saccomanni ha anche in mente da tempo una persona adatta per quell' incarico: Carlo Cottarelli, un passato in Banca d' Italia, oggi direttore del dipartimento per gli affari fiscali e di bilancio del Fondo monetario internazionale. Il solo fatto di pensare a un profilo del genere indica che Saccomanni non intende mettere mano alla spesa pubblica con il cacciavite o le forbicine da unghie. Vuole farlo con una robusta arma da taglio. Sarebbe difficile attrarre Cottarelli da Washington, dov' è all' apice della carriera, senza fornirgli garanzie sull' efficacia del suo mandato. Del resto è lo stesso Fmi che da anni suggerisce all' Italia di tagliare la spesa con decisione per poi poter ridurre il carico fiscale sul lavoro e sulle imprese di altrettanto. Il ministro ha ripetuto l' impegno a creare il commissario straordinario alla spending review, «permanente» e dotato di staff, 


Per la spending review, infine, circola l’ipotesi che possa diventare commissario straordinario Carlo Cottarelli, direttore del dipartimento per gli affari fiscali e di bilancio del Fondo Monetario Internazionale. Ma in questo clima di instabilità anche questa nomina sembra essere più difficile. 



Carlo Cottarelli, a citizen of Italy, has been Director of the Fiscal Affairs Department since November 2008.
After receiving degrees in economics from the University of Siena and the London School of Economics, he joined the Research Department of the Bank of Italy where he worked from 1981 to 1987 in the Monetary and Financial Sector Division. After working for about one year as head of the Economic Research Department of ENI (the main Italian energy company), Mr. Cottarelli joined the IMF in 1988, working for the European Department, the Monetary and Capital Markets Department, the Policy Development and Review Department, and the Fiscal Affairs Department. He was Deputy Director both in the European Department and the Strategy, Policy and Review Department.(...)
Per capire quali sono le principali sfide e cosa aspettarsi dai prossimi anni Euronews ha parlato con Carlo Cottarelli, Direttore del Dipartimento Affari Fiscali dell’Fmi.
Aleksandra Vakulina, Euronews: “Pochi Paesi europei possono dirsi contenti dello stato del proprio deficit. L’obiettivo del 3% sul Pil per molti pare irraggiungibile nel breve periodo. Tagliare il debito significa ridurre anche la crescita. Come può un governo superare tale contraddizione?”
Carlo Cottarelli: “E’ un problema complicato. L’austerità è un po’ come una medicina: la devi prendere, ma se ne prendi troppa non va bene. Quindi bisogna dosarla bene. Questa è un po’ la sfida che affronta l’Europa: prendere la medicina dell’austerità nelle giuste dosi. Da quello che possiamo osservare, in generale, il ritmo dell’aggiustamento è quello giusto. Ma l’Europa deve prendere un po’ le distanze dallo sforzo verso specifici target nominali. L’obiettivo del 3% deve essere raggiunto, ma non deve essere raggiunto in un anno specifico. Su questo, però, devo dire che trovo incoraggiante che l’Unione Europea abbia mostrato un certo grado di flessibilità nell’affrontare casi specifici, permettendo ai Paesi di rallentare nel ritmo dell’aggiustamento quando necessario.” (...)
“L’Italia ha già completato il grosso dell’aggiustamento fiscale, insieme alla Germania”, ha detto Cottarelli. A differenza di Italia e Germania “ci sono altri Paesi come la Francia che hanno strada da fare“, ha aggiunto, spiegando che, in linea generale, “la restrizione fiscale continuerà ancora”. “La cosa importante – ha precisato – è che avvenga ad una velocità adeguata. Non bisogna esagerare altrimenti si uccide l’economia”. Secondo Cottarelli infatti “è necessario un aggiustamento fiscale ma ad un passo ragionevole. Le decisioni che guardano ad una maggiore flessibilità da parte delle istituzioni europee sono da giudicare positivamente. E ci si sta spostando da un focus orientato solo sui target nominali ad uno che consideri anche gli aggiustamenti ciclici”.

sabato 21 settembre 2013

AntiModernità di Francesco?

Papa Francesco mischia sapientemente i toni delle sue uscite. L'intervista a Civiltà cattolica è molto interessante, anche per alcune cose che non sono state pubblicizzate (qui l'integrale, attenzione: si scarica direttamente il file) e soprattutto per i toni, più che per l'impostazione dottrinale, in realtà non originale. 

Papa Francesco è un rivoluzionario, al tempo stesso "antimoderno"? Mi pongo questa domanda nel sentire riproporre l'immagine del denaro come "sterco del diavolo". Provo a dirla in modo molto banale: "demonizzare" - in senso letterale - così potentemente il denaro non sembra rappresentare una posizione "serena"; sarebbe troppo facile far notare che per secoli molti nella Chiesa hanno utilizzato questo "sterco" in modo non trasparente, mentre magari lo maledicevano a parole. E in realtà questo fenomeno è parte della denuncia di papa Francesco. Epperò c'è qualcosa di più. 

Qualcosa che è il motivo per cui ci commuoviamo nel leggere papa Francesco, ma credo che molti di noi non sarebbero capaci di dare tutto quello che hanno ai poveri; qualcosa che è il motivo per cui leggiamo il Vangelo, ma non riusciamo a metterlo in pratica. E silenziosamente ce ne distacchiamo.

Un'impossibilità di seguire questa traccia, che da una parte è il segno del peccato originale, e quindi non deve sorprendere, dall'altra ci chiede di trovare vie altre per dare compimento a quel regno di felicità che cerchiamo nei nostri cuori.

La modernità è anche (non solo) il tentativo più esplicito di cercare risposte e vie al di fuori dei sentieri segnati da quelli che ci dicono cosa è del diavolo e cosa no. E - utilizzando lo sterco del diavolo - accontentarci di una felicità - di una parte della felicità - più raggiungibile, meno celeste. Ma non per questo disprezzabile. Né per questo idolatria.

Può darsi che mi sbagli (è molto probabile), ma indulgere in questo approccio è comunque segno della sconfitta della Chiesa (forse è scritto che la Chiesa debba essere perdente...), al di la di tutti i successi "mediatici" che un papa "simpatico" può conseguire.

Francesco Maria Mariotti

Intervento del Presidente Napolitano all'incontro di studio in ricordo di Loris D'Ambrosio

Parto naturalmente dal titolo e dalla funzione di magistrato di cui Loris D'Ambrosio era orgogliosamente portatore. Il titolo di "impiegati pubblici", riferibile in Costituzione anche ai magistrati, non dovrebbe mai essere usato in senso spregiativo ma non può peraltro oscurare - da nessun punto di vista - la peculiarità e singolare complessità delle funzioni giudiziarie. Non c'è nulla di più impegnativo e delicato che amministrare giustizia, garantire quella rigorosa osservanza delle leggi, quel severo controllo di legalità, che rappresentano - come ho avuto più volte occasione di ribadire - "un imperativo assoluto per la salute della Repubblica". Anche la considerazione della peculiarità di questa funzione, e l'inequivoco rispetto per la magistratura che ne è investita, sono invece stati e sono spesso travolti nella spirale di contrapposizioni tra politica e giustizia che da troppi anni imperversa nel nostro paese.

Il superamento di tale fuorviante conflitto, gravido di conseguenze pesanti per la vita democratica in Italia, ha rappresentato l'obbiettivo costante del mio impegno fin dall'inizio del mandato di Presidente, e nessuno più di Loris D'Ambrosio mi ha aiutato a definirne i termini e le condizioni. E nulla è stato più paradossale e iniquo che vedere anche Loris divenire vittima di quello che il professor Fiandaca ha chiamato "un perverso giuoco politico-giudiziario e mediatico". La cui impronta mistificatoria si è fatta risentire proprio oggi forse in non casuale coincidenza con questo incontro.

Operazioni militari e farina di Putin. E’ il piatto del Cairo (da ilFoglio)

La giunta militare in Egitto è impegnata a fondo su due priorità: la guerra aperta all’opposizione musulmana e le importazioni vitali di farina. Ieri mattina le forze di sicurezza sono entrate a Kerdasah, area periferica del Cairo, per un’operazione contro gli islamisti. Nella topografia sterminata della capitale Kerdasah è insignificante, è soltanto un angolo povero della zona di Giza, ma nella lotta tra il nuovo governo militare retto dal generale Abdel Fattah al Sisi e i rivoltosi decisi a vendicare la soppressione – politica e fisica – dei Fratelli musulmani ha un significato speciale. Il 14 agosto, mentre al Cairo le forze di sicurezza irrompevano nei sit-in dei sostenitori dell’ex presidente nominato dalla Fratellanza, Mohammed Morsi, facendo centinaia di morti, un gruppo numeroso di abitanti di Kerdasah attaccò per rappresaglia la stazione di polizia locale. Gli islamisti avevano mitragliatrici e lanciarazzi e in poche ore costrinsero i poliziotti a uscire dall’edificio in fiamme e li trucidarono, spogliandone alcuni, trascinando altri sull’asfalto legati con corde alle macchine (di quel giorno restano immagini girate con i telefonini in mezzo alla folla di aggressori). Dopo Delga, la piccola città a sud della capitale che già da luglio era fuori dal controllo della polizia ed è stata occupata la settimana scorsa, Kerdasah era il secondo obiettivo naturale della campagna delle forze di sicurezza per sfidare gli islamisti egiziani dove sono più forti.(...)


Ci sono molti elementi che fanno credere che questa rivolta sarà peggio di quella degli anni Novanta, quando militari e islamisti si combattevano a colpi di attentati e ondate di repressione; per esempio la vicinanza con la Libia diventata dopo Gheddafi un grande mercato clandestino di armi. 
Secondo il Wall Street Journal, il governo dei militari da quando si è insediato a luglio è concentrato sul problema delle importazioni di farina. L’Egitto è il primo importatore di farina al mondo, e su questo dato precario si regge una popolazione di 80 milioni di persone che alla politica chiede soltanto e a stragrande maggioranza – scrive ancora Reem Abdellatif per il Wsj – “pane a un prezzo minore”. (...)
 

venerdì 20 settembre 2013

Costituzione: Maneggiare Con Cautela E Senza Fretta, Seguendo Le Regole

Indipendentemente dalle convinzioni politiche di ognuno (sono lontanissimo - ma proprio molto lontano - da taluni movimenti politici presenti oggi in Parlamento, ma questo non è importante) penso che la Costituzione andrebbe cambiata solo con l'applicazione integrale dell'articolo 138. 

Mi lascia molto perplesso la soluzione attualmente scelta. 
Anche perché le riforme costituzionali a mio avviso non sono una priorità.

(sul perché non lo siano ragionavo un po' di tempo fa su FB, parlando però più nel dettaglio di presidenzialismo. Riporto comunque la nota di seguito)

FMM

Presidenzialismo: Maschera Forte Senza Vera Sostanza?

3 maggio 2013 alle ore 0.42

C'è aria di presidenzialismo in Italia; voglia - corretta, da un certo punto di vista - di semplificare, razionalizzare, rafforzare il sistema di governo italiano. E desiderio di riconnettere le istituzioni ai cittadini.  Ma l'idea di un presidenzialismo alla francese continua personalmente a non convincermi.

Provo ad argomentare meglio, anche se sinteticamente, perché l'operazione complessiva che si sta impostando intorno a una riforma presidenziale non mi convince.

1. Abbiamo ancora bisogno di una figura di garanzia: è diverso se un Presidente - anche se nasce votato da un maggioranza - è chiamato a diventare Presidente di tutti (come è stato con Napolitano), oppure se un Presidente "nasce" in una competizione elettorale, di fatto legittimato quindi ad essere "pienamente di parte", per così dire. E in un sistema ad alto tasso di tensione politica, rischiamo di perdere un punto importante di mediazione e coesione nazionale.
(Per motivi simili ho forti perplessità anche in relazione all'idea di eleggere direttamente un Presidente della Unione Europea).

2. Un presidente "forte" di per sé non è sinonimo di governabilità e capacità di decisione; se non si calibra con attenzione tutta la architettura costituzionale "sottostante" il Presidente eletto, si rischia di costruire un gigante con i piedi d'argilla; questo può avvenire - per esempio - sia perché si fa una legge elettorale non risolutiva (e dunque il Parlamento rimane debole e questo minerebbe la solidità complessiva del sistema), sia perché (e forse soprattutto se) non si studiano tutti i dettagli degli "interna corporis", non dando al Presidente tutti i giusti poteri esecutivi. Già questo in un certo senso accade oggi alla figura del Presidente del Consiglio, che andrebbe - questa sì -rafforzata anche in relazione ad alcuni meccanismi di coordinamento e  di guida del Cosiglio dei ministri (si legga per esempio un interessante articolo di AffarInternazionali, che lega alcune problematiche del "caso Marò" con difficoltà di gestione unitaria da parte del Premier: "La cosa sembra assurda, e certamente è un danno grave per la credibilità del Paese, ma è resa possibile dalla natura scoordinata e pressoché anarchica del sistema italiano di governo. Benché il Presidente del Consiglio abbia la responsabilità di assicurare la linea politica del Governo, egli non è un Primo Ministro come in Gran Bretagna né ha i poteri del Cancelliere in Germania." Stefano Silvestri, Caso marò, chi non comanda in Italia, AffarInternazionali, 24 marzo 2013). Per dirla in un altro modo, se non si analizzano e si riequilibrano tutti i nodi del sistema il rischio è di creare una Maschera Forte, ma Imbelle. Per fare un esempio analogo, per certi aspetti: anche i mutamenti di legge elettorale che abbiamo fatto negli scorsi anni non hanno creato tutte le ricadute positive previste per lo stesso ordine di motivi; per esempio, perché si sono lasciate immutate  per molto tempo - se non vado errato - alcune norme interne delle Camere, così che non si è riusciti a evitare la frammentazione post-elettorale delle maggioranze anche vincenti e teoricamente "forti".

3. Guardiamo all'estero: quale nazione sta guidando l'Europa? la Germania. Berlino ha un sistema presidenziale? nient'affatto, ma ciò nonostante - secondo molti grazie all'Agenda 2010 di Schroeder - la Germania ha vinto le sue debolezze ed è ora la "locomotiva" del nostro continente. Senza entrare nel merito di quel complesso piano di riforme, va detto che comunque fu effettivamente radicale e fu impostato senza bisogno di un Presidente Forte, o simili "fantasie istituzionali". Al contrario, mi pare, della Francia. Che continua a "coprire" con un'ottima amministrazione e con un Presidenzialismo gaullista (ma che senza un De Gaulle non è egualmente efficace) la sua sempre più evidente incapacità di affrontare alcuni problemi. Per dirla in breve: non c'è sistema o riforma istituzionale che tenga, se manca la chiarezza di idee e la capacità di un sistema politico nel suo complesso di affrontare alcune sfide.

Questi, in breve, i motivi del no a un presidenzialismo che rischia di essere un'illusione. Possiamo fare - e dobbiamo fare - alcune vere riforme di sostanza, per esempio nel rendere più forte la figura del Premier, senza la necessità di rinunciare ad alcuni importanti simboli - e poteri - di garanzia.
E soprattutto, forse è necessario rinunciare all'illusione che la riforma delle regole sostituisca la capacità di trovare soluzioni ai problemi del Paese.

Francesco Maria Mariotti

La "Chiave Importante" di papa Francesco

Questa "chiave importante" sia tenuta a mente, oggi, da tutti; da quelli che tifano Francesco, da quelli che tifavano Benedetto, o Giovanni Paolo. Insomma, occhio a "tifare" e "parteggiare". 

"Lasciare spazio al Signore". 

Questo, forse, dovrebbe essere l'essenziale. 
Che lo dica il Papa, o che non lo dica.

FMM

«Se una persona dice che ha incontrato Dio con certezza totale e non è sfiorata da un margine di incertezza, allora non va bene. Per me questa è una chiave importante. Se uno ha le risposte a tutte le domande, ecco che questa è la prova che Dio non è con lui. Vuol dire che è un falso profeta, che usa la religione per se stesso. Le grandi guide del popolo di Dio, come Mosè, hanno sempre lasciato spazio al dubbio. Si deve lasciare spazio al Signore, non alle nostre certezze; bisogna essere umili. L’incertezza si ha in ogni vero discernimento che è aperto alla conferma della consolazione spirituale». 

martedì 17 settembre 2013

Janet E Gli Altri

Nonostante la rinuncia di Larry Summers alla guida della Federal Reserve, la Banca centrale americana, non è scontata la nomina di Janet Yellen, a cui ci si riferisce con l'aggettivo dovish, da dove, colomba, persona che cerca di conciliare posizioni diverse. Yellen, 66 anni, attuale vicepresidente del board della Fed, potrebbe risultare un vaso di coccio, nonstante gli investitori confidino nella sua nomina scrive oggi il Financial Times: ai repubblicani non piace la sua reputazione da moderata, Barack Obama ha fatto capire che non è la sua candidata ideale. Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/NewZb

Dagli studi in California alla carica economica più importante del mondo. Dopo l'uscita di Lawrence Summers dalla corsa per la presidenza della Federal Reserve, Janet Yellen, 67 anni, è sempre più vicina al vertice della banca centrale statunitense della quale è attualmente vicepresidente. Una carriera, la sua, all'insegna del rigore e dell'understatement con una solida reputazione che l'ha aiutata a farsi strada nel mondo tradizionalmente maschilista dell'alta finanza. 

venerdì 13 settembre 2013

In Valsusa Prove Di Terrorismo (da laStampa)

Si può essere No-Tav o Sì-Tav, si può anche coltivare una rispettabile e pragmatica equidistanza, ma c’è una cosa che bisogna sapere: in Valsusa il terrorismo c’è già. In una forma inedita, tra l’intimidazione ambientale di stampo mafioso e il cecchinaggio individuale di marca pre-brigatista, tra la opprimente Corleone di Riina e i caldissimi picchetti delle fabbriche nei primi Anni Settanta. Nei confronti delle cose (cantieri, macchine e macchinari, forze di polizia) si esercita con azioni militari. Nei confronti delle persone (che lavorano nel o intorno al cantiere) con minacce continue e ossessive.  

L’ultima storia è di ieri. Tre - noti - militanti No-Tav arrestati per minacce a una cronista, circondata, minacciata, costretta a consegnare documenti e cellulare.  

I tre, che erano spalleggiati da una ventina di compagni, l’hanno accompagnata all’auto, di cui avevano fotografato la targa, e costretta ad andarsene. I tre sono agli arresti domiciliari, grazie al decreto svuota-carceri che risparmia a Gianni Vattimo un nuovo pellegrinaggio di solidarietà alle Vallette. Ma, come si dice, la vicenda segna un altro salto di qualità. Non che sia più grave minacciare un giornalista di un operaio del cantiere. Ma è diverso e incide su un’altra libertà civile: quella dell’informazione. 

Il vero salto di qualità militare c’è stato invece nella notte di domenica: quattro betoniere, due camion, un’autogru incendiate, con le fiamme che lambiscono il deposito di gasolio e fanno evocare una possibile ecatombe. Poco meno di un milione di danni, con un effetto intimidatorio sui lavoratori incalcolabile. Il dodicesimo attentato - il più grave - da luglio. 

E tutto questo dentro quel clima di intimidazione diffuso che colpisce tutti quelli che hanno a che vedere con il cantiere, da chi ci lavora, agli albergatori che ospitano i poliziotti, ai camionisti che transitano per la valle e che magari non hanno nulla a che vedere con il/la Tav. Capita che vengano fermati e che i documenti loro e di viaggio vengano controllati. C’è insomma un antistato che esercita forme di controllo del territorio e si propone di cambiare il corso delle cose con un insieme di azioni che sono oggettivamente eversive. (...)

mercoledì 11 settembre 2013

11 settembre (1973, 2001, 2012)


11 settembre 1973: golpe in Cile

Alle sette del mattino dell’11 settembre alcune navi della Marina militare cilena occuparono il porto di Valparaíso, sull’Oceano Pacifico. L’ammiraglio Raúl Montero Cornejo, comandante della Marina e fedele al presidente Allende, venne imprigionato e sostituito da José Toribio Merino Castro, uno degli ideatori del colpo di stato. Il Prefetto della Provincia di Valparaíso informò subito delle manovre della Marina il presidente Allende, che diede ordine alla scorta, il Gap (Gruppo di Amici Personali), di lasciare la sua residenza di calle Tomás Moro per raggiungere il palazzo presidenziale, La Moneda, nella capitale Santiago. Erano circa le otto e a Santiago le forze aeree e i carri armati dell’esercito avevano già condotto la cosiddetta “Operazione silenzio”: chiudere e bombardare le sedi e le antenne di tutte le stazioni radio e tv. L’unica che quel giorno riuscì a non interrompere le trasmissioni (nonostante il bombardamento) fu la radio Magallanes del Partito comunista cileno da cui, poco dopo, Allende avrebbe parlato alla nazione per l’ultima volta.


11 settembre 2001: Attacco alle Torri gemelle e al Pentagono

L'attacco al Pentagono è uno degli aspetti dell'11/9 che maggiormente ha stimolato la fantasia dei complottisti. Dapprima hanno sostenuto che l'edificio fosse stato colpito da un missile o da un caccia;  negli ultimi anni alcuni hanno cambiato parere e ora sostengono che un aereo di linea abbia effettivamente colpito il Pentagono ma percorrendo una rotta diversa rispetto a quella comunemente accettata. Tralasciando la disinvoltura con cui i complottisti cambiano parere, allo scopo di confermare nuovamente che le versioni complottiste sono solo frutto di menti troppi fervide Undicisettembre ha raccolto la testimonianza diretta di Steven Mondul, che al tempo degli attacchi ricopriva il ruolo di State Emergency Manager (responsabile statale per le emergenze) per il Virginia Department of Transportation (Dipartimento dei Trasporti della Virginia) e che ci ha fornito una nuova smentita di queste assurde teorie.

Ringraziamo Steven Mondul (citato con il suo permesso) per la sua cortesia e disponibilità.


11 settembre 2012: Chris Stevens muore in un attentato a Bengasi

Era il Primo maggio. E quello è stato il giorno in cui ho visto per l'ultima volta Chris Stevens, un diplomatico esperto e un amico. Abbiamo parlato a lungo della sua nomina ad ambasciatore in Libia, Paese che conosceva e amava. E con il suo stile per nulla formale, da californiano vero, aveva toccato un tema rimasto un po' sotto traccia ma sentito. Quello dell'infiltrazione dei militanti islamisti. «Dicono che arrivino anche dall'estero», aveva affermato. Non era la violazione di un segreto bensì la conferma di notizie pubbliche che rimbalzavano dal Nord Africa. Ma Chris Stevens, pur consapevole dei rischi, non sembrava preoccupato più di tanto. Era abituato ai posti difficili, sapeva cosa fosse il Medio Oriente, conosceva la terribile favola della rana e dello scorpione. Quella dove quest'ultimo uccide la prima dopo che lo ha aiutato ad attraversare il fiume.(...)




lunedì 9 settembre 2013

Il Cannone Santo e La Nascita Di Israele (Claudio Magris sul Corriere della Sera)

(...) Ricordiamo dunque, a chi prende sottogamba la legge e deride chi esige il suo rispetto, una storia che segna, anche simbolicamente, la nascita dello Stato di Israele. Nel giugno del 1948 una nave, l’Altalena, parte da Port de Bouc con 900 volontari e molte armi e munizioni destinate a Israele! divenuta Stato poche settimane prima. E un momento drammatico per Israele, che è in guerra e ha molto bisogno di uomini e di armi, perché è in gioco la sua sopravvivenza. Arrivato alla meta, il capitano della nave esige che un’ingente quantità di armi e munizioni sia consegnata ai reparti dell’Irgun — l’organizzazione militare estremista ebraica, cui apparteneva con funzioni eminenti Begin — anche se formalmente sciolti e incorporati nello Tzahal, le nuove Forze armate di difesa di Israele. Ben Gurion, a capo del governo, non prende nemmeno in considerazione la pretesa, perché, replica, è il governo a decidere l’uso delle armi e ordina alla nave di consegnarle. Al rifiuto del capitano ovvero all’illegalità e alla ribellione che vogliono essere riconosciute come interlocutori — come ad esempio tanti anni dopo le Brigate rosse o, in forme non eclàtanti, bensì subacquee, talora la mafia — il governo israeliano, dopo inutili avvertimenti, risponde bombardando la nave carica di armi di cui esso ha tanto bisogno e mitragliando l’equipaggio, i marinai venuti a combattere per Israele contro gli arabi. Ben Gurion, alla Knesset — il Parlamento israeliano — parla del «cannone santo» che ha stroncato la rivolta, impedendo così che il nuovo Stato nasca bacato dal compromesso col marciume dell’illegalità. Come scrive lo storico israeliano Eli Barnavi, «Altalena in qualche modo è per Israele il biglietto d’ingresso fra gli Stati». (...)
 

Grazie Ai "Senza Volto"

Una bellissima notizia: Domenico Quirico libero; oggi i pensieri vanno anche a padre dall'Oglio, nella speranza di rivederlo vivo, sano e libero. 

Intanto, un grazie a tutti i "senza volto", donne e uomini che probabilmente non conosceremo mai e che hanno lavorato perché potessimo godere di questa liberazione. 

Ai tempi della liberazione di Rossella Urru, ho scritto un racconto che linko qui sotto, in modo che possiate rileggerlo. In onore di questi "senza volto" a cui oggi dobbiamo un grande grazie.


domenica 8 settembre 2013

Siria: Una Guerra Del Secolo Scorso?

I dubbi sull'eventuale intervento degli Stati Uniti in Siria aumentano di giorno in giorno, anche se non riguardano l'eventuale commercio di armi (che è da sempre un fenomeno parallelo alle guerre e non può essere di per sé motivo di un sì o un no); al tempo stesso cominciano a esserci ricostruzioni più o meno puntuali sul "piano di azione" di Obama. 

Una via - molto stretta e impervia - che sarebbe contrassegnata da due fattori: bombardamento mirato e appoggio alle fazioni "laiche" antiAssad. Il tempo che il Congresso ha dato a Obama - tre mesi - non può bastare sicuramente a "completare l'opera" (se c'è in mente un'opera qualsiasi); forse si deciderà di proseguire "sottotraccia", dopo la fase dei bombardamenti.  

Una scommessa del genere è veramente rischiosa, a partire dal fatto che la distinzione fra guerriglieri "laici" e "integralisti" può essere molto difficile a farsi nel concreto dello scenario siriano (si legga l'articolo de ilPost sotto riportato)

Ulteriore passaggio della stessa idea è che dopo il bombardamento - sempre più annunciato, sempre meno rinviabile - si riesca a costringere le parti a una trattativa; questo però io credo voglia dire qualcosa che non viene esplicitato, mi pare: 1. non indebolire troppo Assad, in modo da non rischiare la frana di tutto; e soprattutto 2. minacciare - se non addirittura colpire - anche parte degli insorti. 

Ovvero tradurre in termini militari l'ondivago - ma non irrazionale - atteggiamento che secondo alcuni analisti - Daniel Pipes, per esempio - dovrebbe contrassegnare - e forse ha contrassegnato - l'azione dei servizi statunitensi (e non solo) in Siria. Ovvero: non far prevalere nessuno dei contendenti. 

Cinico, ma potenzialmente efficace. Ma anche questo tentativo di "portare tutti al tavolo delle trattative" probabilmente è molto difficile da concretizzare. E in ogni caso, basta un niente perché il cerino dia il via ad un fuoco troppo grande , e quasi ingestibile.

Come fa rilevare Guido Olimpio sul Corriere della Sera sono gli stessi generali statunitensi a porre dubbi, a non vedere una concreta linea politica, precondizione necessaria perché la guerra, o comunque un intervento militare seppur limitato, funzioni.

Al di là di questo mio tentativo - probabilmente poco riuscito - di improvvisarmi stratega per capire come andrà a finire, mi sembra molto interessante il finale dell'articolo che Maurizio Molinari ha scritto nei giorni scorsi, segnalando l'ambiguo atteggiamento della Cina. Quasi - dice - a voler significare che il caso Siria appartiene al secolo scorso, non è rilevante per il mondo che si sta costruendo nel XXI secolo.

Già il fenomeno del terrorismo internazionale - volendo, ma è un ragionamento mio - può essere letto come il tentativo estremo di una parte del mondo di rimanere "protagonista" mentre arrivavano segnali evidenti che - per dirla con toni pseudoromantici (e insopportabili) - "la Storia si spostava ad Oriente". Una violenza che nasceva nelle terre protagoniste di una fetta importante della nostra storia energetica, per esempio; storia che andava e va molto rimodulandosi, a partire dalla ricerca di nuove fonti (di cui si è già detto).

Forse la Siria sarà una nuova conferma di questa tendenza, che comprende anche un maggiore "distacco" degli Usa dal ruolo di gendarme del mondo? O la guerra riuscirà a trattenere ancora il mondo nel "secolo breve", mettendo quindi in dicussione gli assetti che vanno a disegnarsi?

Ancora non possiamo dirlo, ma certo l'esito di questo passaggio storico non sarà irrilevente neanche per noi. Non possiamo tifare per la guerra, ma se sarà - e se sarà più lunga del previsto - potrebbero aprirsi spazi impensati di protagonismo per le società occidentali, e per l'Europa in particolare. Sarebbe il caso di prepararsi all'appuntamento, se verrà.

Francesco Maria Mariotti

Il capo di Stato maggiore Martin Dempsey, parlando nell’aprile di quest’anno davanti alla Commissione difesa del Senato, non potrebbe essere più chiaro: "Prima di agire dobbiamo prepararci a quello che viene dopo". I pianificatori temono un vuoto di potere in Siria o una vittoria di forze radicali. A metà maggio, mentre aumentano le segnalazioni sull’uso dei gas, Obama presiede una riunione. Dempsey parte all’offensiva contro Kerry chiedendogli se è consapevole dei rischi che si corrono in caso di un’iniziativa militare. Per i testimoni non se le mandano a dire. Dal Pentagono aggiungono: quelli del Dipartimento di stato hanno una "visione romantica" della ribellione mentre in Siria è in corso una guerra settaria. Riemerge il dilemma di sempre legato ad un eventuale post-Assad. Un’operazione massiccia può aprire le porte ad una vittoria qaedista, ma restare a guardare rischia ugualmente di favorire i "radicali". Rimbomba la domanda dei giorni della campagna in Libia: "Chi sono i ribelli?". Quesito che ha solo risposte incerte.

Guido Olimpio, Corriere della Sera, 8 settembre 2013

Il tassello più importante dello scenario americano sono i ribelli perché Washington ritiene che «dopo i duri colpi inferti al regime» saranno le loro unità a prendere l’iniziativa, esercitando una massiccia pressione contro un regime in affanno. Stiamo parlando delle unità dei ribelli non-jihadiste, addestrate in Turchia e Giordania da istruttori americani, francesi e britannici grazie ad armi fornite da Paesi del Golfo ed ora in arrivo dagli Usa. Alcune di queste unità potrebbero assumere il controllo di singole aree, ai confini con Giordania e Turchia, e le forze jihadiste di Jubat al-Nusra vengono considerate «non così efficienti come alcuni reputano». A dimostrarlo sarebbe il fatto che «ogni volta che si sono trovate davanti i pashmerga curdi hanno battuto in ritirata».(...)
È in una Siria con Assad indebolito e i ribelli rafforzati, che l’amministrazione si propone, a intervento finito, di rilanciare i colloqui per la «transizione», contando sul fatto che il regime non avrà più la forza per opporsi.
Ecco i piani anti-Assad del Pentagono, la Stampa 6 settembre



Prevedere l’inutilità sostanziale dei raid progettati da Obama non comporta affatto negare la necessità di un intervento militare contro la Siria, ma rafforza la constatazione dell’assoluta mancanza da parte dell’attuale Amministrazione americana di una visione concreta degli attori della crisi siriana, peggiorata da una dottrina errata sulle dinamiche del medio oriente. Questo preclude la strada all’unico intervento militare utile e decisivo. Per punire Assad per l’uso di armi chimiche basterebbe fornire armamenti ai ribelli laici (autoblindo e armamento medio e leggero), senza alcun impiego di Forze armate occidentali. Lo scenario siriano presenta una caratteristica politico-militare unica, che non c’era in Libia, in Iraq e in Afghanistan: l’impegno a fianco dei ribelli laici di più di diecimila disertori dell’esercito di Damasco, inclusi gli ufficiali, con eccellente professionalità, ma con armamenti quasi nulli. La principale remora a questa opzione, che avrebbe potuto e dovuto essere dispiegata sin dal 2012, è nota: la presenza in Siria di consistenti nuclei di terroristi islamici. La giusta preoccupazione di non fornire armi ai qaidisti era ed è però facilmente risolvibile. Come ha dimostrato il reportage di Elizabeth O’Bagy pubblicato dal Wall Street Journal e tradotto dal Foglio il 3 settembre, sul terreno le forze dei disertori e dei ribelli nazionalisti sono ben distinte da quelle dei qaidisti, con relativi checkpoint nelle zone liberate. Ma soprattutto è diversificato il retroterra logistico degli uni e degli altri. Turchia, Giordania e Kurdistan iracheno ospitano le retrovie dei disertori e dei nazionalisti e controllano che non vi siano infiltrazioni qaidiste. Il nord del Libano, invece, dove sono impiantate consistenti forze sunnite e islamiste, sostenute da Arabia Saudita e Qatar, è il “santuario” dei qaidisti. Se Barack Obama lavorasse a una coalizione con il fidato re Abdullah II di Giordania (avversario storico degli islamisti, come dei Fratelli musulmani), con il premier turco Recep Tayipp Erdogan (meno fidato, ma pur sempre un democratico e un membro della Nato) e con Massoud Barzani, presidente del Kurdistan iracheno, unica regione democratica del mondo arabo, che sostiene i curdi siriani in armi anche contro i qaidisti, potrebbe rapidamente organizzare una catena di rifornimenti militari determinante per punire Assad per l’uso di armi chimiche e sconfiggere l’Internazionale sciita dei pasdaran iraniani e di Hezbollah.

C’è una via politico-militare seria contro Assad, ma non è quella scelta da Obama, di Carlo Panella (il Foglio, 5 settembre 2013)

Dalla Turchia arriva la notizia della defezione dal regime siriano di Ali Habib, capo di stato maggiore dal 2004 al 2009, poi ministro della Difesa fino al 2011: è il generale alawita più alto in grado ad abbandonare il presidente Assad. La defezione di Habib è interessante non soltanto perché tradisce una spaccatura all’interno dell’establishment alawita, in teoria il più leale con la famiglia Assad, ma anche perché lascia intravedere una possibile, futura mediazione tra opposizione e governo. 

La fuga del generale dev’essere stata un’operazione complessa, perché secondo fonti del Foglio era stato confinato in un piccolo appartamento della capitale senza più le sue guardie del corpo personali ed era sorvegliato dal governo, a partire dal tardo 2011. Habib aveva presentato al presidente Assad un piano per negoziare pacificamente con i manifestanti della città di Hama, che allora ospitava le proteste di piazza più grandi della Siria. Assad aveva rifiutato la proposta e aveva ordinato invece di usare la forza e di sparare. Il capo dell’intelligence siriana, Jamil Hassan, aveva visitato il generale proponendogli la creazione di un consiglio militare agli ordini dei servizi segreti e non più del ministero della Difesa, per agire con più efficacia. Habib aveva rifiutato in entrambi i casi: niente spari contro le proteste di Hama e niente subordinazione ai servizi, era stato dimesso dal posto di ministro ed era caduto in disgrazia. Proprio per questo a Damasco il suo nome circolava molto nel 2011 come possibile candidato alla guida di un governo di transizione, che sostituisse Assad e trattasse con l’opposizione, il tutto con la benedizione di Mosca. L’opposizione lo aveva persino riconosciuto come possibile interlocutore, perché non ha responsabilità nella repressione. Poi si era fermato tutto. Fino a due giorni fa.

Il generale che può fare pace in Siria, di Daniele Ranieri (il Foglio, 6 settembre 2013)                                    

Nel video Issa dice, puntando la pistola alla testa di uno dei sette prigionieri: “Per cinquant’anni sono stati complici nella corruzione. Giuriamo al Signore del Trono, questa è la nostra promessa: ci vendicheremo”. Alla fine della recitazione, il comandante e poi gli altri uomini armati sparano ai soldati prigionieri. Secondo la ricostruzione del NYTimes, Issa è animato da un odio feroce nei confronti della minoranza alawita, quella a cui appartiene Assad, e negli ultimi mesi ha gestito un campo di addestramento vicino al confine turco e si è rifornito di armi presso parenti e soci in affari. In un caso anche dal Consiglio Militare Supremo dell’Esercito Libero Siriano, sostenuto dall’Occidente: una prova, scrive Chivers, della situazione estremamente complessa e della difficoltà di fare distinzioni chiare tra i ribelli.

Un dilemma per l'Occidente (ilPost)


Nel duello di San Pietroburgo fra Putin e Obama, evidenziato da scambi di sguardi gelidi al summit e posizionamenti di navi da guerra nel Mediterraneo Orientale, ciò che colpisce è la scelta di Pechino. Xi Jinping si è schierato con Putin, ma evitando la sfida aperta a Obama. La Cina affianca il proprio veto pro-Assad all’Onu a quello di Putin ma poi Xi smorza i toni, parla con Obama di scambi commerciali, investimenti hi-tech e lotta ai cambiamenti climatici. Dando l’impressione di considerare il duello siriano più come un residuo del secolo passato che la genesi dei equilibri di quello nuovo, oramai inoltrato. 


giovedì 5 settembre 2013

Siria e dintorni (articoli dal Sole24Ore)

Test come quello compiuto ieri vengono effettuati regolarmente a sostegno dello sviluppo del sistema antimissile Arrow e solitamente vengono programmati con ampio anticipo. Non c'era quindi nessuna attinenza con la crisi siriana ma è indicativo che le tensioni in atto non abbiano indotto Gerusalemme a rinviarlo. Al contrario, il ministero della Difesa israeliano lo ha utilizzato a scopo deterrente annunciando di aver completato con successo, in collaborazione con le forze statunitensi, un'esercitazione che ha visto il lancio di un missile Blue Sparrow.
Netanyahu avverte Assad, di Gianandrea Gaiani - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/qteaA

Sembra esserci un copione preciso in questa interminabile crisi siriana, anche se i colpi di scena degli ultimi dieci giorni avrebbero suggerito il contrario. Il copione preparato da Obama poggia sulla necessità di costruire consenso attorno al Governo americano soprattutto sul piano internazionale. Ora, dopo il colpo di scena di sabato scorso, con lo stop all'attacco per cercare un appoggio del Congresso che ha scatentato mille polemiche e mille accuse di incertezza, Barack Obama incassa in anticipo un dividendo di credibilità che pareva improbabile. Soprattutto dopo la sconfitta parlamentare di David Cameron a Londra per mano dei suoi stessi compagni di partito. Da oggi, in Europa, Obama, il presidente debole e amletico torna dunque all'attacco.
La Casa Bianca si rafforza, dal nostro inviato Mario Platero - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/hDlZV

Va detto che le compagnie petrolifere russe costituiscono circa la metà del valore dello stock market nazionale e che Gazprom produce da sola il 10% dell'export. E' comprensibile perciò che la rivoluzione dello shale-gas americano preoccupi profondamente Mosca. Essa infatti rischia di minare le fondamenta dell'odierno capitalismo di Stato russo poiché al momento della rielezione, lo scorso maggio, il presidente Vladimir Putin ha escluso dalla privatizzazione il settore dell'energia, nonché quello della difesa. Inoltre lo shale-gas sta cambiando l'equilibrio di potere fra Mosca e gli acquirenti europei poiché i rifornimenti di gas liquefatto del Medio Oriente che gli Usa non intendono più acquistare, vengono ora offerti ai paesi europei spingendo verso il basso i prezzi sul mercato mondiale.  
United Shale of America, ecco che cosa teme la Russia, di Adriana Castagnoli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/knTWl