venerdì 30 marzo 2012

Questa nuova fase non è una "parentesi" (lettera di Monti al Corriere)

(...)  La percezione errata è quella che porta ad attribuire essenzialmente al governo («tecnico») il merito dei rapidi cambiamenti in corso. Il forte dubbio discende da quella percezione: è il dubbio che il nuovo corso possa essere abbandonato quando, dopo le elezioni parlamentari, torneranno governi «politici».
Finché la percezione errata e il dubbio non saranno dissipati, la fase attuale verrà considerata come una interessante «parentesi», degna forse di qualche investimento finanziario a breve termine. Ma le imprese straniere, come del resto quelle italiane, saranno riluttanti a considerare l'Italia un luogo conveniente nel quale investire e creare occupazione.
Non è facile modificare le opinioni su questi due punti. Ma credo sia dovere del presidente del Consiglio cercare di farlo con ogni interlocutore. Gli argomenti che ho utilizzato a Tokyo, riportati correttamente dai corrispondenti italiani presenti, ma «letti» in Italia fuori contesto, sono stati i seguenti.
Se da qualche mese l'Italia ha imboccato risolutamente la via delle riforme, lo si deve in parte al governo, ma in larga parte al senso di responsabilità delle forze politiche che, pure caratterizzate da forti divergenze programmatiche, hanno saputo dare priorità, in una fase di emergenza, all'interesse generale del Paese.
E lo si deve anche alla grande maturità degli italiani,che hanno mostrato di comprendere che vale la pena di sopportare sacrifici rilevanti, purché distribuiti con equità, per evitare il declino dell'Italia o, peggio, una sorte simile a quella della Grecia.
E dopo le elezioni? Certo, torneranno governi «politici», come è naturale (perfino in Giappone, ho dichiarato che il sottoscritto sparirà e che il «montismo» non esiste!). Ma ritengo che ciò non debba essere visto come un rischio.
Le forze politiche sono impegnate in una profonda riflessione al loro interno e, in dialogo tra loro, lavorano a importanti riforme per rendere il sistema politico e istituzionale meno pesante e più funzionale.(...)


L'integrale della lettera di Monti sul sito del Corriere della Sera

giovedì 29 marzo 2012

La Saputa Ingenuità di Monti


La "saputa ingenuità" di Monti nel mettere in tensione l'"arco costituzionale" che lo appoggia non deve preoccupare. E' scritto nel codice genetico di questo governo la tensione con il mondo politico che lo sostiene; e Monti è pienamente consapevole del fatto che ha bisogno dei partiti per poter compiere il lavoro che è stato chiamato a definire. Al tempo stesso le forze politiche di destra e di sinistra dovrebbero accettare pienamente la sfida che egli e il suo governo pongono. 
Da questo punto di vista non ha molto senso, a mio avviso, parlare di obiettivi o addirittura rivalità personali che serpeggerebbero nell'esecutivo. Se Monti avesse intenzione di candidarsi con un suo partito, significherebbe rinunciare al ruolo storico  che gli è spettato, ruolo pari a quello che ha avuto Carlo Azeglio Ciampi, così simile e al tempo stesso così lontano da lui. Lasciando stare i dietrologismi da giornale, guardiamo alle cose stesse: l'emergenza non è finita, e la fisiologica tentazione della politica di riprendere il gioco, deve essere contrastata, per il momento. Non solo dall'esterno dei partiti, non solo dal punto di vista "impolitico-tecnico", se vogliamo dire così, ma anche - e soprattutto - dall'interno del mondo stesso della politica e da parte della forze sociali deve venire la consapevolezza che stiamo attraversando un cambiamento strutturale, una rivoluzione paradigmatica dei linguaggi e delle pratiche che hanno costituito il patto della prima Repubblica, di cui la (presunta) "seconda" era solo una propaggine.

Ora, con la crisi sistemica europea, forse veramente si può cambiare, forzati dall'esterno.
Accettino tutti la sfida che non è di Monti, ma di un terremoto che ci sta colpendo
Ma pensiamo già alla città che costruiremo dopo, insieme.

Francesco Maria Mariotti


Sulla carta, dunque, per la seconda economia manifatturiera d'Europa c'è ampio spazio per risalire la china. Meglio però usare il condizionale. Non solo perché finora il sistema-Paese non ha saputo sfruttare a fondo opportunità e promesse della globalizzazione. Ma anche e soprattutto perché troppo spesso il sistema-Paese è assente all'estero. E quando mostra il suo biglietto da visita agli investitori stranieri, invece di attirarli, tende a scoraggiarli quando non a respingerli. Il caso di British Gas e della sciagurata storia del rigassificatore di Brindisi è cronaca recentissima. Ma si potrebbe ricordare quella di At&t che nel 2007 voleva comprare Telecom Italia ma fu bocciata dal Governo: da allora pare preferisca fare affari in Spagna, dove sarebbe presenza gradita. di Adriana Cerretelli - Il Sole 24 Ore - leggi su Italia e Asia, la via da seguire

Detto questo, l'uscita del premier si presta a una serie di critiche. In primo luogo, certi concetti non possono essere reiterati ogni giorno. Monti lo aveva appena detto («io non tiro a campare»): perché ripetersi, visto che non sono emerse particolari novità nelle ultime 48 ore? Tutta questa insistenza nel sottolineare i limiti dei politici tradisce una certa insofferenza che in apparenza è impolitica. E tra l'altro contraddice l'attitudine felpata e molto astuta del primo Monti, quello che tra novembre e gennaio ha messo in riga i partiti coprendoli di elogi o almeno di riferimenti rispettosi. In secondo luogo il premier tende a mescolare piani diversi. di Stefano Folli - Il Sole 24 Ore - leggi su Confessioni di un impolitico?

"A Monti chiederei di ridurre il costo della forza lavoro", dice Donata Novellone. Amisco stima che cumulativamente versa il 50% dei propri profitti al governo, al netto del lavoro e altri costi. Ma "più di tutto", sottolinea il Wsj, gli imprenditori vogliono quello che ogni politico italiano ha promesso: "Semplicità e prevedibilità". Donata Novellone lamenta che ogni due mesi ci sono leggi nuove, ogni tanto cambiano, talvolta sono retroattive. "La burocrazia ci sta uccidendo". Il carico delle scartoffie è tale che "Ci vogliono consulenti per ogni cosa". di Elysa Fazzino - Il Sole 24 Ore - leggi su "Non possiamo continuare così"


La politica non sta riguadagnando terreno. Questo Monti lo sa. E quando gira per il mondo, ieri l’Europa oggi l’Asia, chiede fondamentalmente una prova di fiducia verso il nostro paese incardinata sulla propria figura. Raccontare ai giapponesi che i partiti non hanno consenso e prospettare il loro ritorno al potere è un controsenso a meno che non si abbia in animo di continuare a svolgere questo ruolo di garanzia sopra il sistema politico. Se fossi un investitore estero e decidessi di scommettere sull’Italia perché mi ha convinto il suo massimo rappresentante politico difficilmente potrei accettare che di qui a qualche mese il mio garante sparisca dalla scena. Questo Monti lo sa, lo sanno le imprese che guardano all’estero, lo sa l’opinione pubblica, con buona pace dei neo-radical. Così a poco a poco Monti si sta costruendo quel piedistallo fondato sulla propria indispensabilità che sarà il vero motore dei prossimi mesi della politica italiana. Leggi il resto: La Terza Repubblica ha già il suo leader

lunedì 26 marzo 2012

La vera fine della Prima Repubblica

"(...) Poi cita Giulio Andreotti, non per nome ma per quella frase ormai icona per ogni politico, quella sul tirare a campare o tirare le cuoia. Crisi? «Rifiuterei il concetto: a noi è stato chiesto di fare un'azione nell'interesse generale. Un illustrissimo uomo politico diceva: "meglio tirare a campare che tirare le cuoia". Per noi nessuna delle due espressioni vale perché l'obiettivo è molto più ambizioso della durata ed è fare un buon lavoro».(...)" 

Concertazione mondiale


(...) Fra i tre blocchi che ruotano attorno a Usa, Ue e Cina crescono, insieme a temibili attriti geo-strategici e militari, tensioni commerciali e finanziarie. Siamo al punto che gli aerei europei rischiano di vedersi limitare i permessi di sorvolo in Asia, come ritorsione contro le tasse ecologiche che l’Ue vuole far pagare agli aerei di chi non è stata ancora capace di convincere ad adottare le stesse regole a protezione dell’ambiente. È una china che non va scesa ulteriormente: occorre al più presto tornare ad ambiziosi progetti di cooperazione globale da perseguire con atteggiamenti diplomatici coerenti, lungimiranti, innovativi. Credo non sia scorretto leggere nel viaggio di Monti, che include anche la conferenza sulla sicurezza di Seul, con i massimi leader mondiali, qualcosa che va oltre gli affari italiani. Cioè un piccolo contributo nella direzione del rilancio urgentissimo della concertazione mondiale, da parte di un personaggio rappresentativo dell’Europa più convinta dei suoi valori e, insieme, più aperta e attenta alla costruzione di regole globali, capo del governo di un Paese che da un mondo più unito e cooperativo ha solo da guadagnare.

Leggi tutto l'articolo di Franco Bruni sulla Stampa: Doppia sfida per il viaggio di Monti 



venerdì 23 marzo 2012

La TAV è più importante dell'articolo 18

E' troppo presto, ora, per formulare giudizi definitivi sul "pacchetto lavoro" del governo Monti. Sono già stati segnalati i limiti di alcuni provvedimenti (vd. per esempio Boeri-Garibaldi su Repubblica), ma si apre una fase importante di elaborazione parlamentare che può correggere i difetti più vistosi di questo complesso di misure.

Mi pare però importante fare alcune riflessioni "a latere":

1. governo, parti sociali e partiti sembrano essere vittima di una "febbre d'attesa" che da una parte e dall'altra è stata alimentata in queste settimane: tanto alta che il risultato di oggi (per esempio rispetto alla semplificazione delle forme contrattuali) può apparire addirittura deludente; la lezione da trarre è semplice, e può servire per il futuro, anche per non leggere in termini apocalittici la fase attuale: in una materia delicata e complessa come quella del lavoro, è impossibile - in termini materiali, politici e simbolici - fare dei passaggi straordinari, repentini e totali. Insomma: impossibile la Rivoluzione; perché troppi i rapporti in essere da discutere, perché complicata la gestione delle conseguenze. Questa di Monti e Fornero non è - perché non poteva essere - LA Riforma del lavoro; è - molto più realisticamente - un primo passo che deve essere corretto in alcuni punti, rafforzato in altri, monitorato in altri ancora. Il processo che si apre oggi, perché comunque si apre un processo riformatore, non termina fra poche settimane o pochi mesi (disegno di legge o legge delega che sia); è un impegno che dobbiamo portare aventi con spirito di "cantiere aperto" per almeno una decina d'anni. Perché i passaggi vengano fatti senza traumi, perché gli effetti di alcune scelte possano essere valutati con attenzione.

2. Come si è già scritto in altri momenti, possiamo fare il miglior diritto del lavoro possibile, ma senza crescita economica i posti di lavoro diminuiranno, o comunque si abbasserà la qualità complessiva del lavoro. Parlare di lavoro non può ridursi ad una discussione giuridica, ma deve riguardare tutto quello che concerne la vita economica di un paese , e anche la vita delle persone. Oggi è fondamentale che questo paese e questa strana comunità che è l'Europa accettino la sfida del futuro, in termini di investimenti in infrastrutture materiali e immateriali, che non possono essere decise dal solo libero gioco del mercato, e che devono essere realizzate a partire da una visione strategica. Ciò non vuol dire accettare necessariamente qualsiasi grande opera venga proposta, ma certo significa che dobbiamo fare i conti su come porre mano alla "materia di base" del progresso e della ricchezza delle nostre comunità. Può essere molto più importante discutere di mobilità a livello continentale, piuttosto che difendere o attaccare un dettato giuslavoristico, per quanto importante.

3. L'Europa deve tornare protagonista, come mercato realmente unitario e senza privilegi di una o più componenti; ma soprattutto deve tornare protagonista politica anche nel braccio di ferro/alleanza (le due cose sono  in qualche modo inscindibili) con le altre potenze continentali, potenze la cui "mano pubblica" è certamente presente nel favorire lo sviluppo economico. Il rischio è che l'Europa parli di libero mercato e altre potenze difendano i loro campioni (o attacchino quelli degli altri) con mezzi che non sono certo di mercato (leggi protezionistiche, spionaggio industriale e politico, svalutazione competitiva della moneta). L'Europa deve farsi portatrice di una possibilità di regolamentare questa tensione, che è già presente, ma che troppo spesso non risulta evidente a molte nostre analisi.

Il libero mercato ha bisogno non di una politica che regoli eccessivamente, ma di una politica che combatta bene le sue proprie battaglie, creando quella infrastruttura di relazioni e regole internazionali che evidentemente oggi manca.

Francesco Maria Mariotti

mercoledì 21 marzo 2012

Attentato a Torino

(...) Sei colpi di pistola stamane a Torino contro il consigliere comunale Alberto Musy, leader dell'Udc. Un bandito gli ha sparato sotto casa, in via Barbaroux, in pieno centro cittadino. Musy, che è stato candidato sindaco di Torino nel 2011, è stato trasportato d’urgenza all’ospedale Molinette. Sul posto sono intervenute la Squadra Mobile e la Digos. E' in prognosi riservata ma i medici non lo ritengono in pericolo di vita. Alle 17 è stato diffuso l’ultimo bollettino, subito dopo l’operazione, durata sei ore. «I medici si esprimono con cauto ottimismo- ha detto la sorella Antonella- le prossime 48 ore saranno determinanti per capire l’evolversi della situazione».(...) Al momento gli inquirenti e gli investigatori non tralasciano alcuna pista, comprese quelle che possono essere legate alla vita privata e all'attività professione del consigliere comunale - avvocato che tra l’altro si è occupato di cause di lavoro (...)


Attentato a Torino: colpito Alberto Musy

lunedì 19 marzo 2012

L'attentato alla scuola ebraica di Tolosa

(...) L’attentato alla scuola di Tolosa tuttavia ha una natura diversa. Una sinagoga e un cimitero, al di là del gesto efferato, richiamano la dimensione del raccoglimento. Si è là o si è portati là, perché si è con i membri della propria comunità. Chi attacca là, lo fa perchè intende colpire proprio per dimostrare che è padrone della tua vita e anche del tuo corpo, nel caso tu sia morto. Una scuola ha un carattere diverso, riguarda i processi formativi e coinvolge le immagini, il bagaglio culturale, i contenuti che giorno dopo giorno si definiscono e “fanno crescere”. Colpire una scuola non significa dunque colpire solo il presente o la tradizione di una comunità, ma il suo futuro.
Non è un problema limitato a quella scuola e non sarà solo a Tolosa, perché ovviamente il mondo non finisce a Tolosa. Ma la tragedia di Tolosa segnerà una nuova tappa di un processo di accresciuta diffidenza verso ciò che è il mondo esterno, verso ciò che non è ebraico. A Tolosa, di fronte a una scuola, si è infranto un contratto – o forse più realisticamente, ciò che restava di un contratto - fondato sulla fiducia di ricevere tutela, ma anche sulla curiosità di aprirsi al mondo, di conoscerlo, non per diffidarne, ma per saperne di più.
Da domani una parte importante della pedagogia, della costruzione della propria personalità culturale passerà per una didattica dell’autodifesa, del controllo degli spazi, dell’allargamento della frattura tra un mondo e il resto del mondo. In breve tra “noi” e “loro”. Non sarà solo una distanza fisica, ma sarà anche un ritrarsi. Tutelarsi vorrà dire mantenere le distanze. E’ una dimensione che in Francia – ma non solo in Francia – ha una lunga storia. Una storia che in Europa ha almeno un trentennio di vita e che non è solo la conseguenza dei processi immigratori, dei conflitti dovuti alla presenza rilevante di “stranieri”, delle integrazioni non perseguite o delle politiche securitarie.(...)

Non sappiamo ancora chi sia il killer misterioso di Tolosa e davvero le piste possono essere molte: un «lupo solitario», un militante qaedista, un razzista o piuttosto - come sta emergendo dalle prime ipotesi investigative - un ex soldato neonazista. Si tratta in ogni caso di una forma di terrorismo. E infatti l’indagine è guidata dagli esperti che si occupano di attacchi dalla matrice politica. Limitiamoci, per ora, a fissare alcuni punti. La polizia ritiene che sia lo stesso omicida che ha agito nei giorni scorsi uccidendo un parà sempre a Tolosa e altri due a Montauban. Avrebbe infatti usato la stessa pistola, una calibro 45, e una seconda arma. Guido Olimpio sul Corriere della Sera

NEONAZISMO- Da quando Marine Le Pen è a capo del Front National, il partito ha cercato di ripulirsi. Ha espulso tutti i personaggi più equivoci e legati al mondo skinhead. Il risultato, però, è stato una diaspora nell'estrema destra francese che ha portato al proliferare di tanti piccoli gruppi fuori da ogni controllo. Si sono così formate due correnti. La prima guarda a uno scontro di civiltà ed è rappresentata principalmente da Bloc Identitaires, ha forti legami con alcune frange di tifoserie calcistiche e ha nel mirino gli immigrati e l'Islam. La seconda ha un modo di pensare più tradizionale. Cerca cioè di preservare l'identità nazionale, secondo loro minacciata anche dagli ebrei e da quello che chiamano il «grande complotto giudaico». A seguire questa pista sono gruppi come Troisième Voie (fondato dal vecchio capo skinhead Serge Ayoub «Batskin») o il vecchio Gud. Benedetta Argentieri sul Corriere della Sera

Il professore morto era un rabbino residente a Gerusalemme, Yonatan Sandler, 30 anni. Il rabbino franco-israeliano è stato ucciso con i due figli Arieh (6) e Gabriel (3). Lascia una moglie e una figlia di quattro anni.  La quarta vittima è stata identificata dai mezzi di comunicazione israeliani in Miriam Monsenego, di circa 8 anni, figlia del direttore della scuola. Sotto choc il gran rabbino di Francia, Giles Bernheim: «Sono terribilmente sconvolto e inorridito. Parto immediatamente per Tolosa».
Come tutti hanno sospettato fin dal primo momento, il killer è quasi certamente lo stesso che la settimana scorsa - sempre in scooter - ha compiuto due agguati contro militari sempre a Tolosa e nella vicina Montauban, con un bilancio totale di tre morti e un ferito. (...) Si ignora completamente se il killer abbia motivazioni - pur deliranti - di natura politica. Secondo il giornale francese Point.fr si indaga su ex soldati neonazi. Il killer forse faceva parte di un gruppo di parà affiliati ad organizzazioni neonazi. E per questo motivo era stato cacciato dall'esercito. Il presidente del Consiglio francese della Cultura Musulmana, Mohammed Moussaoui, si è intanto dichiarato «inorridito» per «l’indescrivibile azione criminale» compiuta. Moussaoui ha tenuto a esprimere tutta la sua solidarietà e quella dei musulmani di Francia all’insieme della comunità ebraica. «Mi attendo -ha aggiunto-che l’inchiesta permetta di trovare rapidamente l’autore di questa barbarie da condannare nella maniera più ferma». La ricostruzione della Stampa

giovedì 15 marzo 2012

L'Unione Politica è archiviata, prendiamone atto (Paolo Savona, da FULM.org)


Sulla stessa linea si è posta la Bundesbank indicando nella Bce un possibile untore, mentre essa ha trovato un modo per evitare che l'euro si impesti. Gli organi dell'Unione non riescono invece a evitare la peste della disoccupazione, che combattono a colpi di dichiarazioni a favore dello sviluppo. Eppure almeno uno strumento lo hanno: finanziare un piano di infrastrutturazione europea emettendo eurobond. Non lo fanno perché sarebbe un passo concreto verso l'unione politica, che non si vuole.
Se così è, si prenda nota che i patti europei che ci legano vanno rinegoziati alla luce dell'abbandono dell'obiettivo dell'unificazione politica e il mantenimento, se si vuole, del mercato unico europeo con moneta comune, che è ben altra cosa e non richiede il trasferimento di sovranità, ma solo, come si dice, patti chiari e amicizia lunga. Meglio farsi illuminare dal faro politico inglese, che fotografa la situazione dei reali fondamenti dei patti europei, o accenderne uno nuovo.

A ciascuno i suoi compiti (dal Sole24Ore)


Perchè se il rigore riguarda ciascun Paese e ha effetti su tutta l'Europa e sulla sua moneta, a maggior ragione la crescita non può trovare una declinazione efficace se non a livello comunitario. «Ci sono tante case e ci sono tanti soggetti che devono fare i compiti a casa ma – ha avvertito il premier – il superamento dei problemi richiede anche il miglioramento della casa comune europea». È questa la sfida che ieri Monti ha messo sul tavolo con la Merkel e in Europa. 

martedì 13 marzo 2012

Perché l'Italia ha perso peso internazionale?

Consiglio caldamente l'articolo di Marta Dassù di cui leggete di seguito un ampio stralcio. Nella discussione sulle difficoltà italiane in politica estera, la lucidità della Dassù ci aiuta a contestualizzare e a riportare queste crisi a fatti, numeri, vincoli di bilancio, facendo giustizia di discussioni troppo spesso "astratte", quasi ideologiche. 

Interessante anche la riflessione di Lucio Carracciolo (eccessivamente severo nel giudicare la nostra politica estera)che come Dassù smitizza i luoghi comuni di una gestione "italica" dei sequestri che sarebbe più "debole" di quella anglosassone.

In un momento in cui si discute di questi problemi forse in modo troppo eclatante, dando l'impressione che si stia cercando un capro espiatorio (magari in qualche vertice dei Servizi), avere presente la stella polare dell'interesse nazionale - richiamato dalla Dassù che lo declina poi in termini europeistici - è fondamentale. 

So di ripetermi, ma in taluni casi la pubblicità non è alleata di un buon funzionamento della democrazia: anche il silenzio - a volte - è necessario; naturalmente il giusto equilibrio fra trasparenza e coesione nazionale è sempre da rimodulare, quasi quotidianamente, ed è grande  - in questo senso - la responsabilità degli operatori dell'informazione, nel valutare cosa dire, e forse soprattutto come dirlo.

Discutiamo di tutto, se serve discutere esplicitamente di alcune cose, ma tentiamo di tenere le coordinate corrette, per non lasciarci prendere la mano. E anche perché uomini e donne che custodiscono la nostra sicurezza devono essere certi di avere alle spalle una nazione coesa e unita.

Francesco Maria Mariotti

(...) Lasciatemi prima chiarire due punti di contesto. Primo: le debolezze dell’Italia, di fronte ai rischi diffusi di oggi, sono le debolezze della Francia o della Spagna o di qualunque altro Paese che abbia una posizione geopolitica esposta e parecchi suoi connazionali che agiscono e lavorano nel mondo. Tutti i Paesi europei che si trovano in condizioni simili hanno subito rapimenti, hanno cercato alternative diverse per salvare gli ostaggi e hanno avuto, purtroppo, delle vittime. (...) Ed è pura mitologia che l’Italia abbia una sua «via» alla liberazione degli ostaggi. All’opposto, l’eccezione alla regola è che gli anglo-sassoni tentano ogni tanto un blitz militare: qualche volta riuscendo, altre, come purtroppo in questo ultimo caso, fallendo e sacrificando anche il loro connazionale.


Secondo punto: usare le difficoltà internazionali ai fini delle polemiche interne è sempre sbagliato, perché aumenta la vulnerabilità di un Paese proprio quando avremmo bisogno di ridurla. Certo: è giusto, è dovuto, che un governo spieghi i suoi comportamenti internazionali, informi il Parlamento e che si sentano i Servizi. È giusto e dovuto che il governo di Roma esiga da Londra tutti i chiarimenti necessari sul ritardo di comunicazione in Nigeria. E si interroghi sulle proprie responsabilità. Ma è sbagliato - nel senso che il danno aumenta per il Paese nel suo complesso trasformare una crisi internazionale in materia aprioristica di polemica interna. L’interesse nazionale è opposto. (...)

E vengo così all’interrogativo di fondo del dibattito di questi giorni, che non voglio affatto eludere: le difficoltà in India, sommate alla tragedia in Nigeria, dimostrano che l’Italia ha perso peso internazionale? Sì, ma questa perdita relativa di influenza non dipende da incapacità politica; è il prodotto di due fattori, uno esterno e l’altro «soggettivo». Il fattore esterno lo conosciamo benissimo: la «diffusione» del potere economico e politico verso nuove potenze, come l’India appunto (...) Il fattore soggettivo - e qui sono d’accordo con Panebianco, Annunziata e molti altri - è che l’Italia ha continuato ad illudersi, anche dopo la fine delle rendite di posizione del dopoguerra, di potere non occuparsi di sicurezza. Basta guardare ai tagli progressivi che hanno subito, negli ultimi dieci anni, tutti gli strumenti dell’azione esterna (...).

È questa la discussione vera che dovremmo aprire. Se il risanamento del bilancio aumenta il nostro standing in Europa ma riduce il nostro standing nel mondo, quali sono le opzioni che restano? Una risposta possibile è: le economie di scala. Usare la credibilità riacquistata in Europa per spingere - finalmente - a qualcosa di più e di vero nella politica estera e di sicurezza europea. I casi dell’India e della Nigeria dimostrano, in modi diversi, che siamo ancora lontani da tutto ciò. Mentre è molto vicino il punto in cui la quadratura del cerchio sta diventando impossibile: tagliare via gli strumenti e gestire bene le crisi è impresa ardua. Per chiunque governi.




Secondo quanto riportato da organi inglesi, esistevano addirittura due trattative sperate per liberare gli ostaggi, una inglese e una italiana. Le sembra una cosa plausibile fra due Paesi alleati?

E' normale più che plausibile. Ogni Paese cerca di proteggere i propri cittadini, non quelli altrui. Non ci vedo nulla di straordinario.

Coloro che oggi parlano di modi diversi di condurre casi del genere, e cioè l'uso della trattativa da parte italiana e uso della forza da parte inglese: cosa ne pensa?


Penso che siano delle bufale, delle ideologie se vogliamo essere gentili. Ogni Paese usa tutti i mezzi di cui dispone per salvare i propri ostaggi. Gli italiani pagano, gli inglesi pagano, gli americani pagano quando serve. Oppure usano altri strumenti. La differenza è che noi italiani non abbiamo questi altri strumenti alternativi di cui dispongono gli americani, gli inglesi o gli israeliani. Quindi per noi viene più naturale pagare.

venerdì 9 marzo 2012

Le Scuse Non bastano (A.Puri Purini, Corriere)

(...) Siamo uniti da mille interessi comuni nell'Unione Europea, lavoriamo insieme alla Nato, condividiamo un rapporto bilaterale intenso sui problemi della difesa che, si presume, include contatti frequenti fra i servizi segreti soprattutto nelle aree di crisi, fra cui l'Africa. Almeno, dovrebbe essere così. Investiamo risorse e uomini nell'affinare obiettivi, consolidare rapporti, creare fiducia. L'esperienza congiunta nei Balcani, in Iraq, in Afghanistan dovrebbe avere insegnato qualcosa. Esistono legami improntati a rispetto reciproco fra autorità militari italiane e britanniche. Evidentemente la realtà è un'altra. Il Regno Unito si muove ancora, magari inconsciamente, nella nostalgia di una gloria imperiale che lo porta ad agire in isolamento sugli interventi militari, con l'eccezione del governo americano cui viene raccontato tutto. Ha la consapevolezza di avere vinto parecchi conflitti negli ultimi due secoli (con eccezione delle due guerre afghane perse nell'800) e agisce in materia militare con senso di superiorità. Se Downing Street trova normale affrontare un rischiosissimo intervento senza consultare un essenziale partner direttamente coinvolto come l'Italia, mettendo in pericolo la vita degli ostaggi, significa che qualcosa si è inceppato nel tradizionale lucido pragmatismo degli amici britannici.
Quando avvengono questi incidenti le colpe sono generalmente ripartite (un poco come nei divorzi). Le responsabilità britanniche sono evidenti: la gestione della missione e il suo fallimento; la mancata informativa all'Italia. Verrebbe da dire che non ce lo siamo meritato. Eppure abbiamo anche noi delle responsabilità, seppure non legate all'episodio specifico. Non siamo riusciti ad accreditarci pienamente in un una componente chiave della realtà internazionale. (...)

giovedì 8 marzo 2012

Reagire Nettamente

Dobbiamo sapere di più su quanto successo in Nigeria, per poter formulare un giudizio completo sui fatti. Ma comunque si possa valutare il blitz gestito da Nigeriani e Inglesi - che potrebbe essere giustificato dalla necessità di approfittare di uno spazio di manovra forse irripetibile - avvisare il Governo italiano solo a operazione iniziata appare comunque come un fatto molto grave. Questa non è la complicata questione indiana, dove è meglio lavorare con riserbo, e dove diritto e politica si intrecciano in nodi sottili, che solo nell'ombra si possono recidere. In questo caso - al di là della ricostruzione esatta della vicenda e della valutazione strettamente operativa, che in questi casi è difficilissima - il Governo italiano deve comunque reagire nettamente, soprattutto con Londra, che ha autorizzato il blitz; altrimenti rischiamo di veder consolidare - al di là dei meriti economici e europeisti di questa fase - una immagine di debolezza e di acquiescenza che può nuocere gravemente all'azione dell'Italia anche su altri fronti. 

L'8 Marzo delle Donne Soldato


«L’8 marzo? Un giorno come tutti gli altri». Il capitano dell'Aeronautica Chiara Aldi si stupisce anche della domanda. Per i militari italiani impegnati in Afghanistan un giorno vale l’altro. E poco importa se sotto la divisa c'è un uomo o una donna. Ad Herat sono circa 150, in gran parte con incarichi operativi come i loro colleghi maschi. Comandano plotoni, pilotano elicotteri da combattimento, sono fucilieri oppure genieri impegnati nella delicata opera di sminamento degli esplosivi, ma anche medici, infermiere, psicologhe. E tra le donne soldato si scelgono anche le componenti del FET (Female Engagement Team) col compito di relazionarsi con le donne afghane al fine di migliorarne la loro condizione.
MOGLI E MAMME - Stando al loro racconto si può essere donne impegnate su un fronte ad alto rischio senza rinunciare a nulla, dell’essere allo stesso tempo soldato e donna. «Siamo militari – spiegano- ma restiamo pur sempre delle donne. Alla fine non c’è alcuna differenza con i colleghi uomini». E il capitano Aldi è riuscita a conciliare il suo lavoro anche col ruolo di moglie e mamma. E' sposata e ha una bambina di tre anni che quando è in missione all’estero riesce a vedere solo la sera grazie a Skype. Difficile? «Il problema del distacco lo subiscono le mamme come i papà. Noi italiani non siamo molto abituati a un genitore che lascia per lunghi periodi i figli, ma in altri paesi questo avviene regolarmente da anni. Non c’è alcuna differenza: l’attaccamento ad una figlio non dipende né dal sesso né dalla distanza». (...) Donne Soldato - 8 marzo, un giorno come altri 

(...) Da quando, dodici anni fa, le prime donne entrarono a far parte delle Forze Armate, di strada ne è stata fatta tanta. A confermarlo è proprio il loro impiego  in tutti gli ambiti che vedono impegnati i colleghi uomini, sia nelle missioni internazionali sia in Patria. Attualmente il personale femminile di Esercito, Marina, Aeronautica e Carabinieri, tra Ufficiali, Sottufficiali e Volontarie, supera quota 11.770 unità (quasi il 4% del totale dell’organico). La presenza più corposa si registra nell’Esercito, dove le donne rappresentano il 7% della consistenza della Forza Armata. Una percentuale che si attesta al 4,3% nella Marina, al 2% nell’Aeronautica e all’1,3% nell’Arma dei Carabinieri. Numeri a parte, tanto è cambiato da quando, nel  2000, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite adottò la Risoluzione 1325 su 'Donne, Pace e Sicurezza' che, per la prima volta, riconosceva la specificità del ruolo e dell'esperienza delle donne in materia di prevenzione e risoluzione dei conflitti. In sintesi, la conferma che le donne militari rappresentano un valore aggiunto per la Difesa (...)

Leggi anche Donne in Guerra
 

lunedì 5 marzo 2012

Libia, sparizioni e città-stato (da ilFoglio.it)


(...) Il terrore di chi andava in piazza per Gheddafi, anche se non coinvolto nella repressione del regime, è sparire a un posto di blocco. Samira è un nome di fantasia, adottato per evitare rappresaglie, di una professionista libica che avevamo conosciuto ai tempi del colonnello. Un suo stretto parente era arruolato nei livelli medi della sicurezza. Non risulta che abbia compiuto atrocità e tantomeno che fosse ricercato, come ha ammesso lo stesso governo transitorio. “Il 18 febbraio era in macchina lungo la strada dell’aeroporto con al volante un amico che fa parte dei towhar (i rivoluzionari, nda)”, racconta Samira al Foglio. “L’hanno fermato al primo ponte verso Tripoli, a un posto di blocco di una banda di Zintane armata fino ai denti. Uno di loro aveva un passamontagna nero per non farsi riconoscere”, prosegue Samira. Il documento del Comitato della rivoluzione del 17 febbraio dell’amico non è servito. Prima hanno preso lui e poi l’ex gheddafiano, davanti alla moglie e ai figli piccoli. La signora si è recata all’aeroporto dal comandante della milizia, vanamente. Solo tempo dopo la famiglia ha individuato il capobanda responsabile della sparizione, che vive in una villa con i rubinetti d’oro sequestrata a una membro del regime. Il boss ha ribadito con arroganza: “Non mi interessa se era o meno sulla lista dei ricercati. Lo volevo io e basta”. Era chiaro che i “rivoluzionari” volevano un riscatto. Gli stessi towhar hanno ammesso che per alcuni pezzi grossi della sicurezza di Gheddafi catturati sono stati chiesti alle rispettive famiglie 3 milioni di dinari (oltre 1 milione e mezzo di euro). Per i “farisa”, le prede più piccole, bastava molto meno. “La moglie del mio parente era pronta a tutto – spiega Samira – Qualche giorno dopo il rapimento i sequestratori l’hanno chiamata al telefono forse dandole la speranza di liberare il marito. Lei è andata verso l’aeroporto e non l’abbiamo più rivista”.
 
Nessuno sa con certezza se gli arresti arbitrari a Tripoli siano decine o centinaia, ma al momento in Libia i prigionieri risultano poco meno di diecimila. Molti sono detenuti in una sessantina di carceri illegali  e in alcuni casi segrete, dove non mancano vessazioni e torture. Per non parlare di Tawarga, la cittadina di quarantamila anime vicino a Misurata cancellata dalla carta geografica. Una pulizia etnica degli abitanti di pelle nera accusati degli episodi più brutali dell’assedio della terza città della Libia per conto di Gheddafi. Soprattutto con il buio, come abbiamo visto al primo posto di blocco davanti all’aeroporto, le milizie fermano chiunque vogliono con qualsiasi pretesto. Oltre all’affare dei riscatti, alcune bande di miliziani sequestrano le macchine di chi non gli va a genio, in particolare se sono nuove e di marca. “Il sistema è sempre lo stesso – ci raccontano – Ti chiedono di scendere perché la targa della tua auto è stata segnalata come sospetta. E poi si portano via l’auto per supposti controlli”. Gli stessi seguaci della rivolta schifati dai soprusi raccontano di giovani donne violentate di fronte ai genitori che hanno sostenuto Gheddafi. “Dove vai a sporgere denuncia? La polizia di fatto non esiste – spiega Samira – Le malefatte in 40 anni di Gheddafi i nuovi padroni le stanno ripetendo in pochi mesi”.(...)
 
I problemi sono enormi, non solo a Tripoli. Misurata è diventata una città stato, che ha già votato le municipali. Bengasi, dove è iniziata la fine di Gheddafi, si sta ribellando apertamente al governo transitorio e rispunta lo spettro della secessione della Cirenaica, dove si trova l’80 per cento delle risorse energetiche libiche. A Bani Walid sono tornate a sparare le armi della tribù Warfalla, che non sopporta di stare sotto il tallone dei nuovi padroni. All’estremo sud la situazione è più complessa. A Kufra e dintorni sono scoppiati scontri con decine di morti fra clan. Dietro la sanguinosa faida si nasconde il controllo del lucroso traffico di droga, armi e clandestini. I sopravvissuti del deposto regime difficilmente riusciranno a cavalcare l’onda, ma si teme una campagna terroristica di Abdullah al Senoussi, il cognato del colonnello, ex capo dei servizi segreti, ancora libero. Non solo: la figlia Aisha in esilio ad Algeri ha ancora in mano i conti nascosti all’estero, mentre il fratello Saadi lancia proclami bellicosi di rivincita. Nonostante le tante ombre la Libia ha voltato definitivamente pagina, ma deve ancora imboccare la strada giusta. Un recente sondaggio delle Università di Oxford e Bengasi condotto su un campione di duemila libici dimostra che oltre il 40 per cento invoca un leader con il pugno di ferro. Lo stesso comandante Abu Ajar ammette candidamente: “Per la Libia oggi ci vuole un uomo forte”. 

domenica 4 marzo 2012

La realtà non corre alla velocità di un tweet (laStampa)


(...) La vicenda della rapita ha assunto così contorni simili alla campagna che fece tingere di verde il mondo di Twitter all’epoca delle proteste in Iran nel 2009 o alle mobilitazioni a favore di Julian Assange e del suo Wikileaks. Stavolta però non si tratta di rivolte di piazza o battaglie per la libertà d’informazione. In ballo c’è invece una vita a rischio in uno dei luoghi del mondo più complessi e meno «coperti» dai media. Nella vicenda Urru è già difficile capire chi siano realmente i sequestratori, figuriamoci verificare la credibilità di fonti che si muovono tra emissari di Al Qaeda e terroristi tuareg.

Solo la «France Press», tra gli organi d’informazione più autorevoli, dispone di una qualche presenza nelle regioni tra Algeria e Mali: tutti gli altri si affidano a canali poco affidabili. La diplomazia e le trattative d’intelligence in questi casi si muovono con tempi lunghissimi e comunicazioni minime. In uno scenario simile piattaforme come Facebook o Twitter, dove tutto è immediato, rischiano di trasformare subito in «fatti» quelle che sono solo labili informazioni da confermare. Il caso Urru ora diventa un’occasione per riflettere: la credibilità e la velocità spesso non vanno d’accordo e il vecchio metodo delle verifiche ha bisogno di pazienza. La realtà non viaggia necessariamente al ritmo di un «tweet» al secondo anche se non ci resta che sperare che l’entusiasmo sia stato solo prematuro.



venerdì 2 marzo 2012

La Verità, Vi Prego, Sui Conti (Grecia, Spagna... Europa)

Pensando al caso greco e alla situazione della Spagna (pare che i dati economici vengano rivisti in peggio rispetto a quanto detto da Zapatero prima delle elezioni), credo che sia oramai necessario pensare, costruire e programmare strumenti e procedure che mettano in grado i cittadini di conoscere i veri dati di bilancio prima delle campagne elettorali. 

Un organismo terzo, magari Dirigenti non politici della UE e della BCE che controllino lo stato dei conti pubblici un mese prima del voto, costringendo chi esce a spiegazioni sullo stato delle  cose e forzando i contendenti del futuro a fare promesse che sia possibile mantenere. 

Sarebbe una sorta di "educazione finanziaria e politica" per tutti noi, e avremmo così una procedura comune per rendere credibili le politiche dei governanti. 

Si dovrebbe in questo senso pensare anche a momenti "istituzionali" di "campagna elettorale regolata" in cui le proposte dei contendenti vengano discusse in pubblico, con trasparenza, e con l'ausilio di pareri anche di parte, ma fondati e verificabili, ovvero discutibili e falsificabili. 

La democrazia europea è sotto stress e non può continuare nel giochetto delle stime riviste, o smentite; non possiamo più tollerare campagne elettorali in cui si promettono cose che poi non possono essere mantenute perché la precedente gestione non ha fatto bene i conti. 


In Italia questa cura andrebbe fatta fin da subito, per gli Enti Locali.

E' commissariare la democrazia? O è difenderla dai suoi mali interni?

Francesco Maria Mariotti

In Spagna il disastro della gestione Zapatero si fa sempre più evidente. Dopo il dato sul deficit del 2011, molto più alto delle attese, oggi il governo di Mariano Rajoy ha tagliato la previsione della crescita per il 2012 dal +2,3% al -1,7% mentre ll target per il deficit è stato elevato al 5,8%, molto di più rispetto al precedente vincolo concordato con l’Ue, fissato al 4,4 per cento. «Il premier Zapatero ci aveva garantito che i margini operativi per un veloce rientro del deficit c’erano. È evidente che non è così», spiega un alto funzionario della Commissione europea a Linkiesta. E ora per Madrid potrebbe scattare la procedura d’infrazione.



TAV (Infografica de laStampa)

Un'ottima infografica per capire gli elementi principali del progetto

Il Patto di Bilancio

TRATTATO SULLA STABILITÀ, SUL COORDINAMENTO E SULLA GOVERNANCE NELL'UNIONE ECONOMICA E MONETARIA TRA IL REGNO DEL BELGIO, LA REPUBBLICA DI BULGARIA, IL REGNO DI DANIMARCA, LA REPUBBLICA FEDERALE DI GERMANIA, LA REPUBBLICA DI ESTONIA, L'IRLANDA, LA REPUBBLICA ELLENICA, IL REGNO DI SPAGNA, LA REPUBBLICA FRANCESE, LA REPUBBLICA ITALIANA, LA REPUBBLICA DI CIPRO, LA REPUBBLICA DI LETTONIA, LA REPUBBLICA DI LITUANIA, IL GRANDUCATO DI LUSSEMBURGO, L'UNGHERIA, MALTA, IL REGNO DEI PAESI BASSI, LA REPUBBLICA D'AUSTRIA, LA REPUBBLICA DI POLONIA, LA REPUBBLICA PORTOGHESE, LA ROMANIA, LA REPUBBLICA DI SLOVENIA, LA REPUBBLICA SLOVACCA, LA REPUBBLICA DI FINLANDIA E IL REGNO DI SVEZIA. (...)

ARTICOLO 1 
1. Con il presente trattato le parti contraenti, in qualità di Stati membri dell'Unione europea, 
convengono di rafforzare il pilastro economico dell'unione economica e monetaria adottando una serie di regole intese a rinsaldare la disciplina di bilancio attraverso un patto di bilancio, a 
potenziare il coordinamento delle loro politiche economiche e a migliorare la governance della zona euro, sostenendo in tal modo il conseguimento degli obiettivi dell'Unione europea in materia di crescita sostenibile, occupazione, competitività e coesione sociale.  
2.  Il presente trattato si applica integralmente alle parti contraenti la cui moneta è l'euro. Esso si applica anche alle altre parti contraenti nella misura e alle condizioni previste all'articolo 14.  (...)

ARTICOLO 3 
1. Le parti contraenti applicano le regole enunciate nel presente paragrafo in aggiunta e fatti 
salvi i loro obblighi ai sensi del diritto dell'Unione europea: 
a) la posizione di bilancio della pubblica amministrazione di una parte contraente è in pareggio o in avanzo; 
b) la regola di cui alla lettera a) si considera rispettata se il saldo strutturale annuo della pubblica amministrazione è pari all'obiettivo di medio termine specifico per il paese, quale definito nel patto di stabilità e crescita rivisto, con il limite inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato. Le parti contraenti assicurano la rapida convergenza verso il loro rispettivo obiettivo di medio termine. Il quadro temporale per tale convergenza sarà proposto dalla Commissione europea tenendo conto dei rischi specifici del paese sul piano della sostenibilità. I progressi verso l'obiettivo di medio termine e il rispetto di tale obiettivo sono valutati globalmente, facendo riferimento al saldo strutturale e analizzando la spesa al netto delle misure discrezionali in materia di entrate, in linea con il patto di stabilità e crescita rivisto; (...)

ARTICOLO 9 
Basandosi sul coordinamento delle politiche economiche, quale definito dal trattato sul funzionamento dell'Unione europea, le parti contraenti si impegnano ad adoperarsi congiuntamente per una politica economica che favorisca il buon funzionamento dell'unione economica e monetaria e la crescita economica mediante una convergenza e una competitività rafforzate. A tal fine le parti contraenti intraprendono le azioni e adottano le misure necessarie in tutti i settori essenziali al buon funzionamento della zona euro, perseguendo gli obiettivi di stimolare la competitività, promuovere l'occupazione, contribuire ulteriormente alla sostenibilità delle finanze pubbliche e rafforzare la stabilità finanziaria (...)

ARTICOLO 11 
Ai fini di una valutazione comparativa delle migliori prassi e adoperandosi per una politica economica più strettamente coordinata, le parti contraenti assicurano di discutere ex ante e, ove appropriato, coordinare tra loro tutte le grandi riforme di politica economica che intendono intraprendere. A tale coordinamento partecipano le istituzioni dell'Unione europea in conformità del diritto dell'Unione europea (...)

Il tema non è più solo la TAV (E.Fiano)

Posto un intervento di Emanuele Fiano, parlamentare e responsabile del Forum nazionale sulla Sicurezza del Partito Democratico. Mi sembra dica cose molto giuste, sottolineo in particolare il passaggio "Il tema non è più solo la Tav, è il concetto stesso di democrazia". 
Di mio aggiungo solo che l'atto di fermare alcuni giornalisti e controllare i documenti è già un pericoloso segnale, quasi una "secessione simbolica", come a dire "su questi territori, la polizia siamo noi". 
Proprio per questo il tema non è più la TAV, ma il monopolio della forza; oggi il tema è il dovere di sancire con nettezza che siamo una comunità politica una e indivisa e che quindi - indipendentemente dalle ragioni dei NoTav - non possiamo tollerare "autodeterminazioni".
Il Governo deve reagire.

Francesco Maria Mariotti


Io oggi ci ho provato, veramente, ho provato a parlare ai ragazzi No Tav che hanno occupato la nostra sede PD a Roma, ho provato a dirgli parliamoci, ho provato a nome del Pd a dire, se siete qui per un incontro, noi siamo disponibili. Certo abbiamo come voi le nostre convinzioni, noi siamo favorevoli alla Tav e voi no, ma anche crediamo nel dialogo, salvo una precondizione assoluta. No alla violenza. Noi gli ho detto, non cederemo a nessun ricatto di chi vuole anteporre la sua opinione, per legittima che sia, alle decisioni assunte in tutti gli ambiti democratici possibili, non cederemo all'idea che ci possa essere un sistema alternativo alla Democrazia rappresentativa, dove cioè il popolo vota, elegge rappresentanti, e poi questi nelle sedi opportune, provincie, regioni o parlamenti che siano prendono le decisioni. La discussione che ho avuto con i No Tav insomma è arrivata al centro del nostro dissenso, il concetto stesso di democrazia, della legge della maggioranza e della minoranza. Ma su questo non ho avuto risposta, sono io che ho fatto domande a loro su questo, sono loro che non potevano rispondere, sono io che ho chiesto quale fosse un sistema alternativo alla sistema della arappresentanza, in che mondo insomma avrebbero in realtà avrebbero voluto vivere, in un mondo in cui decide chi ? Perché ho detto loro, questa volta è la Tav, ma un'altra volta potrebbe essere un caso diverso, per esempio una legge che a voi e anche a noi piace, che so la reintroduzione del reato di falso in bilancio, e allora ? E se in quel caso, una valle, una provincia, un paese, una città si ribellasse, o una parte di essa si ribellasse ? Che fareste voi, ho detto, sareste contenti ? Approvereste ? Accettereste la non applicazione di quella legge per un territorio ? No, io sono sicuro di no. I ragazzi non mi hanno risposto, loro si concentravano su Si Tav/No Tav

Se a questo aggiungo l'aggressione questa sera di un cameraman del Tg3, i blocchi stradali, i numerosi feriti, la lunga scia di feriti tra le forze dell'ordine, che una parte violenta del movimento ha cercato e provocato in questi anni io confermo e fortifico la mia opinione.

Il tema non è più solo la Tav, è il concetto stesso di democrazia. Sul terreno fertile di una difficile situazione economica, di un contesto di rabbia, di una fiducia ormai inesistente nei partiti e nelle istituzioni, si sta innescando ormai da tempo una protesta antagonista di massa, giovane, giovanissima e non solo, e dentro questa la presenza di gruppi, come quelli anarco insurrezionalisti che hanno ormai fatto il salto di scala, verso la scelta della violenza programmatica e strutturale. Ma nessun tipo di simpatia per i movimenti, o di sensibilità ambientalista o anche di antagonismo sociale può permettersi di non capire il pericolo della violenza. La democrazia prevede scelte fatte a maggioranza, la violenza prevede scelte dettate da minoranze.
Democrazia e violenza sono antitetiche, e quando va in crisi o quando si nega la democrazia si apre la strada alla seconda. Tutti devono evitare all'Italia di ricadere in quella spirale di violenza che abbiamo già conosciuto in altri anni, drammatici e inutili.


giovedì 1 marzo 2012

L'Emergenza Non E' Finita

Bene lo spread che scende, ma guai a farsi illusioni. Giustamente Monti oggi usa toni più ottimisti di quelli utilizzati in passato, ma sa benissimo che lo sforzo per rendere realmente l'Italia un paese meno bizantino dovrà durare, per riuscire completamente, molti anni. E deve soprattutto diventare "abitudine" politica - ethos, costume condiviso - l'attenzione ai conti, il rigore contro gli sprechi, il promettere solo ciò che si può mantenere. A ben vedere gli italiani lo sanno, ed è per questo che le voci insistenti di un nuovo reincarico a Monti dopo le le elezioni possono apparire credibili, per quanto "strana" possa essere la cosa: tutti sono consapevoli che il percorso è appena iniziato. 

Anche perché il compito di Monti non è solo "domestico", e al più presto è necessario far vedere che qualcosa cambia in Europa, come da appello sottoscritto insieme ad altri capi di governo. Come ben spiega Adriana Cerretelli sul Sole 24 Ore, l'Europa si regge su un insopportabile doppiopesismo, per cui si è rigoristi contro alcuni paesi, mentre i supposti primi della classe accumulano ritardi di altro tipo, resistendo contro l'apertura di un vero mercato unico. Anche questo sforzo non può essere limitato all'oggi, e non può dipendere - in Italia come in altri Paesi - dal fatto che vinca l'una o l'altra parte politica. 

Guai se eventuali risultati elettorali nazionali dovessero compromettere questo inizio di federazione politica, che in qualche modo - anche se con grandi tentennamenti e contraddizioni - cominciamo a vedere, anche a partire dal "commissariamento" della Grecia, che non deve spaventarci. 

La democrazia sta cambiando, il concetto di sovranità sta radicalmente mutando pelle. 
E' l'emergenza, che non è finita, ma è anche il travaglio che preannuncia qualcosa di nuovo.

Francesco Maria Mariotti

Chi siano i primi della classe dell'euro è noto. Meno noto forse è che quei virtuosi della disciplina di bilancio e campioni del rigorismo più severo, alla prova del mercato unico europeo non solo non brillano per altrettanta diligenza ma accumulano ritardi, infrazioni e derive protezioniste come gli altri e anche peggio degli altri comuni mortali dell'Unione. Poco male se euro e mercato unico non fossero tra loro legati a doppio filo e, con loro, il posto dell'Europa nel mondo globale. di Adriana Cerretelli - Il Sole 24 Ore - leggi su Virtù di bilancio vizi di mercato

Il governo Monti, sulla scia di un'idea maturata in sede europea, intende affidare al rigore fiscale e al libero mercato il compito di garantire la tutela del benessere economico, anzi promette una ripresa. È un'eresia credere che ciò si possa ottenere partendo da una presenza pubblica che assorbe metà del prodotto nazionale lordo, proponendosi di lottare contro l'evasione per dare migliori servizi (lo dice la pubblicità di Palazzo Chigi) e toccando piccoli interessi, dai tassisti ai notai e ai farmacisti.

Per crescere vi è una e una sola via: cedere il patrimonio pubblico per rimborsare il debito pubblico e investire; ogni altra forma peggiora il benessere sociale. L'idea che il mercato, quello che abbiamo, non quello che è descritto nei libri di testo, si possa fare carico dei problemi italiani ed europei è una mistificazione della realtà che ci consegnerà a termine una società peggiore, forse ingovernabile come la Grecia. L'Italia ha di fronte due alternative: ottenere la modifica dell'architettura istituzionale dell'Unione, muovendo verso un sistema di cooperazione civile tra i Paesi membri, oppure accettare che la Germania prenda la guida del Vecchio continente, purché sia disposta ad assumersene la responsabilità politica.(...) 

Contrariamente a molto criticismo superficiale, l’Europa non può essere biasimata per l’imposizione di misure di austerità alla Grecia. Questa è la contropartita necessaria ad un grande sforzo per il sostegno finanziario, e un paese con tali enormi squilibri deve necessariamente essere oggetto di estremo rigore. Invece l’Europa può essere rimproverata per un programma inizialmente in ritardo, mal progettato, non bilanciato ed iniquo. di Jean Pisani-Ferry - Il Sole 24 Ore - leggi su Chi ha perso la Grecia? 


Ma questo è un governo come l’Italia non ne ha mai avuti nella Seconda Repubblica: un governo spesso e forte. Chi vorrà vincere le elezioni e fare parte del prossimo governo dovrà riuscire a essere almeno altrettanto credibile: non basterà agitare le solite parole d’ordine, brandire i simboli storici e rifugiarsi nel copione che conosciamo a memoria, manifestazioni, slogan e manfrine sui giornali. L’asticella si sta spostando verso l’alto. L'asticella, di Francesco Costa, ilPost