domenica 29 gennaio 2012

La Cittadinanza Non Basta (Giovanna Zincone sulla Stampa)

Già in novembre - a partire dalle parole del Capo dello Stato - ho scritto sull'idea di dare la cittadinanza ai figli degli immigrati, esprimendo alcune idee sul fatto che questa giusta proposta andava contemperata alla situazione attuale del paese, costruendo su questa idea un nuovo patto sociale. 
La cittadinanza oggi è un patrimonio da condividere lavorando su un progetto comune
Segnalo in questo senso l'articolo - problematico, ma molto lucido e interessante - di Giovanna Zincone: su questo tema è sconsigliabile muoversi in un'ottica esclusivamente valoriale, ma è necessario valutare i molti fattori che incidono sui processi di integrazione.

Francesco Maria Mariotti

"(...) Ma se non convincono le motivazioni di chi, in materia di cittadinanza, non vuol concedere nulla, suscitano dubbi anche quelle di chi vuol dare tutto e subito. Quest'ultima è la posizione dei promotori del referendum di iniziativa popolare: la loro legge attribuirebbe la cittadinanza ai figli di immigrati che hanno un soggiorno regolare anche solo da un anno. Mi sembra poco per stabilire se quella famiglia con il suo bambino vorrà davvero vivere nel nostro Paese, né mi sembra in grado di far quagliare intorno a sé una maggioranza parlamentare. C'è spazio però per soluzioni bipartisan intermedie, già emerse, che collegano la concessione della cittadinanza a un ragionevole tempo di soggiorno regolare dei genitori o del bambino stesso.


Ho sostenuto prima che facilitare l'accesso alla cittadinanza può aiutare a integrare, pur se non è l'unica determinante. Sono molti i fattori che incidono sui processi di integrazione: l'istruzione, l'apertura del mercato del lavoro, la congiuntura economica. Non sappiamo quale sia il peso specifico della cittadinanza in questo processo, perciò è difficile elaborare in questo campo quella linea di azione che Weber predilige e definisce «razionale allo scopo», cioè orientata a valutare i mezzi e la loro capacità di ottenere risultati. Ma è anche impossibile in questa materia evitare di agire con un orientamento ai valori, un comportamento pubblico in cui Weber, come Sartori, vede a ragione rischi di derive ideologiche.



A mio avviso, però, in certi ambiti la coerenza ai valori è un ingrediente non solo inevitabile, ma salutare, purché la si coniughi con la razionalità strumentale, la ricerca di mezzi adeguati. Dagli orientamenti rispetto alla riforma della cittadinanza in Italia traspaiono valori di fondo, atteggiamenti emotivi distanti: una maggiore simpatia o antipatia per gli immigrati, una maggiore fiducia o sfiducia rispetto a sistemi politici e sociali aperti.



Come suggerisce Weber esplicito i miei valori: confesso di appartenere al secondo gruppo. Ma non dimentichiamo la buona, vecchia, prudente razionalità strumentale. Simpatizzare per gli immigrati, auspicare una società aperta non basta, se non si individuano soluzioni capaci sia di ottenere i consensi politici necessari nell'immediato, sia di funzionare bene per il futuro. Non basta essere puri come colombe se non si è anche astuti come serpenti."


mercoledì 25 gennaio 2012

Cosa sta succedendo in Libia?


Cosa sta succedendo in Libia? Si è già scritto dell'invio a parte degli Stati Uniti di contractor per tentare di gestire la difficile fase di transizione. 
La questione è assai delicata, ma quando si parla di contractor si intende - generalmente - soldati gestiti da imprese private (l'uso del temine mercenari rischia di essere fuorviante), che stipulano accordi con i governi di tipo "outsourcing", relativi a compiti di sicurezza che per vari motivi i governi stessi non possano/vogliano gestire direttamente.

Il timore che accompagna l'azione di queste compagnie - quasi sicuramente già presenti in Libia dai tempi della guerra - è che esse, in quanto non inquadrate negli eserciti regolari, abbiano meno vincoli alle loro azioni e siano meno controllabili.

D'altro canto, dal punto di vista italiano nostri militari (regolari, si badi) addestreranno le forze libiche.  
In questo senso cinicamente potremmo dire che la confusione aiuta un nostro reinserimento nel gioco.

In ogni caso si hanno ulteriori elementi, in questi giorni (si vedano gli articoli proposti qui sotto), per dire che la sciagurata idea di far fuori Gheddafi si sta confermando un drammatico errore.

Occorre ricominciare dai fondamentali: non si abbatte un regime se non si ha la capacità di gestire le fasi successive; non si fa la guerra se non si è capaci di occupare effettivamente il territorio su cui si combatte per tutto il tempo necessario; e, da ultimo: uno stato in piedi - per quanto dittatoriale - è meglio di una guerra civile incontrollata.

Poche cose da tenere a mente, a futura memoria.
Sperando che la "nuova" Libia tenga, e non ci faccia versare lacrime ben più amare del passato.

Francesco Maria Mariotti

(...)Responsabili delle violenze delle ultime settimane sono ex miliziani che fino alla caduta del regime hanno combattuto a Tripoli, Sirte e Misurata contro i lealisti di Gheddafi. Si attendevano una ricompensa per i loro servizi, ma oggi pensano di essere stati messi da parte dai nuovi leader e temono che non troveranno sbocchi professionali per poter vivere dignitosamente. (...) Quel che è certo è che la pacificazione promessa è ancora molto lontana e che la guerra civile, come ha ammesso lo stesso Jalil, è ormai una realtà. 
Un centinaio di militari italiani sbarcheranno in Libia per dare vita all'operazione Cirene, missione di addestramento e consulenza destinata alle forze armate e di sicurezza libiche. Forze la cui consistenza e inquadramento sono al momento solo teorici considerato che decine di milizie che hanno combattuto Gheddafi restano armate e si fronteggiano a Tripoli e in alter località del Paese mentre nella Cirenaica Orientale è segnalata la presenza di una milizia di al-Qaeda forte di almeno 200 miliziani. La nomina del nuovo comandante delle forze armate, il generale in pensione Yousef al-Manqoush , non è stata riconosciuta da molte milizie incluse quelle islamiche e di Zintan e Misurata con il rischio di una guerra civile paventato già più volte dallo stesso Jalil. di Gianandrea Gaiani - Il Sole 24 Ore - leggi su Soldati italiani per addestrare le forze libiche

In Libia non esiste ancora un unico esercito nazionale e il risultato è il perdurare delle bande armate nel Paese. Il Cnt ha già commesso due errori: non ha evitato una giustizia sommaria e non riesce ancora a garantire sicurezza, scrive Arturo Varvelli, ricercatore all'Istituto per gli studi di politica internazionale. Un ulteriore problema è costituito dalla legittimità del governo: che è scarsa all'interno ma compensata da una forte legittimazione esterna. Le elezioni della Costituente di giugno appaiono ora troppo lontane. Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/gli-amici-della-nato-governano-libia-ma-fanno-disastri#ixzz1kU6vcGoE

Vd. Anche 

martedì 24 gennaio 2012

Scommessa per il Futuro



La protesta dei tir che blocca l'Italia sembra confermare paradossalmente che il governo Monti si sta muovendo nella direzione giusta. 

Un paese abituato a gestire diversamente i conflitti si vede sfidato a fare i conti con i propri limiti da un governo consapevole e deciso. 

Non sarà facile, per nessuno di noi. Ed è assolutamente comprensibile che si muovano resistenze profonde, paure inevitabili; non tutte queste proteste sono da giudicarsi come odiose difese corporative, e guai a sottovalutare i costi del cambiamento: le decisioni del governo toccano - pesantemente - la vita di donne e uomini, che meritano ascolto, se pongono le loro ragioni con civiltà.

Il Paese tutto merita però fermezza e rigore, perché la scommessa sul futuro venga vinta.
E questa scommessa - che si sia d'accordo o meno con le singole misure dell'esecutivo - chiamiamola con il suo nome: Politica.

Francesco Maria Mariotti

mercoledì 18 gennaio 2012

Debito, Figlio d'Europa

Alcuni articoli per continuare a riflettere sulla crisi economica - e politica! - che ci sta accompagnando ormai da diversi anni, da alcuni mesi però più intensamente.

Via via che si va avanti, ci si rende conto che ormai una delle mosse necessarie è rompere l'equilibrio costituzionale europeo, permettendo che la BCE garantisca totalmente il debito europeo. 

Forse sono troppo ottimista, ma penso che Mario Draghi e i "tecnici" (veri politici) dell'EuroTower stiano preparando qualche mossa in questo senso: anche l'allarmismo dei giorni scorsi - quasi "fuori tono" rispetto ai suoi soliti standard - sembra rappresentare una pressione fatta sui politici, al fine di riuscire a ottenere la "copertura politica" per mosse straordinarie.

In questo momento - come bene spiegato da uno degli articoli - Draghi gioca più "sottotraccia", ma facendo politica a pieno titolo: politica espansionistica rispetto alle politiche restrittive dei governi.

In ultimo, un articolo molto critico sull'operato del governo di Paolo Savona; buone ragioni, che personalmente non condivido appieno, ma che sono sempre un ottimo stimolo di riflessione

Francesco Maria Mariotti



(...)Ma per chiudere questi buchi, e rendere improbabile tali scenari, e quindi abbassare lo spread l'Europa può fare qualcosa. Se a garanzia di quel debito, ci fosse la tassazione europea allora sarebbe più improbabile che ci trovi davanti al rischio default. Se la Bce riconoscesse quel debito come figlio legittimo della sua moneta, non solo gli spread si abbasserebbero da subito rendendo meno probabile scenari del genere, ma si avrebbe la garanzia ultima che l'Italia non sarebbe da sola. (...) di Pierpaolo Benigno - Il Sole 24 Ore - leggi su Cara Europa, adesso tocca a te
 
Dimezzato il direttorio franco-tedesco e declassato il Fondo europeo salva stati, non c’è tregua borsistica che tenga: la crisi europea, vista dai mercati, è sempre più sistemica e sempre meno legata ai problemi dei singoli paesi. Non a caso, dopo gli ultimi fendenti delle agenzie di rating, aumentano le pressioni degli stati dell’Eurozona per un intervento deciso della Banca centrale europea. L’Istituto centrale presieduto da Mario Draghi – è il ragionamento di un numero crescente di cancellerie nell’Eurozona – è forse l’unica istituzione con la potenza di fuoco necessaria ad abbassare il costo del rifinanziamento del debito pubblico. E a Francoforte la pressione internazionale si comincia a sentire; ieri anche il rigorista Ewald Nowotny, governatore della Banca centrale austriaca e membro del direttorio della Bce, ha aperto a una politica più espansiva: “Stiamo per discutere possibili alternative – ha detto pur precisando di non essere favorevole all’acquisto di bond statali – Si tratta di una discussione che copre tutto lo spettro della politica monetaria”.(...)  AAA, garante dell'euro cercasi
 
(...) Terza affermazione importante: Mario Draghi ribadisce che sarà l'agente del Fondo Salva Stati. Notizia qualificante anche questa. Se egli sarà l'agente del Fondo non farà la banca degli Stati ma realizzerà al meglio le scelte del Fondo di ritirare dal mercato titoli di Stato. Ottimizzando la missione del Fondo e non passando il confine che lo statuto della BCE gli impone: non monetizzare il deficit pubblico sottoscrivendo debiti dello Stato. L'undicesimo comandamento del monetarismo fiscale che piace alla cultura politica tedesca e che quella francese tende ad imitare. Mario Monti cerca compromessi su questo terreno, imponendo il monetarismo fiscale in Italia per ottenere dall'asse franco tedesco una politica monetaria keynesiana ed amica della crescita. Ed ecco la originalità di Mario Draghi: i Governi fanno politiche fiscali restrittive e la banca centrale, vincolata da una filosofia di fondo costruita sui principi del monetarismo fiscale, fa una politica keynesiana ed espansiva.
Cose che capitano e che spiegano come le regole vadano interpretate. Ma che la cosa che conta davvero sia l'etica delle conseguenze nei comportamenti di chi, interpretandole, assume decisioni nel ruolo che ricopre.(...) Mario Draghi indica ma non svela la politica BCE
 
(...) Se avessimo provveduto a rimborsare 250 miliardi di titoli dello Stato cedendo parte del patrimonio pubblico saremmo restati fuori per oltre un anno dallo stress di un rinnovo dell'indebitamento statale in scadenza. Non avremmo capitalizzato l'aumento degli oneri finanziari sul debito e risparmiato una cifra prossima all'aumento delle tasse deciso.
Alcune soluzioni tecniche erano state avanzate, restando inascoltate, da persone mosse dal desiderio di contribuire al bene comune. Non uno dei governi che si sono succeduti ha dato una risposta al perché non si sia provveduto a questa operazione prima di ogni altra forma di intervento deflazionistico e iniquo; considero indegno che si sia inciso sui pensionati e sui redditi da lavoro, oltre che sui risparmi accumulati dopo avere assolto all'obbligo fiscale per tenersi stretto il patrimonio pubblico e lasciare intonse le inefficienze della pubblica amministrazione e gli sprechi della politica.
Si parla tanto di crescita e si chiede al governo di propiziarla, dopo essere stato, con l'Unione europea, membro attivo della sua caduta. Si ripropone invece il tema delle liberalizzazioni. Non è dato sapere ancora quali saranno, ma su un punto gli economisti sono d'accordo: la liberalizzazione di cui necessitiamo per crescere è quella dall'oppressione fiscale e dall'ingerenza illiberale dello Stato sui fatti della nostra vita. Abbiamo invece più tasse e meno libertà.
Dopo essersi impossessato di quasi la metà del reddito nazionale, lo Stato comincia ad aggredire il popolo delle formiche. Un mio maestro di scuola liberista, Karl Brunner, sosteneva che il problema degli squilibri è non averli e, quando li si ha, occorre porre grande cautela nel riassorbirli, perché se si sbaglia nel farlo, si possono causare più danni di quelli che si volevano evitare. Credo che siamo ormai in questa situazione.

domenica 15 gennaio 2012

Ludwig Erhard e l'Economia Sociale di Mercato

Nell'intervista dei giorni scorsi a Die Welt, già qui citata, Mario Monti fa un'affermazione importante: "(...) Deve sapere che io ho sempre lavorato per un’Italia che somigliasse il più possibile alla Germania. Ho sempre voluto un’Europa della concorrenza, che si impegnasse il più possibile per l’idea di un’economia di mercato sociale, che proviene da Ludwig Erhard. Come vede, sento molto il tedesco. Premesso ciò, dico: l'Italia può svolgere e svolgerà un ruolo maggiore in Europa».(...)". Chi è Ludwig Erhard? E cosa si intende per "economia sociale di mercato", formula che qui è stata spesso richiamata e che sembra paradossale, a prima vista (e infatti tendenzialmente non amata dai liberisti "duri e puri")? Di seguito alcuni materiali su cui approfondire queste idee, che possono aiutarci a definire anche per il futuro il campo di azione della nostra politica europea. 

Francesco Maria Mariotti

Ludwig Erhard (1897-1977)

Importante uomo politico della CDU, economista e deciso fautore dell'integrazione della Germania all'interno dell'Occidente liberaldemocratico, Ludwig Erhard è stato uno degli uomini che più hanno contribuito alla rinascita di questo paese. Ministro degli affari economici dal 1949, egli è assurto anche al rango di cancelliere nel periodo 1963-66, riuscendo a tradurre in scelte concrete quel progetto di una "economia sociale di mercato" che - pur garantendo un'ampia protezione alle categorie più deboli - si propose di assicurare lo sviluppo capitalistico della Germania e la crescita del suo sistema produttivo.(Biografia tratta dal sito di Società Libera)



(...) Ad ogni modo, il fallimento editoriale di Mises, la crisi della repubblica di Weimar e l'ascesa del nazionalsocialismo non impedirono la ricerca di una via tedesca al liberalismo da parte di un gruppo di studiosi, i quali, già durante gli anni del regime nazista, si raccolsero intorno alla guida del professor Walter Eucken. Detto gruppo assunse il nome di Scuola di Friburgo e la filosofia che la ispirava venne chiamata "ordoliberalismo", dal titolo della rivista "Ordo", fondata da Eucken nel 1940. Decisamente più critici di Adam Smith rispetto alla fede in una spontanea armonia che sarebbe dovuta scaturire dall'opera della "mano invisibile", gli ordoliberali, anche noti come i fautori della economia sociale di mercato (Soziale Marktwirtschaft), hanno contribuito in modo sostanziale all'evoluzione della teoria economica, ed in particolar modo a quella branca dell'economia che incontra il diritto, e del diritto che incontra l'analisi economica, avendo sostenuto l'idea che il sistema economico per esprimere al meglio le proprie funzioni produttive-allocative dovrebbe operare in conformità con una "costituzione economica" che lo Stato stesso pone in essere. Si tratta di una visione politico-economica che non ha nulla a che vedere con la pianificazione economica centralizzata o con una politica statale interventista. Per il semplice motivo che il ruolo dello Stato nell'economa sociale di mercato non è semplicemente quello di "guardiano notturno", tipico del liberalismo del laisser-faire, bensì è quello di uno "Stato forte" che si preoccupa di contrastare l'assalto contro il funzionamento del mercato da parte dei monopoli e dei cacciatori di rendite.
Tra gli studiosi che contribuirono all'elaborazione e alla diffusione dell'ordoliberalismo possiamo annoverare economisti come Alexander Rüstov e Wilhelm Röpke e giuristi come Hans Grossman-Dörth e Franz Böhm; questi ultimi condirettori insieme ad Eucken della rivista "Ordo".
Potremmo sintetizzare il contenuto della teoria politico-economica ordoliberale nell'affermazione che gli autori della Scuola di Friburgo riconoscevano il ruolo e la funzione dello stato e nel contempo erano strenui avversari di ogni forma di dirigismo. Intendiamo dire che per la teoria ordoliberale il mercato è un sistema di relazioni che necessita di essere organizzato giuridicamente dallo stato e che lo stato non dovrebbe in alcun modo modificare i risultati che provengono dai processi di mercato. In questa prospettiva, gli ordoliberali, nell'ambito delle politiche economiche internazionali, si espressero a favore delle liberalizzazioni degli scambi e, di conseguenza, avversarono tutte quelle politiche creditizie e fiscali che a loro avviso avrebbero potuto incentivare le concentrazioni di capitale. Riguardo alla politica economica interna, si mostrarono estremamente scettici nei confronti dell'interventismo di stato nel campo sociale ed evidenziarono gli effetti deresponsabilizzanti sulla condotta individuale di un atteggiamento paternalistico da parte dello stato.(...)
Il contributo più originale dell'"ordoliberalismo" è stato di aver aggredito le problematiche del mercato concorrenziale a partire da un approccio istituzionale. Gli "ordoliberali" hanno colto l'idea che l'ordine concorrenziale è di per sé un "bene pubblico" e in quanto tale andrebbe tutelato. La scuola di Friburgo ci aiuta a comprendere che esiste una dimensione istituzionale nel paradigma liberale, dimensione negata o, quanto meno, assente in gran parte della letteratura liberale di matrice libertaria, accecata dall'idea che possa esistere un "mercato non intralciato". Il programma di ricerca degli "ordoliberali" ha incentrato l'attenzione sul fatto che l'idea liberale di una società libera è un'idea costituzionale, che necessita di una formalizzazione costituzionale. (...) è opinione diffusa presso gli storici che alla base del cosiddetto "miracolo economico" tedesco ci sia la scelta di Erhard di promuovere, contro il volere delle truppe di occupazione angloamericane, la liberalizzazione dei prezzi. Tra gli autori che hanno maggiormente contribuito all'elaborazione teorica dell'economia sociale di mercato, troviamo indubbiamente Wilhelm Röpke. Con Röpke, secondo la terminologia che fu di Oppenheimer ed in parte di Erhard, la dottrina economico-sociale della Scuola di Friburgo assunse la collocazione di "terza via", tra un liberalismo nella versione del laissez faire e il collettivismo socialista. La "terza via" di Röpke condurrebbe ad un'economia imprenditoriale basata sul "libero mercato" e non sul "mero capitalismo", che, per il nostro autore, si distingue dal libero mercato per la sua tendenza – no necessità – a risolversi in meccanismi anticoncorrenziali, favorendo la nascita di monopoli, di cartelli e l'abuso di posizione dominante. Per questa ragione, il liberalismo di Röpke ammette l'intervento pubblico, a condizione che sia "conforme" alle leggi di mercato, non sopprimendone l'autonomia. Prevede, altresì, una "politica strutturale", in grado di assicurare la conformità del sistema economico con i fini dell'organizzazione sociale e politica.(...)



Economia sociale di mercato: un dibattito acceso (Flavio Felice, benecomune.net, 22/09/2008)
: (...) A tale dibattito si è inserito con una intervista altamente significativa anche il presidente della Bocconi Mario Monti. L’ex Commissario europeo propone l’economia sociale di mercato come una via alla stabilità e al rigore ed esprime il suo rammarico per il fatto che Luigi Einaudi non sia riuscito in Italia lì dove in Germania era riuscito Ludwig Erhard. Afferma Monti: “Oggi, il richiamo all'economia sociale di mercato, in particolare in Italia, dà a volte l'impressione di essere pronunciato con un'ispirazione opposta. Si è un po' insofferenti verso la disciplina imposta dalle regole del bilancio pubblico o da quelle del mercato, e allora si ‘rivendica’, in contrapposizione alla prova non buona data di recente dal modello americano”. A Monti replica Michele Salvati, che, pur perpetuando la tesi in merito alla distinzione teorica tra il modello capitalistico europeo e quello americano, concorda con Monti che “‘Socialità’ alla Ludwig Ehrard vuol dire che, nel pieno rispetto del mercato e della concorrenza, e con politiche fiscali universalistiche, i ceti più deboli devono essere protetti dalle peggiori avversità del ciclo economico”. Concludiamo questa rapida rassegna sull’economia sociale di mercato, riportando la lucida osservazione di Francesco Forte, il quale ci mette in guardia da possibili “pasticci” e propone un’interpretazione einaudiana della suddetta teoria. Forte intende sottolineare che “Molti di coloro che si pronunciano a favore dell’economia sociale di mercato non usano questo termine nel senso di Röpke o Einaudi, ma si riferiscono a una socialità che corregge il sistema di concorrenza”. Secondo la più autentica tradizione dell’economia sociale di mercato, il principio di concorrenza è assunto come principio ermeneutico, lo strumento mediante il quale raggiungere obiettivi di socialità. Non si tratta di temperare la concorrenza, di mitigarla con interventi perentori che orientino l’economia nazionale ed internazionale nella direzione voluta dal “grande timoniere”. Al contrario, uno “stato forte” è quello che vigila affinché nessuno possa violare le regole della concorrenza e che interviene momentaneamente e in via sussidiaria con “interventi conformi al mercato”, tentando di “l’adeguamento” alle nuove circostanze, per tentare di “assestare” le istituzioni vittime di crisi congiunturali, senza pretendere di “conservare” aziende orami incapaci di vivere autonomamente sul mercato.(...)


venerdì 13 gennaio 2012

Politica e Mercati, La Tensione Deve Continuare


Regolamentare eccessivamente i mercati o mettere in qualche modo (come?) sotto controllo le agenzie di rating sono ipotesi di lavoro non necessariamente efficaci, anche se sono indicatrici di un bisogno di stabilità e di sicurezza che la politica deve far riacquistare alla collettività: in questo senso il braccio di ferro fra mercati e politica deve mantenersi "in tensione"

Certo, se continuasse per troppo tempo l'incertezza delle valutazioni finanziarie, e l'Europa non si risollevasse, sarebbero probabili reazioni inquietanti, di stampo nazionalista. E si tenterebbe di mettere in scena lo scenario opposto: il controllo della politica sui mercati, impresa da una parte impossibile, dall'altra molto pericolosa, per la libertà e la crescita economica nostre e delle future generazioni.

Siamo ancora lontani dal trovare il "giusto equilibrio" di questa tensione (anche per il semplice fatto che tale "equilibrio ideale" non esiste), ma non dobbiamo spaventarci per quello che vediamo in azione oggi. 

L'Europa è in marcia; se non demorderà dal suo percorso di integrazione, se non abbandonerà nessuno dei suoi paesi al suo destino, e se lancerà agli Stati Uniti prima e poi alla stessa Cina, la sfida di una effettiva governance sui temi globali; ebbene, non ci sarà rating che tenga.

Francesco Maria Mariotti

giovedì 12 gennaio 2012

La Musica è Cambiata, in Europa


La musica è cambiata, in Europa: l'azione diplomatica di Monti, che ha smesso decisamente i panni dello scolaretto che gli si volevano attribuire, ha determinato l'inizio di un processo che - sia pure difficilissimo - può portare ad avere un'Unione più forte, realmente consapevole - anche facendo tesoro degli errori commessi - della posta in palio: l'Europa non è più solo un direttorio franco-tedesco; ora anche noi possiamo giocare il nostro ruolo pienamente.

Di seguito l'intervista di Monti a Die Welt, un brano tratto dall'ultimo libro di Carlo Azeglio Ciampi, un'intervista al ministro Terzi di Sant'Agata, e altre riflessioni.

Francesco Maria Mariotti

(...) Sono convinto che i rischi per il mio Governo non vengano dall’Italia».

Da dove dunque? 
Dall’Europa


Oplà. Pensavo che i problemi dell’Italia fossero made in Italy.
«Quanto proponiamo e chiediamo agli italiani sono pesanti sacrifici. Sono necessari per avviare le riforme che conducono a una nuova e maggiore crescita. Per questo sono necessarie le liberalizzazioni del mercato del lavoro che richiederanno i sacrifici di molti cittadini. Gli italiani, come indicano i sondaggi, lo hanno chiaramente accettato. Il problema è però che l’Unione Europea, malgrado questi sacrifici, non ci viene incontro, in termini di una riduzione del tasso di interesse. I sacrifici fatti dagli italiani pagheranno in tre, cinque, dieci anni, per i nostri figli. E purtroppo constatiamo che questa politica in Europa non gode del riconoscimento e apprezzamento che le spetta obiettivamente. Se gli italiani nel prossimo futuro non vedranno i risultati della loro disponibilità per le riforme e il risparmio, sorgerà –come già si profila - una protesta contro l’Europa e anche contro la Germania quale promotore dell’intolleranza Ue, e contro la Banca Centrale. Chiedo agli italiani sacrifici onerosi – ma li posso chiedere se si profilano dei vantaggi».


Questi vantaggi potrebbero farsi attendere. Il Suo Governo è in una posizione difficile: è condannato al successo, gli italiani lo vogliono. Se però Lei avrà successo sarà molto doloroso a causa di tali sacrifici. 
«Non vedrei nessun successo del mio Governo nel fatto che gli italiani accettino la necessità di sacrifici. Attaccheremo gli albi, le corporazioni il mercato del lavoro incrostato. Ma lo posso vendere ai cittadini, che ne soffriranno, se porta a una nuova crescita. Ma non posso avere successo con la mia politica se non cambia la politica dell’Unione Europea. E se non succede, l’Italia – che è sempre stata molto filoeuropea – potrebbe rifugiarsi nelle braccia dei populisti».

Oggi l’Ue è condotta dall’asse Berlino-Parigi. Dal punto di vista dei rapporti di potere, è bene che sia così? Oppure deve cambiare qualcosa in questo dominio germano-gallico? 
«La buona cooperazione del tandem franco-tedesco, che oggi è un tandem tedesco-francese, è un presupposto necessario per il futuro dell’Europa. Ma questo non basta, tanto meno in un’Europa dei 27. Credo che questo lo sappiano anche a Berlino e a Parigi. Credo che tutta l’Europa benefici dell’armonia tedesco-francese».
 
Da cui il resto dell’Europa è escluso. Questo dovrebbe essere un buon equilibrio? 
«Se Germania e Francia svolgessero un ruolo di impulso, allora andrebbe anche bene, perché in tal caso ne beneficerebbe l’intera Europa. Allora però, come in passato, entrambi i paesi dovrebbero comportarsi in modo da coinvolgere e non da escludere altri Stati. Il rischio è che si verifichi proprio la seconda ipotesi. Certamente, i due Stati che guidano l’Europa non dovrebbero essere troppo autoritari. Infatti, qual è stato il peggior errore nell’UE negli ultimi dieci anni? Era il 2003 quando Germania e Francia non rispettarono i criteri di Maastricht: è stato un errore enorme! Quindi, i due paesi non dovrebbero scandalizzarsi più di tanto. Pertanto ho ritenuto positivo il fatto di ricevere l’invito da parte della signora Merkel e del signor Sarkozy a partecipare ad un nuovo dialogo sistematico. Un’Europa bipolare sarebbe in realtà una cattiva Europa. I due farebbero un grave errore se pensassero di poter dominare da soli l’Europa. L’Europa deve avere più centri. E l’Italia è uno di questi».


Ma devo essere più chiaro: l'Italia vuole e deve tornare ad essere un attore centrale nell’Ue? 
«In effetti è quello che vogliamo. E ritengo che molti in Europa siano dell’opinione che l’Italia oggi in Europa non svolga il ruolo che le spetta veramente. Siamo un paese forte e orgoglioso, ed abbiamo un’economia essenzialmente efficiente. Abbiamo sempre avuto un rapporto di rispetto reciproco con la signora Merkel, ho sempre avuto un rapporto straordinario con il suo Ministro delle finanze Schäuble. Deve sapere che io ho sempre lavorato per un’Italia che somigliasse il più possibile alla Germania. Ho sempre voluto un’Europa della concorrenza, che si impegnasse il più possibile per l’idea di un’economia di mercato sociale, che proviene da Ludwig Erhard. Come vede, sento molto il tedesco. Premesso ciò, dico: l'Italia può svolgere e svolgerà un ruolo maggiore in Europa».


Lei ha detto di pretendere dalla grande Germania maggior rispetto di fronte alle istituzioni dell’Ue. Cosa intende dire? 
«Prendiamo l’esempio del famoso incontro di Deauville tra la signora Merkel e il signor Sarkozy. Sicuramente è stato creativo. Ma ciò che è stato discusso in quell'occasione non è stato assolutamente applicato conformemente alle regole dell'Ue. È stata un’azione individualista e non coerente. Di fondamentale importanza per l’Europa è l’assoluto rispetto delle regole. E ciò vale in particolare proprio per i Paesi più forti. Se i Paesi più forti violano le regole – come ha fatto la Germania nel 2003 – poi non ci si può aspettare che gli altri le rispettino. I Paesi più forti hanno una grande responsabilità. In Europa non l’hanno sempre rispettata fino ad ora. E questo lo rivendicheremo». (...)

In Italia, come in Germania, i cittadini hanno creduto per lungo tempo nell’Europa unita, poiché si contrapponeva chiaramente con il periodo delle guerre e delle distruzioni che li precedeva. Ai giovani questo non basta più come giustificazione dell’Ue. L’Europa ha bisogno di una nuova lettura? 
«Sì. Non può più essere solo una questione di guerra e pace, anche se io ritengo che senza il processo di riunificazione europea non sarebbe stato possibile escludere conflitti e guerre. Oggi si tratta soprattutto di questioni relative all'identità e al benessere. Per essere chiari: l’Unione europea è l’unica risposta pensabile e solida ai problemi che pone la globalizzazione. Non esiste un Paese in Europa che sarebbe in grado di gestire le sfide della globalizzazione da solo – nemmeno la Germania».


Come giudica il ruolo della Germania in Europa? Cosa pensa della Germania? 
«Amo molto la Germania. Soprattutto per le sue enormi conquiste, per la sua economia di mercato sociale. È un modello straordinario. La Germania lo ha sviluppato e poi lo ha esportato in Europa, e questo in tre tappe: i Trattati di Roma del 1957, il Trattato di Maastricht e poi il Trattato di Lisbona. La Germania è il paese che ha dato di più all’Europa – cioè un modello di società funzionante e ben equilibrato». (...)


La mancata realizzazione di questo "centro di governo" ha determinato quella che fin dall'inizio ho denunciato come una zoppìa del sistema, una asimmetria istituzionale che nei dieci anni trascorsi dall'introduzione dell'euro non si è stati capaci di rimuovere: la separatezza tra politica monetaria e politica fiscale. La Banca centrale europea non svolge un ruolo di prestatore di ultima istanza perché non ha dietro di sé uno Stato, ma diciassette Stati con altrettanti debiti pubblici. Di conseguenza non deve sorprendere che i contribuenti dei Paesi con i conti in ordine siano restii a mostrarsi solidali nei confronti dei Paesi con alti livelli di debito pubblico, in nome di un interesse comune. Lo stesso Delors ha recentemente voluto ricordare che le attuali difficoltà dell'euro dipendono da un "vizio di costruzione del sistema",
di Carlo Azeglio Ciampi - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/ki8NB


(...) In questi giorni sono in molti a suggerire alla Germania di imparare dalla propria storia. Ad aprire la strada ad Adolf Hitler non fu l’iperinflazione del 1923 che distrusse i risparmi della classe media; fu l’austerità di massa del 1930-32, salari tagliati e posti di lavoro cancellati. Perlopiù i tedeschi tendono a vedere la seconda come conseguenza della prima e di fattori esterni al loro Paese. Solo pochi, come il novantenne ex cancelliere Helmut Schmidt, incitano a riflettere meglio.

Non è facile rimontare la china della sfiducia, se ancora molti in Germania (circa metà di quelli che hanno risposto ieri a un sondaggio online del Financial Times Deutschland ) e molti nel mondo sono convinti che «nemmeno Monti riuscirà a salvare l’Italia». Ed è purtroppo possibile che il fatidico spread sui titoli a 10 anni resti ancora a lungo sugli attuali livelli. Ma più la tensione si manterrà, più l’Italia rischia di infossarsi in una recessione grave, con possibili ondate di reazione populista.

Per scampare ai pericoli occorre non solo fare per tempo le mosse giuste, ma farle nella sequenza giusta, come ha detto qualche settimana fa Mario Draghi. L’annuncio della Merkel sul maggiore contributo tedesco al Fondo di salvataggio europeo consente un minimo di speranza; si tratta tuttavia di un progresso lento, ancora nella logica di cui sopra.(...)


(...) È netta infatti l'impressione che dopo tanti tentennamenti (e forse sulla scia della frenata tedesca nell'ultimo trimestre) proprio a Berlino, con l'incontro Merkel-Monti, si sia aperta, di fatto, la strada per uno nuovo patto europeo a favore della crescita. Il che significherebbe, per l'Europa, una svolta di eccezionale portata, al di là della ritrovata credibilità dell'Italia. Il nostro Paese, ha potuto così dire Monti, non è più «fonte d'infezione» per l'Europa ma è parte integrante, assieme a Germania e Francia, del motore pro-sviluppo. E proprio Germania, Francia e Italia, nell'incontro triangolare in calendario per il 20 di gennaio a Roma, potrebbero suggellare questo nuovo orizzonte in vista della stesura definitiva del nuovo "patto fiscale" che dovrà entrare in vigore il primo marzo. (...)


(...) Appunto, non è semplice: ci riusciremo?
«L’Italia è protagonista in questo negoziato. In questo momento, in vista dell’incontro a Roma con Merkel e Sarkozy, il punto è la solidarietà europea. Io l’ho avvertita nell’incontro con Alain Juppé, il presidente Monti l’ha ricevuta dalla Cancelliera Merkel a Berlino. Ora, quella solidarietà deve diventare consapevolezza e concretizzarsi nel fiscal compact e con la disponibilità dei fondi che verranno autorizzati dall’European Stability Mechanism e diventare la risposta che l’Europa dà all’andamento dei mercati, il cosiddetto «fire wall». In altre parole, l’Europa ha bisogno dell’Italia, ed è essenziale che la risposta dei partner europei sia omogenea, che ci venga incontro nella stessa direzione».

Monti, ricevuti i pubblici elogi da Merkel, ha detto di aspettarsi tassi di interesse più bassi. Un modo per accennare al tema della crescita. A che punto è il negoziato sul nuovo Trattato?
«I lavori a livello tecnico procedono speditamente, e si concluderanno per il Consiglio del 30 gennaio. Non abbiamo particolari problemi per quanto riguarda la regola del pareggio di bilancio, condividiamo in questo l’impostazione tedesca e la seguiamo, rassicurando i mercati. Il punto per noi più delicato è quello relativo al ritmo di riduzione del debito pubblico. L’obiettivo di abbattere di 1/20 all’anno la parte eccedente il 60 per cento di debito in rapporto al Pil già esiste, ma se si interpreta la norma in modo solo meccanico e rigido non tarderebbero a prodursi effetti recessivi molto pesanti. Si rischierebbe di morire di risanamento, il che non è interesse di nessuno, in Europa. Poi c’è un’esigenza di equilibrio tra disciplina fiscale e crescita, ed equilibrio tra disciplina fiscale e solidi meccanismi di stabilizzazione. Abbiamo alleati su questo: la Francia, e la Germania che sta assumendo un approccio realistico. La convocazione di un Consiglio europeo a fine gennaio dedicato a crescita ed occupazione conforta le nostre posizioni».

(...) Ministro, superata la crisi dell’eurozona, l’Europa si impegnerà a trovare ulteriore coesione? L’Italia continuerà a giocare da protagonista, o passata la bufera tutto tornerà all’ordinaria, burocratica, amministrazione?
«Dopo una maggiore integrazione nelle politiche di bilancio, credo si debba aprire il capitolo della politica di sicurezza e di difesa. La strategia attuale risale al 2008. L’Italia è all’origine di un’azione che a dicembre ha portato alla creazione di un centro di pianificazione operativo a Bruxelles, sebbene limitato specificamente alle operazioni per il Corno d’Africa, e senza con questo duplicare la Nato. E’ un punto di partenza: occorre andare avanti, costruire. L’Europa ha bisogno di una politica di sicurezza e di difesa comune, in chiave di complementarietà con la Nato. Ed è un salto di qualità necessario anche per il programma di diplomazia multilaterale dell’aministrazione Obama. Dobbiamo, noi europei, assumerci sempre maggiori responsabilità, dobbiamo avere una politica di difesa comune ed arrivare ad essere, per gli Stati Uniti, partner paritari anche nella sicurezza».


(...) Le politiche anticrisi tedesche non si sono limitate a una cura dimagrante della spesa pubblica, ma hanno incluso un intervento diretto, ed efficace almeno in termini quantitativi, dello stato nel mercato del lavoro. Un pacchetto di provvedimenti introdotti a partire dal 2003 dal governo rosso-verde di Gerhard Schröder – molto contestati sia all'epoca sia oggi perchè considerati iniqui – si è rivelato specialmente adatto a contenere due fattori recessivi con cui diversi governi hanno fatto i conti negli ultimi anni: la spinta ai licenziamenti e l'aumento delle prestazioni sociali da erogare.
Le riforme, rafforzate negli anni successivi dalla “grande coalizione” CDU-SPD, prevedono da un lato l'esenzione del pagamento dei contributi per chi assume lavoratori part-time a basso salario e generosi sconti fiscali per chi vuole proporsi come piccolo imprenditore a basso reddito. Dall'altro, un deciso taglio dei sussidi di disoccupazione, accompagnato da un inflessibile meccanismo sanzionatorio per chi non rispetta i tempi o non accetta lavori “ragionevoli” anche a salario più basso del precedente. Il tutto sotto il controllo di un'agenzia pubblica, che si occupa anche di mettere in contatto l'offerta e la domanda di lavoro.
Il miglioramento del bilancio conseguito in tal modo (e irrobustito da un aumento dell'IVA di tre punti nel 2007) ha permesso al governo di intervenire in misura leggera su capitoli importanti di spesa pubblica come sanità e istruzione. La tenuta dei consumi interni ha consentito alle aziende di tornare a investire e ad assumere, potendo anche approfittare della contemporanea debolezza dei concorrenti, con risultati eccezionali sul piano delle esportazioni nei mercati meno esposti alla congiuntura.
Insieme a quello della disoccupazione, il dato del deficit – tornato ai livelli pre-crisi – colloca la Germania in una situazione più felice di quella che stanno vivendo le economie inglese e americana. Queste infatti, nonostante i livelli di crescita positivi, sono alle prese con un tasso di disoccupazione pressochè raddoppiato e un deficit di bilancio alle stelle rispetto a quattro anni fa. I tagli alla spesa sociale e l'assottigliamento della classe media che ne sono conseguiti hanno provocato negli Stati Uniti e nel Regno Unito, secondo molti analisti, un aumento delle diseguaglianze molto maggiore di quello riscontrato in Germania nello stesso periodo, con un analogo riflesso sulla conflittualità sociale.(...)

Dopo la visita del presidente francese Nikolas Sarkozy del 9 gennaio, l'11 è toccato a Mario Monti recarsi a Berlino per discutere con Angela Merkel. Il premier ha ottenuto il sostegno della cancelliera e un ammorbidimento della posizione tedesca.

lunedì 9 gennaio 2012

Guerra Non di Missili, Ma di Monete (da ilFoglio)


(...) Lo spread tra il tasso di strada e il tasso ufficiale è la reazione dell’economia reale dell’Iran alla legge firmata sabato dal presidente americano, Barack Obama, che punisce le transazioni con la Banca centrale di Teheran. Le nuove sanzioni entreranno in vigore tra 60 giorni e l’applicazione più stretta comincerà tra sei mesi: in sostanza mettono tutti – anche le Banche centrali dei governi – davanti a una scelta definitiva: chi fa affari con la Banca centrale iraniana non può più fare affari con gli Stati Uniti (che hanno un mercato da cui nessuno vuole chiudersi fuori). Il presidente Obama si è concesso una clausola che gli consente permessi temporanei da 120 giorni per ragioni di interesse nazionale o per salvaguardare la stabilità del mercato energetico, e una seconda clausola esclude le sanzioni contro paesi che abbiano già tagliato gli affari con l’Iran

Si tratta di misure già imposte alle imprese americane, ma ora l’Amministrazione spera di essere seguita anche dai paesi europei, per renderle più efficaci. Considerato che dalla Banca centrale dell’Iran, la Banca Markazi, passa il denaro pagato dai governi e dagli acquirenti stranieri per onorare i contratti petroliferi e che quel denaro è l’80 per cento dei proventi del governo, è come se Washington stesse per bloccare lo Stretto di Hormuz economico degli iraniani, non in mare ma negli uffici del Mirdamad Boulevard nella capitale. 

Le sanzioni fanno parte del National Defense Authorization Act, un pacchetto di leggi contro il terrorismo, ma rischiano di avere riflessi importanti sul mercato del petrolio e di conseguenza anche sull’economia mondiale(...)
 

(...) Il governatore Mahmoud Bahmani ha gettato agli acquirenti iraniani 200 milioni di dollari in un giorno per fermare la svalutazione, il governo ha dato pubbliche rassicurazioni sul fatto che la moneta si è ripresa il 20 per cento del suo valore. L’economia reale però non mente e se la settimana scorsa nei negozi della capitale si poteva trovare l’iPhone 4 da 16 giga della Apple per 9.400.000 rial, due giorni fa il prezzo è salito a 14.500.000 rial (il prezzo vero è rimasto invariato, attorno ai 650 dollari americani). Gli iraniani perdono fiducia nella moneta nazionale e tentano di liberarsi del capitale in rial e di passare ad altri asset, come il dollaro americano o persino, in mancanza di meglio, l’acciaio, che tende a conservare meglio il suo valore in confronto al soldo. 

Così, mentre i lanci dell’agenzia di stato Fars dicono che “una portaerei americana scappa dal Golfo inseguita da unità navali dell’Iran”, i cambiavaluta nella capitale alzano sulla porta il cartello “chiuso” oppure lavorano a mezzo servizio con l’ordine di non vendere dollari alla gente che già si organizza in lunghe file. “Supremazia”, così il regime ha chiamato i dieci giorni di esercitazioni navali nello Stretto di Hormuz per mostrare i muscoli alla Quinta flotta degli Stati Uniti nel Golfo, si conclude con il divieto materiale fatto agli iraniani di comprare dollari americani(...)
 

"Finalmente siamo di nuovo al centro del ring" (Pierferdinando Casini)


(...) Prima Sarkozy, a breve la Merkel: come giudica la missione europea di Monti?
«Finalmente siamo di nuovo al centro del ring. L’Italia è sempre stata un Paese fondamentale per gli equilibri europei, e oggi torna ad essere indispensabile. La fase è delicatissima, ma è importante che ci sia chi, come Monti, parla del nostro Paese dicendo ciò che va detto anche a Francia e Germania. Abbiamo fatto i compiti a casa, adesso tutti devono farli. Intendo dire che anche la Merkel deve porsi il problema. Comprendo le motivazioni del suo pressing perché ci sia una presa di coscienza e si cambi passo: ma una volta provocato l’elettroshock, se la Germania non è lesta rischia di finire anche lei sotto le macerie dell’Europa».


Cosa vede sul tavolo, in vista del consiglio europeo di fine gennaio?
«Alcune incongruenze ormai sono evidenti e vanno affrontate subito. Prima fra tutte il ruolo della Bce: non possiamo pensare che agisca come la Federal reserve, però deve avere la possibilità di muoversi con maggior snellezza e fluidità. Ma penso anche alla riduzione della quota di debito per i Paesi che superano il 60 per cento del rapporto debito/Pii, e alla possibilità di defalcare gli investimenti strutturali dal calcolo del deficit rispetto al Pil. Questioni che ormai riguardano tutti. Per tornare a Monti, ciò che ha fatto ci rende fiduciosi: a partire dalla manovra, che è stata anche la precondizione per avere voce in capitolo in Europa. Questa era la strada, altro che chiedere alla Germania – come si è fatto l’estate scorsa – l’emissione degli Eurobond. Perché non basta chiedere: bisogna costruire le condizioni per dare alla Merkel la possibilità di spiegare alla sua opinione pubblica che sono indispensabili».


In poche settimane l’atteggiamento della Francia è cambiato, pensa che cambierà anche quello della Germania?
«Non lo so. La Francia rischia, il loro non è stato un atto di filantropia, ma di intelligenza. Lo stesso dovrebbe fare anche la Merkel. Ma voglio avere fiducia, spero che sin qui abbia fatto un calcolo azzardato ma lucido».(...)
 

domenica 8 gennaio 2012

A Testa Alta, per l'Italia e per l'Europa

Mario Monti finalmente smette i panni (che non sono mai stati suoi, per la verità) dello "scolaro" che deve fare "i compiti a casa", e riesce a parlare un linguaggio che non teme di alzare la voce - sia pure a suo modo - con gli alleati europei. 

Troppo spesso l'Europa ha dato la sensazione di essere un luogo dove noi dovevamo fare bene le cose, mentre altri difendevano più spudoratamente i loro interessi. 

Ora, grazie all'azione di questo governo, possiamo cominciare a giocare un ruolo più consono alla nostra dignità nazionale, per il bene nostro e dell'Europa tutta, patria nuova da (ri)costruire assieme.

Di seguito l'intervista di Monti al sole24Ore, quella a Le Figaro, l'intervista di Corrado Passera al Corriere della Sera, e alcune critiche di Vincenzo Visco sulla lotta all'evasione fiscale.

Francesco Maria Mariotti


Tocca all'Europa, quindi, non per allentare gli sforzi interni, ma per rafforzarli, per aiutare i singoli Paesi, a cominciare dall'Italia, a proseguire il proprio lavoro. Monti non lo dirà mai prima di sedersi al tavolo con Angela Merkel, ma è questo evidentemente il ragionamento che porterà avanti nei suoi colloqui, nella convinzione di poter superare così i timori tedeschi che l'iniziativa europea possa di fatto indurre i Paesi a rischio ad alleggerire i propri sforzi.
Ma quali sono le priorità dell'Europa? Cosa si aspetta l'Italia da Bruxelles per favorire l'auspicato abbassamento dei tassi (...)

L'Europe peut-elle avoir encore peur de l'Italie au moment où la Grèce et Espagne connaissent de nouvelles difficultés?
L'Europe n'a plus aucune raison d'avoir peur de l'Italie. Nous disposons d'une matière première très rare en Europe, un consensus de fond de l'opinion publique en faveur de l'intégration européenne. J'ai été commissaire européen pendant dix ans. Le président de la République italienne est un Européen très convaincu. Nous avons mis l'Europe au cœur de nos préoccupations. Centrant notre action sur le respect des contraintes européennes que Silvio Berlusconi s'est trouvé obligé d'accepter dans une situation d'urgence, y compris le retour à l'équilibre budgétaire en 2013 que nous avons traduit en mesures concrètes. Aucune crainte donc. Les Italiens ont accepté avec un flegme presque britannique les mesures très lourdes qui leur étaient imposées. Ils ont fait preuve d'un sens des responsabilités admirable. Ne faisant que trois heures de grève. Ils ont compris que les contraintes européennes sont imposées pour les générations futures. Tous les analystes conviennent que l'Italie a fait son devoir.

Quelle contribution attendez-vous de l'Europe?
Au Conseil européen des 5 et 6 décembre à Bruxelles, je me suis battu pour que le Fonds de soutien aux dettes souveraines (le FESF) soit mis en œuvre rapidement et renforcé substantiellement. Son niveau actuel reste très insatisfaisant. Pour l'instant, l'Italie reste victime d'un risque «zone euro». Il faut éliminer ce risque. On m'a surnommé le plus allemand des économistes italiens. Mais comment faire une politique européenne de croissance sans enfreindre les politiques budgétaires de rigueur? Je suis intimement convaincu que l'Europe tout entière peut trouver des avantages considérables en termes de croissance dans une intégration réelle plus poussée. Les pays de l'eurozone se sont concentrés sur l'union monétaire en délaissant l'union économique. Cela impliquerait de créer un véritable marché ouvert, étendu à tous les secteurs. Souvent les pays de la zone euro sont moins avancés que ceux qui n'ont pas adopté la monnaie unique comme le Royaume-Uni, le Danemark et la Suède. (...)


(...) E’ un’offensiva diplomatica che nessuno ricordava. «L’Europa non deve più aver paura dell’Italia» è il messaggio con cui Monti, in un’intervista a "Le Figaro", anticipa lo scambio di vedute che avrà domani a Parigi col presidente Nicolas Sarkozy, il quale poi volerà alla cancelleria federale lunedì per vedere Frau Merkel, due giorni prima del premier italiano faccia lo stesso. Il francese e la tedesca saranno poi ospiti a Roma a metà mese, ripetendo il formato a tre del 24 novembre a Strasburgo. Il 18 sarà una giornata londinese per il Professore, ricevuto del conservatore David Cameron, per un secondo tempo del match aperto a Bruxelles la notte dell’8 dicembre, quando tentò di convincere l’inglese euroscettico a non mettere i bastoni sulle ruote del rafforzamento dell’Eurozona. Confronto cruciale. Rispetto a Sarkozy, confessa il premier, «io sono più convinto che si debba associare alla costruzione europea anche i Paesi che non sono dell’euro, in particolare il Regno Unito».

Nulla è affidato al caso. Monti è consapevole che la "fase due" del piano SalvaItalia - quello della crescita avrà le polveri bagnate se in Europa non si tesserà un accordo sul coordinamento delle politiche di bilancio e una strategia per sviluppo e lavoro, basate sul rafforzamento del mercato interno. (....)



«L'Europa non riesce a decidere con visione e pragmatismo, i mercati valutano che l'Europa non ce la faccia, quindi scommettono contro; e i Paesi con un debito più alto soffrono di più. O l'Europa decide di darsi gli strumenti che qualsiasi moneta ha, vale a dire una Banca centrale in grado di garantire la liquidità e la stabilità, oppure non ci sarà crescita, e non ci sarà occupazione. La Germania è il Paese che ha avuto maggiori vantaggi dall'euro. Sono certo che svolgerà il ruolo che le compete di Paese leader, non di Paese che spacca l'Europa. L'Europa deve avere il coraggio di dire al mondo che garantisce se stessa. Altrimenti, con questi tassi di interesse, crescere è quasi impossibile».


Allora, come si fa la «vera» lotta all’evasione?

«Primo, bisogna creare le condizioni per avere una tracciabilità effettiva, non come quella prevista nella manovra Monti: la possibilità di conoscere quello che accade nell’economia. Tracciamo gli stipendi dei lavoratori dipendenti, devono essere tracciati anche gli altri redditi. Nel 2006-2008 la questione del contante l’avevo affrontata in modo del tutto diverso: la stragrande maggioranza delle transazioni sono sotto i 1000 euro. Per i pagamenti ai professionisti avevamo stabilito che sopra i 100 euro non si potessero usare i contanti. Secondo, ripristinare il fondamentale elenco clienti e fornitori, abolito da Tremonti e non reintrodotto da Monti. Terzo, la trasmissione telematica dei corrispettivi dei negozi al Fisco. Insomma, bisogna far capire alla gente che può essere controllata, e convincerla spontaneamente a comportamenti corretti».

mercoledì 4 gennaio 2012

L'Europa Cambi, O Sarà Orbán il Nostro Futuro

Il problema di Orbán non è risolvibile solo con eventuali sanzioni, o dure trattative economiche che facciano recedere questa sorta di "piccolo dittatore democratico" che regna su Budapest. 

La sfida che dobbiamo raccogliere non è solo reagire, ma costruire una comunità politica che sia realmente capace di  vincere le tentazioni di chiusura e neo-nazionalismo, che sono forti in frangenti storici come quello che stiamo vivendo.

Per questo non può bastare l'Europa del rigore, pur necessaria; valga per la nostra Unione quel che si diceva per  l'Italia: se i cittadini percepiscono i sacrifici come "imposti" dall'esterno, e per di più un esterno "irriconoscibile" e "indiscutibile", la coesione sociale sarà messa in crisi. Allora Orbán non sarà più un'eccezione, nel panorama del continente.

L'Europa deve cambiare passo, se vuole essere percepita non solo come "esaminatrice di conti", ma come effettiva garanzia di libertà, pace, prosperità. Non possiamo avere paura dei debiti sovrani e sottovalutare la paura della povertà, che è la vera protagonista della politica oggi: sacrifici devono trovare riscontro in un nuovo orizzonte di sviluppo e di crescita. 

E' ora di realizzare compiutamente la promessa europea: allora sì, sarà sconfitto Orbán.

Francesco Maria Mariotti



(...) La borghesia era stato il motore dell’Europa moderna, ovunque. Anche in Ungheria. Ma con un problema. Lungo il Danubio, la borghesia, dopo secoli di guerre e dominazioni straniere, era nata in ritardo. E nonostante gli splendori della Belle Époque, era fragilissima.
(...) L’economia di mercato introdotta da un giorno all’altro nell’89 ha ridato ossigeno alla classe media. Ma non è bastato. Il fiorino cagionevole ha presto spento i sogni di benessere, di rinascita, di prosperità a livelli occidentali, liberando il campo alle paure e agli orgogli nei quali l’Ungheria è vissuta per secoli, incuneata tra Occidente e Oriente. I valori della democrazia, del pluralismo, del dialogo, della diversità, sembrano superflui e accantonabili nella vita quotidiana dove è faticoso fare la spesa e pagare le bollette. Torna la tentazione del ripiegarsi su se stessi, appigliandosi all’idea di una Grande Ungheria, magari con un pizzico di ottuso vittimismo, per ciò che è successo nel corso della Storia, dalle guerre col turco, all’invasione sovietica, al trattato di pace di Trianon voluto dalla Francia che tolse alla fine della Grande Guerra due terzi del Paese.
Nei momenti di difficoltà, per antico morbo, l’Ungheria più che sentirsi parte del continente rimarca la sua fiera alterità suicida, corroborata da quella lingua dolce e altaica che nessuno in Europa capisce. Quando Orbán ha sfidato la comunità internazionale con la nuova costituzione, «Nessuno può sindacare su quel che facciamo», parlava anche in questo spirito. Le riforme, la modernità, il mercato, possono attendere. Meglio affidarsi a miti imprecisi di purezza, di sacralità della terra (che può essere comprata con quattro fiorini dagli stranieri della globalizzazione), di uomini forti al comando. Ancora una volta la classe media è stata stritolata, dalla farragine dello Stato e dall’inflazione. Ancora una volta torna la tentazione non di sconfiggere gli avversari politici, ma di cancellarli, processarli, zittirli. Ma per non perdere di nuovo i cugini ungheresi dalla famiglia europea, bisogna capire perché si sono ammalati.
(...) Il problema è sapere qual’è la posizione delle forze di opposizione di sinistra e/o liberali nei confronti delle pressioni provenienti dall'estero (occidente e grandi potenze). La risposta non è facile. Da un certo punto di vista la distruzione delle istituzioni democratiche potrebbe giustificare, visto il potere schiacciante della destra antidemocratica, l'intervento occidentale in favore della democrazia. 
Tuttavia le potenze occidentali e in particolare modo la Commissione europea, oltre a voler conservare un regime di tipo rappresentativo e costituzionale e la separazione dei poteri, vogliono che l'Ungheria adotti una politica economica che non faccia necessariamente (per utilizzare un eufemismo) gli interessi del popolo magiaro. 
Gli ungheresi sono deluso e potrebbero vedere nella "causa democratica" solo una giustificazione delle misure di rigore sempre più dure provenienti dalle potenze occidentali, preoccupate della stabilità finanziaria del paese. Se la difesa delle istituzioni democratiche continuerà a essere accompagnata dall’impoverimento del popolo ungherese, non ci si deve stupire che questo non sia entusiasta dell’equazione democrazia liberale-miseria. 
La maggior parte delle critiche occidentali nei confronti del governo sono giuste, ma non sono espresse dal corpo elettorale ungherese. I cittadini ungheresi non possono delegare alle potenze occidentali la politica del loro paese. Vincolare la democrazia a mezzi antidemocratici esterni è ingiustificabile, e l'esperienza mostra che queste soluzioni non sono efficaci. (...)

(...)L’Unione europea si trova in una situazione delicata nei confronti di questo piccolo paese diventato membro dell’Ue da sette anni: non può restare indifferente ai metodi di governo di Orbán, agli attacchi al pluralismo dei media e alle minacce all’indipendenza dell’apparato giudiziario, e nel 2010 aveva già protestato in modo energico. Alla fine di dicembre il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso ha inviato a Orbán una lettera – la seconda in due settimane – per metterlo in guardia dai rischi della sua politica. Tale avvertimento non pare però aver sortito l’effetto sperato, non più dell’analoga lettera spedita da Hillary Clinton. All’Ue resta ancora la possibilità di ricorrere all’articolo 7 del trattato di Lisbona, che prevede di togliere il diritto di voto agli stati membri che violano le regole democratiche.
Non è facile, in ogni caso, punire un governo democraticamente eletto, e il precedente dell’Austria ha lasciato un amaro ricordo a Bruxelles: nel 2000 l’Unione aveva reagito duramente all’ingresso nel governo di un partito di estrema destra, ma aveva rinunciato a intervenire una volta preso atto dell’inefficacia delle sue proteste. La mobilitazione dell’opposizione ungherese, della società civile e degli intellettuali è un segnale importante che legittima le pressioni esercitate dall’Ue, che ambisce a essere una comunità dai valori democratici condivisi.(...)