giovedì 13 settembre 2012

La Morte di un Ambasciatore, la Guerra Mai Finita


Non c'è da discutere sulla presunta qualità di un film. la discussione non dovrebbe avere luogo. La violenza cui assistiamo in queste ore è inaccettabile, comunque si giudichi la discutibile opera da cui - secondo alcuni - sarebbe nata questa violenza. Parlare del film significa non voler vedere che c'è ancora  - e non è mai cessata, anche se le mani possono essere differenti, le menti che progettano di nazioni diverse - una guerra che alcuni fanatici hanno dichiarato a noi, noi inteso come Occidente, come spazio politico che permette la dissacrazione, l'ironia, la la libertà di parola anche quando appare eccessiva (con tutte le contraddizioni e le incoerenze con cui gestiamo questa libertà). Ma non è solo questo, ed è meglio laicizzare anche il nostro discorso politico, perché non dobbiamo reagire a una presunta "guerra santa" con una nostra "guerra santa laica": dobbiamo però vedere con lucidità che in Africa ci sono le nuove basi di quella rete particolare del terrore, di quel network plurimo che è AlQaeda che sembra assumere nuove forme, innestandosi in nuove crisi; e che abbiamo probabilmente con troppa facilità aiutato rivoluzioni senza vedere (eravamo in pochi a ricordarlo) che "bombardare dall'alto" non può bastare se non c'è l'orizzonte di fondo e la volontà politica  - e le possibilità economiche e finanziarie - di scommettere sul lungo periodo, radicandosi - come intelligence, come economia, come militari, come tutto - in quei paesi, influenzandoli quotidianamente e imbastendo quei silenziosi e lunghissimi percorsi di transizione che difficilmente si possono risolvere nella morte di un dittatore e in riti elettorali svolti in "libertà", anche se c'è necessità di quei simboli e di quei riti. Non è possibile accettare la violenza di oggi, non è possibile che Europa e Stati Uniti perdurino in un atteggiamento che guarda a soluzioni facili, e non pensa a percorsi più lunghi. Si può anche combattere Gheddafi (o altro dittatore) accettando il rischio dell'integralismo, ma poi quell'integralismo lo devi continuare a combattere. La guerra non si poteva risolvere, non può risolversi, non si potrà mai risolvere in un "bombardamento dall'alto". La guerra è brutta e lunga, e bisogna saperla fare. Se dobbiamo tornare a vederla vicino a noi, prepariamoci a un lungo percorso nella penombra della morte. Può darsi che sia necessario, ma dobbiamo esserne pienamente consapevoli.

Francesco Maria Mariotti


Era il Primo maggio. E quello è stato il giorno in cui ho visto per l'ultima volta Chris Stevens, un diplomatico esperto e un amico. Abbiamo parlato a lungo della sua nomina ad ambasciatore in Libia, Paese che conosceva e amava. E con il suo stile per nulla formale, da californiano vero, aveva toccato un tema rimasto un po' sotto traccia ma sentito. Quello dell'infiltrazione dei militanti islamisti. «Dicono che arrivino anche dall'estero», aveva affermato. Non era la violazione di un segreto bensì la conferma di notizie pubbliche che rimbalzavano dal Nord Africa. Ma Chris Stevens, pur consapevole dei rischi, non sembrava preoccupato più di tanto. Era abituato ai posti difficili, sapeva cosa fosse il Medio Oriente, conosceva la terribile favola della rana e dello scorpione. Quella dove quest'ultimo uccide la prima dopo che lo ha aiutato ad attraversare il fiume.(...)



Il boomerang sta nel fatto che quanto avvenuto martedì sembra smentire la strategia con cui Obama ha sostenuto la «Primavera araba»: l’intervento militare voluto per salvare Bengasi dalla repressione di Muammar Gheddafi ha gettato la stessa città nella braccia dei salafiti alleati di Al Qaeda così come la scelta di obbligare l’alleato egiziano Hosni Mubarak alle dimissioni ha consentito ai jihadisti di issare le loro bandiere nere sul pennone dell’ambasciata Usa al Cairo, dopo aver ammainato e umiliato la «Old Glory». Convinto di poter creare una nuova stagione di dialogo con i partiti islamici che guidano le transizioni post-dittatori in NordAfrica, Obama si trova alle prese con il colpo di coda dei jihadisti: sfruttare la perdurante instabilità per tentare di ricreare nelle sabbie del Sahara la piattaforma terrorista perduta sulle montagne afghane e pakistane a seguito dell’intervento della Nato.


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