venerdì 30 dicembre 2011

Il caso Orbán, Minaccia per l'Europa

Dobbiamo tornare a guardare ad est con molta preoccupazione. Le ultime notizie sull'Ungheria di  Orbán ci inducono a riflettere sui rischi - per tutta l'Europa - che la crisi economica e sociale possa diventare - di nuovo, come negli anni '30 del secolo scorso? - una minaccia per le basi democratiche della nostra convivenza. Minaccia e dunque sfida per una comunità europea che deve riflettere sul senso della propria esistenza, al di là delle questioni - pur fondamentali - di bilancio pubblico. 

Siamo cresciuti e ci siamo organizzati come europei - dopo la seconda guerra mondiale - proprio perché non tornassero più gli spettri dell'intolleranza e di regimi illiberali. Forse questa sfida può portarci a essere più forti, se saremo capaci di combattere. Ora. Subito.

Francesco Maria Mariotti

Ma da dove viene? E, soprattutto, dove vuole (o può) arrivare? Prima di diventare il leader più autoritario (e ansiogeno) d'Europa, l'ungherese Viktor Orbán, 48 anni, è stato un oppositore del regime comunista, si è laureato in legge (con tanto di stage a Oxford), ha professato idee social-liberali, ha fatto il parlamentare europeo fino a ricoprire la carica di vicepresidente del Ppe. Dieci anni fa, quando guidò per la prima volta il governo, Orbán si preoccupava di tagliare le tasse, ridurre la disoccupazione e guidare il suo Paese all'appuntamento con l'Europa. Ora, tornato al potere nell'aprile del 2010, farnetica sul ritorno della Grande Ungheria (ma forse si accontenterebbe anche del formato medio uscito dopo la Prima guerra mondiale). Intanto minaccia di ridurre la Banca centrale a semplice «ufficio bolli» dell'esecutivo, di soffocare definitivamente giornali e televisioni non graditi, di varare una grottesca legge elettorale che favorirebbe in modo smaccato il Fidesz, «l'Alleanza dei giovani democratici», il partito fondato nel marzo del 1988 dall'Orbán che il mondo sta imparando a conoscere.(...)




I negoziati sono durati poco. Il 16 dicembre il Fondo monetario internazionale e l'Unione europea hanno deciso di sospendere i colloqui con Budapest sull'eventuale aiuto finanziario all'Ungheria. Le due istituzioni sono infatti convinte che la riforma della Banca nazionale ungherese presentata dal governo di Viktor Orbán minacci l'indipendenza dell'istituzione. Secondo il progetto di legge il governo e il parlamento, dove il partito di Orbán può contare sui 2/3 dei seggi, potranno nominare alcuni dirigenti della banca.
Secondo Népszabadság questo nuovo episodio dimostra che "l'Unione comincia già a rinunciare al dialogo con il regime di Orbán: perché finanziare un sistema autoritario, antidemocratico e antieuropeo? Il problema è che la delegazione è partita, ma noi restiamo. Sull'orlo dell'abisso".(...)
(...) Un altro testo legislativo prevede la fusione tra banca centrale e autorità di vigilanza dei mercati, che potrebbe diluire i poteri del governatore. Il 1° gennaio poi entreranno in vigore modifiche alla Costituzione che secondo molti osservatori comportano una riduzione delle libertà fondamentali. Vi sono stati cambiamenti alle leggi che regolano la stampa e le attività religiose, così come riduzioni ai poteri della magistratura.
Il braccio di ferro che il primo ministro Orban ha deciso di avere con le autorità comunitarie sorprende. (...)

Libia e Iran: La Posta In Gioco

La Libia torna al centro dell'attenzione di tutti. La scelta del governo di transizione di ridiscutere i contratti con l'Eni (o forse alcune "implicazioni sociali", come parrebbe da una nota dell'azienda) non può certo sorprenderci, soprattutto alla luce delle tensioni che si sono riaperte (non si sono mai chiuse, in realtà) sul "fronte" iraniano. Invitando a leggere alcuni articoli di approfondimento, faccio solo due riflessioni personali: 

(1) in Libia la sciagurata guerra di liberazione da Gheddafi ha creato una situazione di instabilità che non si è affatto risolta (si veda per esempio la "piccola" notizia della recente chiusura delle frontiere - oggi riaperte - fra Tunisia e Libia): la visita di Leon Panetta è il segno di una grande preoccupazione rispetto alle possibilità di riprendere effettivamente il controllo del Paese e gli Stati Uniti - si badi bene, attraverso contractor - tentano di collaborare, ben consapevoli che una crisi sul Mar mediterraneo sarebbe letale per tutta l'area.

(2) Sperando di non essere smentito dai fatti che accadranno nei prossimi giorni, la mia impressione è che il braccio di ferro sullo Stretto di Hormuz sia una nuova "onda" di tensione che non passerà ai fatti, salvo "perdita di controllo" da parte di uno degli attori; che arrivi una portaerei USA in quella zona non deve necessariamente preoccuparci: come si vede da una notizia che riporto più sotto, già da tempo quel tratto di mare è "sotto sorveglianza", ed è già da sempre in stato di "pre-allarme". Eventuali raid - di cui spesso si parla, in particolare per quanto riguarda possibili piani di attacco israeliani - non saranno preannunciati da "tensioni" o "dichiarazioni": verranno eventualmente (speriamo di no) messi in atto  senza ultimatum. Al momento, il blocco dello stretto non sembra convenire neanche a Teheran, ma probabilmente oltre al fattore esterno conta nelle decisioni iraniane un fattore di battaglia politica interna.

Francesco Maria Mariotti


Più dei temi finanziari, gli incontri di Panetta con il ministro della Difesa, Osama Jouili e il premier Abdel Rahim al-Keib sono stati incentrati sulla difficile situazione della sicurezza nel Paese nordafricano che, a due mesi dalla morte di Gheddafi, sembra sprofondato nel caos con oltre 125mila miliziani ancora armati divisi in una settantina di eserciti tribali.
Solo nell'ultima settimana si sono verificati scontri tra milizie rivali in diverse aree del Paese, protagonisti soprattutto i miliziani di Zintan che hanno occupato l'aeroporto militare Mitiga, vicino a Tripoli, e continuano a tenere prigioniero Saif al-Islam, il secondogenito di Gheddafi catturato nel Sud il 19 novembre e mai consegnato al Consiglio nazionale di transizione.


Ecco perché Tripoli vuole rivedere i contratti con l'Italia perché si è resa conto di avere un margine negoziale maggiore in un contesto internazionale che sta diventando sempre più incandescente, soprattutto dopo le minacce iraniane di bloccare lo stretto di Hormuz.
Gli Stati Uniti premono con forza per le sanzioni petrolifere agli ayatollah: Teheran dipende dal petrolio in maniera determinante. Il paese mediorientale ha incassato entrate petrolifere per 73 miliardi di dollari nel solo 2010, pari all'80% di tutto il suo export e a metà delle entrate dell'erario.


Un portavoce della compagnia italiana ha precisato che i contratti che il nuovo governo libico ha intenzione di rivedere non hanno nulla a che fare con il petrolio o con il gas naturale, ma si tratta di iniziative in materia sociale. «Non abbiamo dettagli - ha detto - ma potrebbe trattarsi della costruzione di infrastrutture, come un ospedale o una palestra: in ogni caso attività complementari a scopo non di lucro». Non sembrano a rischio, quindi, i sostanziosi contratti petroliferi Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/LWDaW 

L’Iran è pronto a bloccare lo Stretto di Hormuz, che collega il Golfo Persico all’Oceano Indiano, se gli Stati Uniti e parte dell’Occidente imporranno nuove sanzioni economiche. Certo, privare il mondo dei 15,5 milioni di barili al giorni di Hormuz sarebbe catastrofico, in un periodo di crisi come quello attuale. Ma in realtà oggi il mondo si può permettere di rinunciare al petrolio iraniano (circa 2,4 milioni di barili al giorno), vista l’entrata in produzione dell’Iraq e il rapido ritorno libico. Insomma  Teheran sta vedendo sciogliersi la propria posizione geostrategica. 




(notizia del 2006, nota FMM) 
Un sottomarino nucleare statunitense si è scontrato con una petroliera giapponese nel Mar Arabico. Da entrambe le imbarcazioni non sono stati segnalati nè feriti nè danni di rilievo, secondo quanto riferito stamani a Tokyo dal ministero degli Esteri nipponico.

In base alle prime ricostruzioni, le due imbarcazioni si sono scontrate attorno alle 4:15 ora del Giappone (le 20:15 di ieri in Italia) nella zona dello stretto di Hormuz, nel Golfo, dove si è verificata una collisione tra la prua del sommergibile americano e la poppa della nave nipponica. Le cause dell'incidente restano ancora ignote.(...)

giovedì 29 dicembre 2011

Quando cambiano gli equilibri del mondo

Come ha ben visto il ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, la recente decisione di Cina e Giappone di rinunciare al dollaro per le transazioni fra i due paesi è una specie di allarme che non rigurda solo gli Stati Uniti. L'Europa è chiamata a fare la sua parte in un mondo che si sta riorganizzando, ci piaccia o no. 
E' quanto mai necessario - anche per mettere a punto una reale e duratura "soluzione" (se è possibile parlare di una soluzione, forse dovremmo dire un "tentativo di governo"...) della crisi economico-finanziaria - prendere atto del potere della Cina e "costringerla" a definire insieme a Europa e Stati Uniti una agenda complessiva che riguardi tutti i temi globali (non solo economici) oggi in campo: a partire dalla fluttuazione delle monete (da controllare in una sorta di "Serpente monetario globale"), per arrivare a temi come la concorrenza (dove è sempre più probabile il ritorno di un clima protezionistico, che almeno sul breve periodo potrebbe temperare le economie e permettere il riavvio di una domanda interna ai vari continenti), e definendo anche standard comuni per ambiente e lavoro. 
Un tavolo comune - che avrà anche inevitabili risvolti più direttamente politici, come si è già detto in passato - da "convocare" al più presto.

Francesco Maria Mariotti

(...) non c' è dubbio che l' intesa è piena di simbolismi destinati a rafforzare l' immagine di un' Asia sempre più autonoma e con una forte capacità d' attrazione. Accordi che, al di là delle ragioni tecnico-economiche che li hanno ispirati - ragioni che hanno un loro fondamento oggettivo - entro pochi anni potrebbero anche innescare nuovi processi di tipo politico. In sé la scelta di utilizzare di più yen e yuan nelle transazioni tra i due Paesi risponde all' esigenza di contenere i rischi sui cambi, ridimensionando il ruolo della valuta - il dollaro - che negli ultimi anni si è dimostrata più debole e instabile e archiviando la possibilità di ricorrere maggiormente a un euro che negli ultimi mesi ha perso credibilità e valore. Anche l' intenzione di Tokio di investire di più in titoli cinesi risponde a una ragionevole strategia di diversificazione del rischio: il Giappone, secondo solo alla Cina per l' imponenza delle sue riserve valutarie (1.300 miliardi di dollari, mentre Pechino ne ha per ben 3.200 miliardi), sta, infatti, registrando grosse perdite sui suoi massicci investimenti denominati nella valuta Usa. In questo Cina e Giappone, storiche nemiche sul campo, registrano una crescente convergenza d' interessi in campo commerciale e finanziario. Una convergenza che ha reso possibile un' intesa tra due Paesi comunque divisi da dispute territoriali (isole contese del Pacifico), che faticano a tenere a bada opinioni pubbliche attratte più dal falò dei contrapposti nazionalismi che dalle ragioni del dialogo. Proprio per questo l' accordo ha preso di sorpresa molti osservatori. E ora, davanti a una Cina che ha messo a segno un altro colpo sulla strada del riconoscimento del ruolo internazionale dello yuan, ci si chiede quanto peserà, nel lungo periodo, questo processo. (...)


(...) L'11 dicembre 2011 la Cina ha celebrato il primo decennale di adesione alla World Trade Organization; pochi giorni prima, al G20 di Cannes, il premier cinese aveva annunciato una politica di free market per l'export proveniente dai paesi più poveri del mondo. Si tratta di eventi e determinazioni che, insieme con le recenti misure neoprotezioniste verso gli Usa, mostrano che la Cina, attraverso diverse strategie, intende assumere un ruolo preminente di leadership sulla scena mondiale. 

mercoledì 28 dicembre 2011

Lo Stretto di Hormuz


Ai tempi dello shah, prima della caduta dei Pahlavi nel 1979, l'Iran era il gendarme del Golfo e la fedele sentinella dell'Occidente nello Stretto di Hormuz, un braccio di mare largo 30 chilometri: nel 1973 Teheran, per evitare sorprese agli approvvigionamenti mondiali di petrolio, mandò persino un agguerrito corpo di spedizione in Oman per stroncare una ribellione di ispirazione maoista. Da 32 anni la repubblica islamica vuole essere riconosciuta come la potenza egemone del Golfo e insieme ai programmi nucleari può agitare lo spauracchio della chiusura dello Stretto: (...)


(...)Un parlamentare della commissione per la Sicurezza nazionale, Zohreh Elahian, lunedì aveva detto anche lui che “Le manovre della marina nel Golfo persico e nel mare dell’Oman dimostrano la potenza e la supremazia dell’Iran sulle acque della regione” e “i media occidentali ammettono che siamo in grado di chiudere lo Stretto di Hormuz, se fossimo costretti”. La minaccia era arrivata esplicitamente già a luglio da parte del comandante delle Guardie rivoluzionarie dell’Iran, Mohammad Ali Jafari, e ancora prima a febbraio da Ali Fadavi, capo delle forze navali delle Guardie rivoluzionarie (il grosso della marina è finito da tempo sotto il controllo dei pasdaran, il resto ha compiti residuali, da Guardia costiera).
La maggior parte del greggio esportato da Arabia Saudita, Iran, Emirati arabi uniti, Kuwait e Iraq – assieme a tutto il gas naturale del Qatar – passa attraverso il tratto largo meno di otto chilometri davanti alle coste iraniane. Gli Emirati, per aggirare il rischio di un blocco, hanno appena terminato la costruzione di un oleodotto che può saltare lo strettoia marina con un milione e mezzo di barili al giorno, la metà della sua produzione.
L’Iran teme l’arrivo nel 2012 di un nuovo round di sanzioni internazionali contro le sue esportazioni di petrolio, per colpa del programma atomico che le Nazioni Unite hanno definito “anche militare” e che il paese non ha intenzione di fermare. Per ora il progressivo accumularsi di misure internazionali ha colpito l’economia iraniana con durezza, ma le risorse naturali – gas e greggio – hanno evitato che fossero “crippling”, storpianti, come chiede il governo israeliano, e hanno protetto il regime. Il viceministro per il Petrolio, Ahmad Qalebani, ha anzi appena annunciato 17 nuovi contratti con partner anche stranieri prima della fine dell’anno iraniano (il 21 marzo 2012) per sfruttare nuovi giacimenti. Ma se le sanzioni investissero l’esportazione di greggio la pressione potrebbe essere insostenibile. (...)


martedì 27 dicembre 2011

Giappone-India un asse per la nuova Asia (da LaStampa)

(...) La sicurezza ha preso il primo posto nell'agenda regionale non solo in risposta all’ascesa della Cina, ma anche perché l'America e l'Occidente lasceranno una falla nel sistema di sicurezza asiatico quando ritireranno le loro truppe dall'Afghanistan, senza prima averlo pacificato. Forse ancora di maggiore importanza per la sicurezza a lungo termine, il rapporto Usa-Pakistan continua a peggiorare, mentre le relazioni dell’Iran con l'Occidente vanno di male in peggio, segnate da ultimo dall'invasione da parte della folla dell'ambasciata britannica a Teheran nel novembre scorso.

Poco a poco, iniziativa dopo iniziativa, molti dei poteri della regione stanno agendo per creare un quadro coerente di cooperazione allo scopo di migliorare la loro sicurezza. Per esempio, il governo laburista australiano ha accettato di vendere uranio naturale all’India, invertendo una politica in vigore fin da quando l’India aveva sviluppato il suo arsenale nucleare. Quasi contemporaneamente, il presidente americano Barack Obama ha annunciato lo stazionamento di marines americani nel Nord dell'Australia. Nessuno ha esplicitamente collegato le due mosse, ma sono probabilmente correlate strategicamente, dal momento che l'Australia mira a promuovere i suoi legami sia con gli Stati Uniti sia con l’altro gigante asiatico, l’India.

India e Stati Uniti hanno inoltre intensificato i loro rapporti strategici con il Giappone, non solo a livello bilaterale, ma anche in un’inedita versione trilaterale, che secondo il vicesegretario di Stato William Burns potrebbe «rimodellare il sistema internazionale». Burns, come gran parte dell’establishment americano che si occupa di politica estera, ora pensa che l'influenza regionale dell'India sia diventata globale; la sua strategia del «Guardare a Est», annunciata all'inizio di quest'anno, viene tradotta in politiche di «Azioni a Est».(...)

venerdì 23 dicembre 2011

Un'Europa più Forte

La giusta azione di risanamento portata avanti da Mario Monti e dal suo governo ci permette - per usare le parole del Presidente del Consiglio - di stare in Europa a testa alta. 

Ora è assolutamente necessario, per evitare che l'Europa deragli in una spirale di eccessiva austerità e poca crescita, che l'Italia proponga con forza misure nuove per far ripartire tutta l'economia del continente. E' sotto attacco l'intera costruzione economica europea: continuare semplicemente a fare i contabili con i debiti pubblici dei singoli paesi, senza un salto di qualità che dia a tutti i cittadini europei la percezione di "riprendere in mano il proprio destino" sarebbe un errore grave. 

Anche perché a livello mondiale gli altri giganti (Cina e USA in primis) mettono in atto le loro strategie senza problemi, con il rischio che noi europei si rimanga i cantori isolati di un libero mercato, che è in realtà anche un'arena politico - istituzionale - monetaria, dove gli Stati giocano un ruolo non secondario

Il rischio - se non si creano i presupposti per un'Europa più forte - è che il quadro fosco che si preannuncia per il 2012 crei un rigetto nei confronti del libero mercato, e dell'integrazione europea, facendoci rivivere incubi nazionalisti. 

Possiamo scegliere nuove strade, e dobbiamo farlo. Presto.

Francesco Maria Mariotti


(...) Non è più tempo di ripensamenti, ma di decisioni e queste non possono se non essere che la Bce provveda a svolgere pienamente la funzione di lender of last resort (prestatore di ultima istanza, ndr) e l'Ue metta a punto gli eurobond per rilevare i titoli acquistati dalla Bce e negoziare con i Paesi la ristrutturazione del debito, garantendone il rimborso. L'Italia deve pretendere che il giusto momento di serietà che ci viene richiesto sia bilanciato da un altrettanto giusto momento di verità sul futuro dell'Unione. Cedere una larga dose di sovranità fiscale senza questa contropartita sarebbe un secondo grave errore politico.
Agli inizi degli anni Novanta l'Italia ha vissuto un periodo in cui i timori di insolvenza del debito pubblico erano crescenti, con i tassi dell'interesse sui Btp che superavano il doppio di quelli attuali. Il Paese mostrò di sapere fronteggiare la pericolosa situazione, ma aveva il diretto controllo del cambio e della creazione monetaria.
Il costo fu l'inflazione, che innestava però un circolo vizioso con il cambio e il costo del danaro, in atto dalla tempesta dei prezzi petroliferi. Fu questa esperienza che spinse l'Italia a ricercare il vincolo esterno dell'euro. Quello che ha operato prima dell'euro non è certamente un meccanismo socialmente accettabile, ma ha almeno il pregio che gli italiani erano direttamente responsabili delle scelte del loro governo e non, come oggi, delle esitazioni e dei rifiuti dell'Ue, mischiando colpe ad alibi.
Una caduta del reddito e dell'occupazione ottenuta aumentando la pressione fiscale – anche se fosse distribuita equamente, sulla qual cosa lo scetticismo è storicamente dovuto – non risolverebbe il problema dei danni che subirebbe il bilancio pubblico e i bilanci delle imprese e delle famiglie, dato che uno spread così elevato si va trasmettendo all'economia privata, mettendo in difficoltà il mercato del credito. Se anche mostrassimo il coraggio di imporre una deflazione senza perdere il controllo della stabilità sociale – la qualcosa appare problematica – non è pensabile che il mercato riduca questo spread a valori inferiori a quelli che si vanno delineando in Europa, per esempio in Francia. Se non si mette in sicurezza l'euro seguendo una strada simile a quella qui indicata, ogni nostro sacrificio non avrebbe successo, in quanto sotto attacco è l'intera costruzione economica europea. (...)

giovedì 22 dicembre 2011

MEGLIO OPERE UTILI CHE GRANDI OPERE (laVoce.info)

(...) Cosa si potrebbe fare per accentuare il carattere anticiclico della spesa? Ovviamente, opere rapidamente cantierabili, piccole e che mirano a risolvere i problemi locali. Tra l’altro, la letteratura internazionale mostra che anche dal punto di vista funzionale le manutenzioni e le piccole opere “mirate” tendono ad avere redditività economica più elevata, contenuti anticiclici a parte.(...)Le considerazioni finali del governatore Mario Draghi a maggio 2011 e una corposa ricerca della Banca d’Italia dell’aprile 2011 hanno messo in luce come la totale assenza di una prassi di valutazione economica, trasparente, comparativa e “terza”, sia uno dei fattori della scarsa funzionalità della politica infrastrutturale dell’Italia. D’altronde, le politiche anticicliche richiedono necessariamente tempi brevi di attuazione, mentre le “grandi opere” hanno tempi molto lunghi di avvio, di realizzazione e di messa in servizio. E l’apertura immediata e “incauta” di molti cantieri per opere su cui sussistono dubbi funzionali, e anche incertezze sui fondi per portarle a termine, può dar luogo a notevoli sprechi di risorse scarse.(...)


MEGLIO OPERE UTILI CHE GRANDI OPERE (di Marco ponti, da lavoce.info)

mercoledì 21 dicembre 2011

Per Crescere Non Bisogna Arroccarsi (da LaStampa)


L'editoriale di Stefano Lepri apparso oggi mi pare svolga considerazioni ampiamente condivisibili: il grassetto (mio) sottolinea alcuni punti che dovremmo tenere in conto nella discussione - partita malissimo - su riforma del lavoro e articolo 18. Aggiungo altri due link: le riflessioni di Cesare Damiano sul modello danese, e una video-intervista a Pietro Ichino.

Francesco Maria 

(...) Occorrono cambiamenti profondi. Gli imprenditori dovrebbero riconoscere che una buona parte del ristagno di produttività, dopo anni di moderazione salariale, dipende da loro; oltretutto i licenziamenti, secondo l’indice Epl dell’Ocse, non sono da noi più difficili che in Germania o in Francia. I sindacati dovrebbero ammettere di non saper proporre nulla di valido per i giovani. Davvero, nella Cisl come nella Cgil, si pensa che i precari possano essere sedotti dallo slogan «un’ora di lavoro a termine pagata quanto un’ora di lavoro fisso»?


Da una parte occorre affrontare il problema dei giovani: e i sindacati devono spiegare per quali esatti motivi non gradiscono il contratto di lavoro unico che il governo Monti sta studiando, e che a molti giovani appare attraente. Per incentivarli alla sincerità, la questione dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori andrebbe momentaneamente separata. La tutela contro i licenziamenti nelle aziende sopra i 15 addetti non costituisce né un freno alla produttività né un freno alla crescita dimensionale delle imprese (lo provano i dati Istat, scrutinati a fondo dalla Banca d’Italia: nessun anomalo affollamento di imprese sotto quella soglia).


Se la materia licenziamenti va rivista, è casomai per un altro motivo. L’economia italiana deve affrontare una massiccia ristrutturazione dei processi produttivi. Sarà purtroppo necessario ridurre l’occupazione in molte aziende; un gran numero di persone dovrà spostarsi da un lavoro a un altro. Innanzitutto servirà una indennità di disoccupazione robusta ed estesa a tutti, ed è da qui che la discussione deve cominciare. Inoltre occorre dare credibili speranze che l’economia si rimetta in moto, generando posti di lavoro altrove per sostituire quelli distrutti: un pacchetto massiccio di liberalizzazioni in ogni settore darebbe il contributo migliore.(...)


Vedi anche: 


lunedì 19 dicembre 2011

La Morte di Vaclav Havel - I Ricordi di Magris e Bettiza

(...)Non è un caso che la Praga magica e bislacca abbia portato al potere non un intellettuale infarcito di ideologia, bensì un poeta nato piuttosto per la stravaganza delle compagnie scioperate. Ma un poeta libero da ogni culto narcisista della letteratura, un uomo che è stato capace di sacrificare la libertà personale ed anche il lavoro letterario a valori umani più alti e al bene del proprio Paese. In questo senso, l'Occidente intellettuale ha molto da imparare da una Mitteleuropa umana prima che politica e culturale, di cui Havel è un figlio esemplare. Assumendo la responsabilità di rappresentare il suo Paese finalmente libero dal regime, Havel ne ha assunto, non senza fatica, tutto il peso di tante cose a lui ostiche: l'ufficialità rappresentativa, il necessario grigiore amministrativo e burocratico, tutta la prosa quotidiana così invisa a chi vorrebbe vivere in poesia. Non ha civettato con la «immaginazione al potere» cara a tanti libertari occidentali pronti a manifestare, ma senza pagare dazio. Sapeva che, in politica, l'autentica immaginazione consiste nella parziale, noiosa, creativa ricerca del bene comune e non nelle pose eclatanti.(...)


(...) Il futuro primo presidente non comunista della repubblica, all’epoca destinato alle sbarre del carcere più che ai lustri del potere, aveva fissato con maestria, nella sua pièce, il clima d’irrealtà programmata in cui boccheggiava il più civile dei Paesi centroeuropei sotto il tallone veterostalinista di Antonin Novotny. Si usava dire a quei tempi che la «democrazia popolare» di marca sovietica stava al socialismo come il bordello all’amore: i giornali di regime decantavano la felicità del vivere con la stessa enfasi sovreccitata con cui le prostitute fingono il piacere e l’orgasmo. Proprio quel linguaggio falsificato, quell’arnese di truffa ideologica, quella specie di mercimonio paradisiaco sublimato dalla semantica ufficiale doveva diventare l’oggetto centrale della satira haveliana. È importante sottolineare oggi questo dato di dissidenza, insieme etica e linguistica, perché lì era la matrice originaria dell’avversione di Havel alla grande menzogna, avversione che darà al suo anticomunismo un tratto speciale, colto, ironico, libertario e dissacrante. (...)

domenica 18 dicembre 2011

Riforma del lavoro? Sì, ma l'Europa deve Crescere


A proposito dell'intervista di oggi a Elsa Fornero: ho dei dubbi sulla necessità di toccare l'art.18 (si può costruire un nuovo modello di contratto senza toccarlo, a mio avviso), ma è comunque molto interessante e completa. In ogni caso rimane il fatto che senza crescita a livello continentale possiamo fare le migliori riforme del lavoro, ma avremo sempre troppa disoccupazione. L'outplacement di cui si parla in varie proposte funziona se ci sono aziende nelle quali i licenziati possono essere ricollocati. Ma se non c'è crescita, non ci saranno aziende in grado di riassorbire il personale licenziato (Si leggano in questo senso le riflessioni di Dario Di Vico sul caso Electrolux). Per questo c'è il rischio che una ottima soluzione teorica si trasformi in una situazione squilibrata, qui e ora
In questo senso c'è necessità di soluzioni a livello sistemico che il governo Monti non può fare da solo: tutta l'Europa deve muoversi.
FMM

(...) Come se ne esce? 

«Penso che un ciclo di vita che funzioni è quello che permetta ai giovani di entrare nel mercato del lavoro con un contratto vero, non precario. Ma un contratto che riconosca che sei all'inizio della vita lavorativa e quindi hai bisogno di formazione, e dove parti con una retribuzione bassa che poi salirà in relazione alla produttività. Insomma, io vedrei bene un contratto unico, che includa le persone oggi escluse e che però forse non tuteli più al 100% il solito segmento iperprotetto».

I sindacati non ci stanno a toccare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. 

«Sono abbastanza anziana per ricordare quello che disse una volta il leader della Cgil, Luciano Lama: "Non voglio vincere contro mia figlia". Noi, purtroppo, in un certo senso abbiamo vinto contro i nostri figli. Ora non voglio dire che ci sia una ricetta unica precostituita, ma anche che non ci sono totem e quindi invito i sindacati a fare discussioni intellettualmente oneste e aperte». 

Monti ha detto che le nuove regole si applicheranno solo ai futuri assunti. 

«Certamente penso ci voglia maggiore gradualità nell'introduzione delle nuove regole rispetto a quanto abbiamo fatto sulle pensioni». (...)

Ricordi Di Beniamino Andreatta


E allora vale la pena di rievocare alcuni di quei "progetti" che al contrario andarono a buon fine. Come quando provò a scardinare un assoluto tabù, in quel lontano 1981. Lo fece in «splendida solitudine» in una compagine governativa in cui la cultura della stabilità finanziaria era non proprio ai primi posti. E fu una decisione storica, quella che condusse a esentare la Banca d'Italia dall'"obbligo" di acquistare i titoli del Tesoro non collocati sul mercato. Decisione assunta di concerto con il governatore della Banca d'Italia, Carlo Azeglio Ciampi, storica perché si riuscì a interrompere il circuito perverso del finanziamento monetario del disavanzo, causa primaria di quella pesante spirale inflazionistica che da anni attanagliava l'economia. Viaggiavamo a ritmi di inflazione del 20% con il deficit al 10 per cento. di Dino Pesole - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/Hqnt5
 
Fu un economista dello sviluppo, e anche un protagonista della storia dell'università italiana, da Trento ad Arcavacata che fondò, con Paolo Sylos Labini, nel 1972, nella convinzione che un campus di ispirazione anglosassone in quel di Cosenza potesse giocare un ruolo importante nello sviluppo del Mezzogiorno. Se di illusione si trattò, fu un'illusione riformista, modernizzatrice, meridionalista. Ne vide le contraddizioni, non si pentì di averla nutrita. Fu keynesiano, ma, come scrisse Edmondo Berselli, di un keynesismo almeno in Italia singolare, fondato su una forte inclinazione sociale, certo, ma anche sull'accettazione piena del mercato e della competizione. Fu cattolico e democristiano, consigliere economico di Aldo Moro negli anni del primo centrosinistra (1963-1968), a lungo parlamentare della Dc, una quantità di volte ministro. Ma fu un cattolico e un democristiano sui generis . Pronto a difendere anche con durezza e con un filo di superbia intellettuale la Dc, e assieme a fustigarne le pratiche correntizie e clientelari; e soprattutto, da ministro del Tesoro, a resistere a tutte le pressioni e a imporre, nel 1981, lo scioglimento e la liquidazione del Banco Ambrosiano. (...) Fu uomo della sinistra dc. Ma anche, caso non frequentissimo, profondamente e irriducibilmente anticomunista. Così anticomunista da candidarsi nei primi Ottanta, ovviamente senza fortuna, a sindaco di Bologna propugnando, del tutto controcorrente, una linea di accentuata austerità.(...)
 
Ora è qui per presentare una raccolta dei discorsi parlamentari di  Andreatta: qual è il loro tratto distintivo?
«Emerge la libertà di un pensiero estremamente originale, la forza personale nel sostenere idee e posizioni che da un lato mostravano un grande rispetto per il Parlamento, ma dall’altro sfidavano molto spesso il comune sentire dei singoli parlamentari. Andreatta aveva un modo di  interloquire sempre originale e coraggioso e tuttavia sempre fedele alla  linea presa. Il suo rispetto per il Parlamento era straordinario. Prendeva  sul serio ogni grande decisione ma anche i piccoli problemi che le Camere  dovevano affrontare, con spirito sempre illuminista e con, allo stesso  tempo una feroce razionalità e una fantasia senza freni».
 
Da presidente della commissione Bilancio del Senato Andreatta inisteva  sulla necessità di intervenire sul debito pubblico, argomento piuttosto  attuale oggi…
«Era capace di leggere in anticipo gli eventi e precederli con proposte motivate, anche se era provocatorio rispetto al pensiero dominante. Ha martellato durante tutti gli anni 80 sulla necessità di un assalto al debito pubblico, sull’abbattimento del deficit come condizione per la crescita, sul fatto che la severità vada richiesta al governo centrale come ai governi locali. Ricordo anche sue frasi tuonanti contro le promesse fiscali irrealizzabili, sull’errore di pensare, com’era allora convinzione nel Paese, che con l’inflazione si ungano le ruote del sistema. Diceva che ogni mancato aggiustamento oggi obbliga a una dura recessione domani».
 
Che peso ebbe il suo insegnamento nel rapporto costruito con l’Europa e  nell’entrata nell’Euro?
«Enorme, se si pensa che è stato proprio il suo martellare per quindici anni su questi temi che ha preparato l’opinione pubblica fino all’adesione all’Euro. A cominciare dal fatto, come diceva, che non possiamo avvicinarci all’Europa usando la svalutazione competitiva, uno strumento che distrugge l’anima di un Paese. Insisteva sull’europeismo senza compromessi ma aveva anche un’attenzione analitica per gli interessi del Paese».
 
Andreatta è stato ministro della Difesa del suo primo governo, durante il quale l’Italia ha portato avanti la missione Alba, in Albania: come si conciliava questo con i suoi valori religiosi?
«Quella denominata Alba è stata una grande missione di pace che ha in pochi mesi ricostruito uno Stato che stava candendo nella guerra civile. Nessuno pensava che un compito così importante e difficile potesse essere portato a termine in quattro mesi».
 

martedì 13 dicembre 2011

E' importante dire i nomi (David Bidussa su Linkiesta)


E' importante dire i nomi. Amb, Diop, Sougou, Mbenghe, Moustapha erano e sono persone


“ e io darò nella mia casa e nelle mie mura forza e rinomanza, meglio di figli e di figlie; darò a ciascuno una rinomanza eterna (un memoriale e un nome) che non perirà” (Isaia, Cap. 56, verso 5)
Amb Modou 40 anni e Diop Mor 54 anni sono morti oggi a Firenze uccisi dall’odio, dalla rabbia di chi si sente in diritto di disporre della vita altrui in nome della propria.
Con loro in piazza Dalmazia è stato colpito un altro senegalese, Moustapha Dieng, 34 anni, Sougou Mor 32 anni, e Mbenghe Cheike, 42 anni, tutti colpiti da Gianluca Casseri, che poi si è tolto la vita.
Gran parte deli notiziari continuano in queste ore a parlare di due senegalesi uccisi e altri feriti.
Altri, anche in nome della solidarietà parlano di “due fratelli uccisi”.

Nessuna di queste due procedure mi piace e non la trovo né condivisibile, né accettabile.
Certo nessuno usa termini ambigui, ma è importante ripetere i loro nomi, fissarli nella memoria.
E’ importante dare alle persone un nome. Dare un nome significa riconoscere loro non solo il diritto al ricordo, ma anche che hanno avuto una vita, che questa per quanto stentata, difficile, forse anche malinconica era fatta di scelte, di storie, di amori, di rinunce, di tristezze. Un breve di emozioni e i sensazioni, di ricordi, di relazioni.
Se si afferma il principio quantitiativo del numero,  anziché imporsi il criterio del nome, allora il primo passaggio verso la svalutazione della vita degli altri è già compiuto e il viaggio verso l’indifferenza è già iniziato.


sabato 10 dicembre 2011

Eutanasia Democratica? (Vita, Morte e Malattia di fronte alla Crisi)


A volte ho l'impressione che non stiamo facendo i conti fino in fondo con quello che può significare essere più poveri, oggi. O, per meglio dire, cosa possa significare rivedere la priorità su cui abbiamo costruito le nostre società. Un breve ma significativo passaggio dell'intervista di Massimo Gaggi a David Brooks ci aiuta a vederlo meglio, a toccarlo con mano. 
Senza sviluppo come sostieni il welfare? Lei di recente ha affrontato il tema, assai delicato, dell`elevato costo delle cure per i malati terminali. Pensa che quelle che fino a ieri chiamavamo le «società del benessere» taglieranno anche qui? 
«Ci eravamo illusi di poter sconfiggere il cancro, ma queste malattie si sono rivelate più complesse del previsto. Più che guarigioni, otteniamo un prolungamento dell`esistenza, grazie a cure assidue. I. dati su quello che si spende negli ultimi sei mesi di vita di questi pazienti sono spaventosi. Ci sono interi Paesi che rischiano la bancarotta per questo. Gli Usa sono uno dei candidati. Da noi l`anziano a reddito medio durante la sua vita lavorativa versa 145 mila dollari per il Medicare e ottiene cure e servizi per 435 mila dollari. La differenza la pagheranno figli e nipoti. È insostenibile. Credo che dovremo riflettere e cambiare i nostri convincimenti morali sul momento estremo della vita: darci nuove regole etiche basate non solo sulla massimizzazione dei giorni di vita biologica. Conta anche la qualità della vita, il modo in cui la si lascia. Quando ho scritto l`editoriale al quale lei fa riferimento, ho avuto moltissime lettere, anche da malati terminali e dai loro congiunti. E quelli che volevano prolungare a tutti i costi la vita, anche di pochi giorni, erano quasi sempre i parenti, non i pazienti». (Da "Il Corriere della Sera" di venerdì 9 dicembre 2011, intervista di M.Gaggi a David Brooks)
Rivedere le nostre priorità potrebbe voler dire di fatto che arriveremo a decidere chi vive e chi muore? Naturalmente Brooks non dice così: parla più attentamente di far prevalere la qualità della vita rispetto alla "massimizzazione dei giorni di vita biologica". 
E forse tutti noi abbiamo pensato - ed è stato anche un tema su cui ci siamo confrontati nel recente passato - "se succede a me; se arrivo a un certo punto, fermatevi con la cura"; forse tutti noi, rispetto alla possibilità di pesare sui nostri cari, ha pensato "se succede a me, se il risultato non è certo, se costa troppo, non andiamo avanti". Assolutamente legittimo, umanissimo, indiscutibile il pensiero personale, e la discussione intima di un nucleo familiare. 
Rimane però un velo di inquietudine, un timore grande, quando questo discorso diventa il nodo di un possibile "ripensamento" delle politiche pubbliche. Se la decisione personale diventa "facilitata" dallo Stato; se in qualche modo dovesse apparire all'orizzonte un (implicito?) "incentivo a non curare"; quale la distanza di una riflessione serena su costi e benefici pubblici della Sanità da una sottile azione di "persuasione alla morte"?
Quanto siamo distanti da una politica - democratica, si badi - dell'eutanasia? Lo dico senza voler alzare la voce, senza gridare allo scandalo, senza voler fare moralismi. Ma il problema va posto.
In generale - anche in connessione con l'allungamento della età lavorativa - sembra venire a cadere la possibilità di una vita serena nella vecchiaia:  e troppo oggi si parla di politiche per i giovani ma ancora pochissimo di politiche per gli anziani, per esempio sul lato del lavoro (quando il combinato disposto di alcuni cambiamenti necessari  - riforma delle pensioni e possibile riforma flessibilizzante del lavoro - può portare a un numero alto di disoccupati in età avanzata...)
Da questo e da altri punti di vista occorre tentare un ragionamento lungo, che ci porti anche a ipotizzare soluzioni nuove e originali; penso che ritorni necessario pensare - come ho già accennato in passato - alla possibilità che il disoccupato venga impiegato in attività pubbliche e collettive, staccandolo da una possibile situazione di emarginazione sociale.
Un ricordo: anni fa un'amica che era stata in Israele mi raccontò di un kibbutz - di cui non ricordo il nome - dove venivano fatti lavorare - anche solo un minimo ("inutile" e "improduttivo"), ma venivano fatti lavorare - due anziani signori, molto avanti con l'età e quasi inabili. 
Venivano fatti lavorare, perché facessero pienamente parte della comunità.
E' una possibilità da pensare e su cui riflettere, su cui fare i necessari calcoli, perché purtroppo i calcoli che propone con lucidità David Brooks li dobbiamo fare.
Ma dobbiamo riflettere, sapendo che nel nostro orizzonte c'è anche l'ombra di una soluzione inquietante. 
Non arrendiamoci.


Francesco Maria Mariotti

giovedì 8 dicembre 2011

Prodi: "Francesi e tedeschi devono smetterla di fare i maestrini" (laStampa)


(...) Oltretutto l'esibito consolato Merkel-Sarkozy oramai è un effetto ottico, che malcela la perdita di potere della Francia: la parità tra i due è un ricordo?
«Della debolezza della Francia si parla da qualche tempo nelle analisi dei circoli ristretti, ma quasi nessuno lo dice a viso aperto. Oramai quella a due è una costruzione artificiale. Lo dico avendo una alternativa nella testa. Mi attendevo che in questa situazione la Francia facesse la Francia, si rendesse conto della grande responsabilità verso altri Paesi, come l'Italia, la Spagna...»

Per fare un fronte anti-tedesco?
«Ma no, ci mancherebbe altro. La Francia avrebbe dovuto spingere per il ritorno ad una politica europea corale, ma questo non è nello spirito dell'attuale presidente francese».

Qualcuno sussurra che a breve potrebbe realizzarsi una paradossale convergenza di interessi tra diversi, tra Germania e Italia: fantapolitica?
«E su quale scambio si baserebbe questo nuovo asse? Noi, certo, ci siamo adeguati, perché nella vita ogni tanto capisci che se non vuoi morire, devi farti un'operazione. L'Italia si sta mettendo in sicurezza grazie ad un pacchetto pesante ma necessario. Ma la Germania è pronta a cambiare politica? In questo momento la Germania non mi sembra che voglia fare asse con nessuno».(...)

mercoledì 7 dicembre 2011

Serve un freno al potere delle agenzie, di Mario Deaglio (laStampa)

(...) Complotto o non complotto, è giunto il momento di finirla. Se vogliono che l’Europa abbia un futuro, i leader di Francia e Germania che stanno preparando il vertice dell’8-9 dicembre, nel quale sarà progettato, forse con apposite nuove istituzioni, il continente di qui a dieci-vent’anni, non possono permettere che qualcuno li faccia danzare come burattini. Eppure, in questo momento, pressoché tutto il continente è costretto a fare manovre di bilancio sicuramente necessarie ma che avrebbero potuto essere più diluite nel tempo, evitando disagi e sofferenze, sostanzialmente perché lo impongono Moody’s, Standard & Poor’s e Fitch.

Un’Europa essenzialmente fondata sulla moneta e sui mercati - visto che ha rinunciato a basarsi sui valori - non può nascere se non si sottopongono non solo la moneta ma anche i mercati, a cominciare da quelli finanziari, a regole severe. Le agenzie di rating dovrebbero essere costrette alla periodicità delle analisi e alla regolarità degli annunci e le loro valutazioni dovrebbero limitarsi a parametri finanziari; e qualora non rispettassero queste regole potrebbero essere multate e dovrebbe essere loro impedito di agire. La funzione di valutazione dei titoli potrebbe anche essere affidata a enti pubblici internazionali, come il Fondo Monetario, proprio perché si tratta soprattutto di una funzione pubblica.

Occorre muoversi rapidamente in questa direzione per evitare che il mercato mangi se stesso. Dopo essersi mangiato l’Europa.

martedì 6 dicembre 2011

"Le proteste sono giustificate, ma i cittadini italiani capiranno" (Mario Monti)

«Ho invitato tutti a considerare che questa operazione di rigore, equità e crescita chiedeva sacrifici. Ma l'alternativa non era quella di andare avanti come niente fosse ma quella di correre il rischio che lo Stato non potesse pagare stipendi e pensioni. Le proteste sono giustificate, ma i cittadini italiani capiranno»(...) «I mercati sono una bestia feroce e oggi sono imbizzarriti: noi li dobbiamo domare. Lavoriamo per i cittadini e non per i mercati, ma dobbiamo tenerne conto perchè il loro funzionamento è essenziale senza però doversi inginocchiare». Dopo una manovra che ha permesso al paese di «non deragliare dai binari» occorre che anche «le politiche economiche europee facciano i loro progressi. L'area dell'euro, insomma, deve essere ripensata rapidamente. La Ue spalanchi gli occhi, i mercati spalanchino gli occhi per guardare a quello che ha fatto l'Italia. E lo ha fatto per se stessa oltre che per le esigenze europee» ridando al paese «titolo per partecipare da protagonista e non da osservatore ai vertici internazionali» (...) «Il mio Governo è in una situazione in cui deve fare, rispetto al mondo politico parlamentare, un equilibrismo. Ma lo faccio molto volentieri e credo ci riusciremo. Metà del parlamento vuole una continuità rispetto al governo Berlusconi, l'altra metà una discontinuità». Sul fronte della continuità, Monti assicura il rispetto degli «impegni che il presidente Berlusconi ha preso, molto responsabilmente, nei confronti dell'Ue; la discontinuità cerchiamo di metterla nel dare più accento sociale e nel tirare fuori l'Italia da questo guaio».(...) http://www.corriere.it/politica/11_dicembre_06/monti-porta-porta_d88181a2-2042-11e1-9592-9a10bb86870a.shtml

La conferenza stampa di Monti: una piccola rivoluzione...


Perché la conferenza stampa di Monti è stato un momento importante, anche al di là dei contenuti. Alcune riflessioni che mi paiono di grande interesse.

FMM

(...) Mi chiedo perché la politica non abbia mai saputo parlare in questo modo agli italiani. Monti con parole essenziali ha fornito ieri una spiegazione dicendo che lui e il suo governo, a differenza di chi l’ha preceduto, non hanno alcun interesse elettorale da difendere mentre i partiti guardano a ciò che può turbare il proprio elettorato. Tuttavia la differenza non è questa. Guai se immaginassimo che è in grado di governare solo chi rinuncia a rappresentare una parte ovvero che risponde a un elettorato. Quel che separa i governi di ieri da quelli di oggi è la sincerità. La politica di ieri aveva bisogno di creare santi e mostri, di rappresentazione camuffate della realtà. Questi invece dicono pane al pane e vino al vino. È questo bagno di verità che può cambiare la politica italiana se i suoi leader, quando toccherà a loro riprendere la guida del governo, sapranno mostrarsi altrettanto sinceri, disinteressati, temporanei.(...) Leggi il resto: http://www.linkiesta.it/blogs/mambo/monti-continui-dire-la-verita-ed-eviti-porta-porta#ixzz1ffPu9X6a

La conferenza stampa di ieri sui contenuti della manovra è destinata a diventare uno dei momenti più importanti della storia recente delle nostre istituzioni. Oltre ad aver presentato riforme e provvedimenti di una certa entità, l’incontro di ieri ha anche mostrato un sensibile cambiamento nel modo di fare comunicazione rispetto al governo del fu PresdelCons. Gli interventi dei ministri sono stati tutti estremamente concreti, con una particolare attenzione per il dettaglio e la precisione, perché i giornalisti presenti capissero bene senso e forma delle misure, come ha dimostrato Piero Giarda quando è arrivato il suo turno. Quando ha preso la parola, il ministro per i Rapporti con il Parlamento e per l’Attuazione del programma ha sorpreso i giornalisti mettendosi a fare una specie di fact-checking di quanto avevano detto i suoi colleghi, correggendo i loro errori e ricordando le cose che avevano trascurato nella loro esposizione. Una pratica inusuale che ha contribuito a dare autenticità all’intera conferenza stampa, oltre che a dare un senso all’incarico di Giarda, in passato ricoperto da personaggi con comportamenti ben più astratti e fumosi. http://www.ilpost.it/2011/12/05/il-fact-check-del-ministro-giarda/

Va detto che Monti ha saputo rivolgersi agli italiani con il linguaggio alto e drammatico adeguato alla circostanza. Mai come stavolta si è avuta l'esatta percezione del «governo del presidente», forte della sua relazione speciale con il Quirinale, e dunque dei mutamenti intervenuti sulla scena pubblica. Sempre rispettoso verso il Parlamento, il premier si è riferito ai partiti (anzi, alla «politica») con il tono di un benevolo Lord Protettore che ha il diritto di non essere disturbato nel suo lavoro, perché grazie a lui le stesse forze politiche potranno ritrovare in futuro un rapporto positivo con i cittadini. di Stefano Folli - Il Sole 24 Ore - leggi su http://24o.it/sk4Ne

domenica 4 dicembre 2011

Preparare il futuro

Ascoltando la conferenza stampa del Governo la prima sensazione è stata di orgoglio ed entusiasmo per decisioni dure, ma inevitabili, e per i cambiamenti che vengono annunciati (stupenda la proposta di Monti di "consultazione trasparente con tutti i cittadini" attraverso un Libro Verde con successiva apertura a proposte, suggerimenti, correzioni, e infine decisione); ma per il Paese, per tutti noi, sarà dura: dobbiamo spiegare bene tutte le decisioni, ascoltando il disagio e il legittimo dissenso che si formeranno, inevitabilmente.


Dobbiamo unire il Paese, che è fatto anche da coloro che - legittimamente - protesteranno. 


Quale dunque il ruolo delle forze politiche? Soprattutto quello di cominciare a costruire - appoggiandosi sull'azione del governo - una prospettiva, un futuro. L'orizzonte che deve spiegare - insieme al governo Monti, ma ben oltre il governo Monti - il senso di questi sacrifici. 


Tutta l'Europa deve essere però coinvolta in un processo di rinnovamento; altrimenti, se i cittadini percepiranno un'Italia debole e magari la sensazione di un eccesso di tutela da parte di altri Stati (Germania e Francia che "ridono" di noi, per dirla con una brutta immagine che abbiamo visto nelle settimane scorse), il rischio di un "rinculo" nazionalista e antieuropeo potrebbe esserci. 


Per questo il governo Monti dovrebbe essere accompagnato da una collaborazione attenta e vigile - e anche critica, laddove necessario, naturalmente - di tutte le forze politiche, che dovrebbero aprire tavoli permanenti di consultazioni con le forze "sorelle" in Europa. 
A destra come a sinistra. Dobbiamo salvare l'Italia, rifondare l'Europa.


Un'ambizione minore vorrebbe dire una tragica sconfitta per tutti.